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Luigi Bernardi, o del curatore editoriale come lavoro autoriale

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Tra le numerose iniziative organizzate da BilBolBul 2015, non si può non segnalare la prima esposizione commemorativa dedicata all’opera di Luigi Bernardi, autore ed editore di importanza cruciale per la storia del fumetto italiano. Per l’occasione, chi scrive è stato chiamato, insieme ad alcuni suoi collaboratori e partner storici, a intervenire all’interno di un convegno / tavola rotonda svoltosi prima dell’inaugurazione della mostra. Se agli altri presenti era stato chiesto di parlare di Bernardi sfruttando il punto di vista di chi ha avuto la fortuna di lavorarci assieme, a me era stato chiesto di darne un interpretazione attuale e slegata da ogni forma di legame emotivo. Ecco il testo del mio contributo.

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Che fine ha fatto Orient Express?

Lo ammetto senza problemi, seppur con un filo di vergogna: prima di questa occasione non avevo mai letto nulla curato da Luigi Bernardi. Di conseguenza quando, circa un paio di mesi fa, ho ricevuto l’invito a partecipare, la mia reazione è stata quantomeno imbarazzata. Mi si chiamava a parlare di un grande personaggio di cui conoscevo solo il nome e della cui parabola lavorativa mi sarei limitato a citare qualche nome a memoria, senza mai aver approfondito davvero cosa significasse. Sinceramente ero a un passo dal rifiutare, quando mi si è presentata la possibilità di poter leggere per la prima volta qualche numero selezionato delle riviste da lui ideate e dirette.

Arrivandoci totalmente vergine, privo di ogni forma di legame emotivo o nostalgico, avrei avuto la possibilità di cercare di capire come mai a noi, che certe cose non le abbiamo vissute in diretta, sia arrivato così poco del suo lavoro. Per evitare di incappare in supposizioni che sarebbero potute appartenere solo a me, per prima cosa ho portato avanti un piccolo sondaggio tra lettori di fumetti di circa la mia fascia d’età. E se evitiamo di contare quelli che sono riusciti a leggere qualche uscita di Orient Express per vie parentali – tipo i vecchi fumetti del padre o della zio – il panorama è davvero desolante. Soprattutto alla luce della qualità di queste pubblicazioni. Una volta toccati con mano i frutti del suo lavoro, seppur con qualche cono d’ombra, è impossibile non cambiare completamente prospettiva e non percepire come straniante questa perdita di importanza nel tempo.

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Per cercare di capire cosa sia successo ho deciso di considerarmi, in quanto tipico lettore medio, come un campione generico del pubblico fumettòfilo di questi anni. Magari leggerò anche un sacco (nel senso che la fatidica barriera dei 12 libri all’anno del cosiddetto “lettore forte” la supero senza problemi) ma tendo a rimanere sempre e comunque in ambiti generalisti. Per chiarirci: se esce la graphic novel di cui tutti parlano trovo sicuramente il modo di leggerla; se esce il primo episodio di una nuova serie Bonelli non lo manco di sicuro. Cerco di rimanere aggiornato sulle nuove mode nipponiche e statunitensi e, qualche volta, mi accade anche di mettere gli occhi su un autore promettente prima che venga del tutto sdoganato. Insomma, leggo il più possibile senza essere condizionato da obblighi accademici che non mi appartengono o da completismi vari. Diciamo che il mercato è talmente affollato che spesso ti basta quello che viene a galla per essere oberato di letture arretrate. Figuriamoci se ci si mette a scavare nel passato.

Eppure questo periodo storico pare essere talmente ossessionato da ristampe, re-edizioni, recuperi filologici, che si finisce per forza di cose ad allargare il proprio orizzonte anche verso il passato. Tra i vari allegati ai settimanali, le ristampe lussuose delle vecchie run di Marvel o DC e così via, si finisce per avere una panoramica abbastanza chiara non solo sul presente ma anche sulle decadi passate. Senza volerlo, notate bene – ed è questo il punto importante. Un sacco di cose le si conosce e le si apprende anche solo per inerzia. Eppure, nonostante questo clima nostalgico “per forza di cose”, di Orient Express non mi è arrivato nulla. Non voglio dire che se non arriva a me allora non è arrivato a nessuno, non sono così accentratore. Però non possiamo neppure sperare che tutti gli appassionati di fumetti siano archeologi con la fortuna di nascere in poli culturali come Bologna. In realtà, per la maggior parte vengono dalla provincia (non è che esistono solo Milano o Torino o Roma) e si prendono le ultime cose su Amazon o nella fumetteria più vicina. Lettori medi, come me. Eppure, senza sforzarmi troppo vagando per mercatini e antiquari, mi sono letto tutto il Kriminal di Magnus. Praticamente l’opera omnia di Crepax. Gli esordi di ogni supereroe statunitense. Ho imparato a conoscere il passato senza il minimo sforzo, perché era lui a venire da me.

In un clima simile sarebbe lecito aspettarsi un minimo di ritorno anche per Orient Express. Non dico leggerne tutti i numeri, ma almeno conoscere per sentito dire qualche nome – tolti i soliti noti – pubblicato su quelle pagine. E invece nulla. Questo mi ha spinto a farmi qualche domanda su quale sia la barriera che impedisce all’eredità di Bernardi di arrivare al pubblico generalista odierno. Poi mi sono messo a leggere le riviste che mi sono state gentilmente spedite, e qualche idea potrei essermela fatta.

Di rivoluzione digitale e customizzazione

Prima di tutto è proprio l’idea della rivista a essere ostile al pubblico odierno. Oggi tutto deve essere su misura, costruito attorno al fruitore. Non si leggono neppure più albi interi: si è passati a leggere la singola pagina del webcomic. Figurarsi se in un’ottica così incentrata sulla customizzazione si finisce per accettare che qualcuno stia a selezionare i fumetti che dobbiamo leggere. La realtà delle cose è che il tanto atteso sorpasso del fumetto digitale sul fumetto fisico c’è stato, solo non nella forma in cui ce lo aspettavamo. Si pensava che questo sarebbe avvenuto in una modalità più tradizionale: al posto di spendere qualche euro per un volumetto stampato li avrei spesi per un file da sfogliare sul pc o sul tablet. La rivoluzione ha assunto fisionomie diverse, con l’arrivo di fumettisti capaci di fare numeri incredibili pur essendo privi di editore. Tanto da costringere le case editrici tradizionali a corteggiarli per poter ristampare le loro storie su carta. E con un successo strepitoso, vedi i vari Zerocalcare, Sio, Don Alemanno. Autori che vendono un numero tale di copie da poter permettere poi agli apparati tradizionali esperimenti altrimenti impensabili, tipo Bao Publishing che pubblicherà Building Stories di Chris Ware.

La rivoluzione digitale quindi c’è stata e sta cambiando davvero le cose, dai modi di promozione alla possibilità di raccogliere fondi tramite Kickstarter o Patreon. E tutto è partito dando la possibilità al pubblico di fruire come e quando vuole i suoi contenuti/titoli preferiti, senza nessuna struttura tradizionale di mezzo.

Per lo stesso motivo qualche settimana fa si sono viste scene di estati in concomitanza dell’arrivo di Netflix in Italia. Nessuno vuole più essere limitato da un palinsesto che ti costringa a perdere tempo con cose di cui non ti interessa nulla. E se chi ha superato i vent’anni almeno un ricordo di com’era prima lo mantiene, pensate agli adolescenti. A cui perfino questa nuova alternativa sembra limitante, rispetto al fare completamente ciò che si vuole grazie alle scorciatoie del web. Come abbiamo già detto, tutto deve essere costruito attorno al fruitore. Che si è ri-abituato al fumetto sviluppando un approccio in due fasi: in un primo momento si affeziona e si appassiona alla tavola/striscia online (quotidiana, settimanale, bi-settimanale…), poi ne consacra il successo con la raccolta su cartaceo di quanto ha già letto, o con l’acquisto di un’opera “lunga”, impossibile da destinare al web. Ma tutto parte dal fatto che a mettere l’autore in tale posizione privilegiata è stato lui stesso, non l’editore lungimirante. Sono volumi che avranno successo ‘sicuro’ perché lo avrà già deciso il pubblico. A cui interessa talmente poco di quel che non ha imparato a conoscere tramite gli appuntamenti regolari, da non volere null’altro a intaccare la compattezza del suo acquisto. Vedi per esempio lo Scottecs Magazine di Sio, totalmente incentrato sul suo autore nonostante si tratti – appunto – di un magazine. Perfino gli apparati redazionali all’interno di questa testata si stanno riducendo; eppure nessuno sembra prendersela troppo.

Pensate quindi come possa essere percepita “fuori tempo massimo” l’idea di un contenitore già pronto, dove trovare un po’ di tutto. Prendiamo l’informazione. Nessuno più legge una particolare testata, piuttosto ci si scarica sul telefono qualche aggregatore di notizie. Si fa un elenco dei siti e degli argomenti a cui si è interessati, e giorno per giorno un’applicazione prepara il nostro quotidiano personale. Con il passare del tempo sarà in grado di gestire i vari suggerimenti in maniera sempre più centrata, senza che noi si debba più segnalargli le nostre preferenze. Si tratta di una sorta di curatore basato su algoritmi la cui variabile, in fondo, siamo noi. Sembrerà assurdo, ma da un tale punto di vista pensare che qualcuno scelga per noi i fumetti migliori, li inserisca in un contesto ben preciso e li accompagni a un comparto redazionale senza mai chiederci cosa ne pensiamo, è probabilmente inaccettabile.

Il sommario di Orient Express n.1
Il sommario di ‘Orient Express’ n.1

Personalmente, trovo questa modalità stimolante, quasi che questo selezionatore sia lui stesso l’autore dell’intero prodotto. Il che mi accade, forse, perché i trent’anni li ho superati, e un minimo retaggio del vecchio sistema culturale ancora lo mantengo. Ricordo ancora quando i portali web erano archivi di informazioni preziose, perché chi ci scriveva era davvero un esperto in materia. Costruirsi un sito solo per il gusto di condividere con altri appassionati i propri scritti in materia era davvero sinonimo di passione e dedizione, considerando poi quanto era difficile procurarsi materiale di prima mano. Oggi tutto è cambiato e dobbiamo essere in grado di metterci del nostro in qualsiasi cosa. Non dico che si dovrebbe accettare passivamente tutto quello con cui veniamo in contatto – assolutamente no – ma perlomeno prendere in considerazione l’idea di analizzare pacchetti di dati un poco più estesi delle schegge a cui ci stiamo abituando.

L’impossibile popolare d’autore

Uno degli aspetti più paradossali di tutta questa situazione è che, per certi versi, le riviste non hanno mai vissuto un periodo migliore di oggi. Abbassando in maniera significativa le tirature si sono potute specializzare in ambiti ultra settoriali (pensate a Sneaker News, incentrato sulle scarpe da ginnastica o a The Cleaver Quarterly, sulla cucina cinese), optando quasi sempre per una veste di lusso. Con uscite molto diradate, uno o due numeri all’anno, ma curatissime. Spesso incentrate su articoli molto lunghi, con un grande apporto di illustrazioni e fotografie. Da godere appunto come piccole opere d’arte, dove il singolo contributo risulta importante quanto la mano che li ha raccolti e messi sotto lo stesso ombrello. Per rimanere in ambito fumettistico, alla Lucca Comics appena trascorsa il premio alla migliore autoproduzione è stato vinto proprio da una di queste riviste, Lucha Libre, dove attualità, fumetto e comunicazione visiva convivono sulle stesse pagine in maniera organica ed elegante.

Ed è forse questo il trucco per far funzionare questo tipo di magazine, spesso dal prezzo davvero alto (tipo i 18 euro a numero per l’antologico a cadenza annuale Under Dark Weird Fantasy Ground di Hollow Press): convincere l’acquirente che sta investendo il proprio denaro in un prodotto di lusso. Fuori dal mercato generalista, un contesto in cui artisti e curatori hanno ancora lo spazio che meritano. Anche se magari vendono in un anno quello che Sio vende in una mattinata a Lucca. Con una mentalità del genere, forse Orient Express potrebbe avere una nuova vita; ma stiamo facendo i conti senza l’oste.

Perché a Luigi Bernardi – mi sento di ipotizzare – questa settorializzazione verso l’alto non sarebbe proprio andata giù. In uno degli editoriali dei primi numeri, definisce infatti Orient Express come una “rivista a metà”. Sul sito che gli è stato dedicato troviamo la seguente descrizione, tratta da Il Fumetto n. 16 (1988):

La proposta di Orient Express non era il pastone dove si poteva trovare tutto e il suo contrario (come le riviste di Rocca), non aveva la convinta e studiata aggressività di Frigidaire, non era penzolante verso il discutibile gusto “popolareggiante” degli ispano-argentini de L’Eternauta (…) e non credeva nel trasformismo eletto politica editoriale di Alter Alter.

La sua idea era quella di creare una rivista di narrazione popolare indirizzata però a un pubblico che sapesse apprezzare la bellezza, innamorato del fumetto in maniera tale da riconoscere la poetica di almeno qualche autore. Luigi, con tutta l’umiltà del mondo, cerca di descriverci questa vocazione come una ragionevole “via di mezzo” che – almeno nei piani – avrebbe potuto raccogliere un bacino di utenti piuttosto ampio. Invece era proprio la scelta meno scontata e più difficile che potesse fare. A differenza delle altre testate citate, Orient Express era l’unica che richiedeva una partecipazione attiva al lettore e che si rifiutava di rinchiuderlo in recinti ben definiti. Non era né facile come certe raccolte messe assieme senza troppi crismi, né bella per il gusto di essere bella. Non era indirizzata al pubblico amante del fumetto di genere come quello dell’Eternauta ma neppure riusciva a imporsi come fenomeno autoriale come Frigidaire.

Se cerchiamo di analizzare queste due opzioni – per un attimo lasciamo in disparte il lettore casual, quello dei webcomics di cui si diceva prima – e traslandole ai giorni nostri, possiamo immaginare senza problemi i lettori tipici di ogni fazione: da una parte l’acquirente Bonelli (o Marvel o DC) desideroso di emozioni e avventura; dall’altra l’appassionato di graphic novel e di autoproduzioni. Sempre in cerca di maggiore profondità e di una determinata estetica artistoide. Orient Express invece puntava a lettori desiderosi di leggersi un bel giallo scritto e disegnato da un autore che si rifiutava di scomparire dietro le esigenze editoriali. Esattamente il punto di incontro tra le due ipotesi appena descritte. Abbiamo quindi una scelta forte, ben definita, decisamente scomoda e che forse neppure all’epoca era stata capita del tutto. Figuriamoci come potrebbe essere percepita oggi, dove tutto deve essere ulteriormente semplificato. La presenza di una figura così forte all’interno di un contenitore che non posso segmentare a mio piacimento (come invece posso fare con le uscite di una casa editrice, dove l’identità forte sembrerebbe premiare, visto che posso apprezzare il progetto nella sua interezza ma acquistare solo determinati volumi) è assolutamente una cosa incomprensibile alle generazioni più giovani.

L’ibridazione e la fine dei generi puri

Sempre parlando di ultime generazioni, una seconda barriera per la diffusione dell’eredità di Orient Express potrebbe essere rappresentata dalla ‘purezza’ dei generi che la compongono. Bernardi parla genericamente di avventura, ma se scendiamo nel particolare troviamo il giallo, il thriller dalle connotazioni politiche e tutta un’altra serie di variazioni davvero compatte. Se invece guardo cosa ci circonda oggi, troviamo: il thriller soprannaturale con una spruzzata di umorismo e fantascienza; l’horror fantastico con ambientazione urbana e inserti romantici; e così via. Il genere “puro” è oggi una razza rarissima che ha lasciato il passo all’ibridazione continua.

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Non possiamo negare che anche in Orient Express spesso si incappava in schegge di contaminazione fuori dalla rigida logica editoriale imposta dal suo fondatore (alcune inserite semplicemente per arrivare al numero giusto di pagine – lo ammette Bernardi stesso – altre perché notevoli, come il Big Sleeping di Daniele Panebarco). Ma per il resto, era un autentico monolite di purezza. E questa cosa spesso risulta davvero pesante se fruita nel 2015. Nonostante – come si diceva prima – si stia vivendo in un epoca di recupero continuo del passato, l’idea di un’opera di narrativa che ambisca a rimanere nei suoi limiti in maniera così rigida è qualcosa che proprio non riesce a ‘bucare’ la percezione odierna. Soprattutto nei generi trattati su Orient Express.

Basti vedere cosa succede al cinema. Quando arriva un film di genere che non sia un kolossal in cui si infila di tutto e di più, quasi ci si chiede quale sia il senso di mandarlo in sala. Se una volta il poliziesco, il giallo, la spy story erano generi che si bastavano da soli, oggi non è più così. Nel 2011 usciva La Talpa di Tomas Alfredson – un film di spie purissimo – e quasi si gridava al miracolo per il coraggio di costruire un prodotto che non facesse nulla per accontentare il pubblico moderno, pur restando ben piantato nella produzione d’intrattenimento. Non c’erano mirabolanti scene d’azione, virate fantascientifiche o ironia da quattro soldi. Solo uomini invisibili – come deve essere una spia – che facevano il loro mestiere cercando di passare inosservati. Con tutto quello che ne derivava a livello di linguaggio, compreso ritmo non certo adrenalinico e messa in scena sommessa. Oppure, al contrario, pensiamo al BlackHat di Michael Mann, arrivato nelle sale quest’anno. Nonostante sia un filmone di un regista enorme, paga lo scotto di essere un semplice thriller informatico. Dove si fanno solo cose da thriller informatico, come battere furiosamente su di una tastiera. E questo non basta più, perché al pubblico dei multisala pare un qualcosa di sciatto. Manca l’effetto wow che mi costringe a rinunciare allo streaming a favore dall’andare al cinema. E infatti al botteghino è stato un disastro con ben pochi precedenti.

Schiacciato tra tutti questi pastoni informi, dove ogni forma di barriera è stata abbattuta, un progetto come Orient Express pare davvero un qualcosa d’altri tempi. Tanto lontani da non meritare neppure il privilegio dell’idealizzazione ruffiana del post-moderno. E questo non è certo un traguardo da poco, sia chiaro. Per quanto Bernardi si possa essere rammaricato del poco successo raccolto dalla sua creatura, il pensare di portare avanti un progetto così privo di compromessi – o almeno è questo il senso che trasmette a me, lettore del 2015 – è davvero un grande risultato. Sarebbe stato troppo facile accodarsi al gruppo dei cannibali, speculando su una moda che probabilmente avrebbe premiato anche oggi a trent’anni di distanza, oppure inseguire il modello “pseudo poetico” – così lo chiamava lui – dell’Eternauta. Invece si trattava di un progetto molto più ben definito, dotato di un’identità molto forte e indirizzato a una fetta di pubblico forse davvero esigua, ma attenta e colta.

La dura strada del Made in Italy

Anche la scelta di dare voce a soli autori italiani avrebbe risentito di questo posizionamento così sfumato e bisognoso di una decodifica, sospeso tra due poli chiari e comprensibili a tutti. Nel panorama contemporaneo, tra l’esperto e capace autore del bonellide da edicola e quello – se mi perdonate la semplificazione – più artista da graphic novel e da libreria di varia, manca tutta quella fascia di fumettisti italiani capaci di generare fumetto d’intrattenimento dotato di indubbia profondità. Per non fare che qualche esempio, quello che hanno sempre cercato di fare – riuscendoci – i Fratelli del Cielo (o SuperAmici, che dir si voglia) o Gigi Simeoni; e che hanno di volta in volta provato a produrre diverse case editrici, senza tuttavia risultati davvero eclatanti (sia chiaro: si parla solo di popolarità, non certo di qualità).

La prima uscita italiana di Bao Publishing, sono stati i robottoni di Vanzella e Genovese (Beta); prima c’era stato tutto il progetto Italians do it better! di Edizioni BD; l’anno scorso Panini Comics ha pubblicato la serie Highway To Hell dello studio Italian Job; e così via. Tutti tentativi interessanti, ma che non hanno mai realmente cambiato le carte in tavola. Oggi, come nel 1981, manca l’imporsi di quella tipologia di autori in cui Orient Express voleva dire la sua. Bernardi introduceva così il primo numero della sua rivista:

«La scoperta di una nuova scuola italiana – che si pensava inesistente – con caratteristiche originali rispetto a quelle di altri paesi, capace di adoperare la fantasia non per inventare nuovi mondi, ma per rendere più convincente e avvincente il nostro.»

La volontà di distaccarsi il più possibile dal modello imperante, puntando alla ricerca di una propria identità ben definita è tangibile, e la si può perseguire – e qui va un grande plauso a Bernardi – non giocando sul sicuro, ma annusando l’aria che tira cercando di rimanere sul pezzo il più possibile. Troppo facile scegliere vie populiste già battute, quando invece si può essere i primi a esplorare nuove strade. Anche se a livello di contenuti si trattava di tornare sui propri passi, rinnegando i primi germi di quella contaminazione di cui si parlava prima per puntare a un ritorno al genere più squadrato e cristallino.

Nell’editoriale del primo numero si leggeva:

«So invece che quella debole parentesi – intesa come la divisone tra fumetto e avventura pura & dura avvenuta nei primissimi anni 80 con l’edizione italiana della rivista francese Métal Hurlant (questa cosa non è esplicitata nel testo, è più una frecciatina; spero di averla interpretata nel modo giusto) – si è già chiusa, e che sui territori devastati si è tornati a lavorare con grande eccitazione. Orient Express si inserisce nel nuovo fervore per il racconto a immagini.»

E infatti nel secondo numero un lettore entusiasta scrive «Dentro è proprio come pensavo: avventura, soprattutto avventura. Non vedo metallo urlante e simili, barocchi grafici, terrori metropolitani. Che quella parentesi sia finita?». Che in seguito la Storia gli abbia dato ragione o meno, è un altro paio di maniche. Ciò che conta davvero è la volontà di perseguire una propria visione personale del presente, puntando a fare da incubatore a una nuova generazione di artisti chiamati a colmare un vuoto non ancora risolto neppure oggi. Una nuova scuola italiana di autentici autori e non di mestieranti – li voleva liberare dalle pagine di Lanciostory – che Bernardi vedeva come prossime voci di un fumetto popolare stanco di essere classificato per forza di cose come ‘basso’. Una visione molto moderna del fumetto, insomma. Praticamente la stessa dietro al successo straordinario della nuova Image Comics negli Stati Uniti di oggi. E per certi versi, la stessa visione che lo porterà successivamente a concepire un’altra rivista come Nova Express.

La fine di un’epoca

Se evitiamo di scendere nei particolari e ragioniamo per sovrastrutture, non ci sono molte differenze tra Orient e Nova Express. Entrambi sono veicoli scelti da Bernardi per misurarsi con una nuova forma d’autore che lui vedeva più adatta a quegli anni. Se nel 1982 c’era bisogno di Orient Express, nel 1991 il suo corrispettivo perfetto era Nova Express. Abbiamo ancora il famigerato posizionamento a metà – sospeso tra opere d’autore e racconto popolare – ma questa volta tutto incentrato sulla contaminazione più estrema e sull’internazionalità.

nova express fumetti bernardi

Basti, a testimonianza di questo, il lavoro fatto dal suo marchio Granata Press per portare il manga in Italia. In volumi o magazine specializzati, così come all’interno di un antologico più occidente-centrico come quello di cui stiamo parlando. Dove infatti trovava spazio Crying Freeman. In un mondo che pareva sempre più piccolo e connesso, parlare di divisioni geografiche tradizionali non aveva più senso. Inserire Kazuo Koike accanto a Frank Miller o alla fantascienza di matrice francese è stato il primo passo verso quella fusione di linguaggi che ha portato ai manga disegnati in Italia o alle contaminazioni stilistiche in grado di furoreggiare ancora oggi. Ancora una volta torniamo al primo punto di tutto il discorso: le riviste di Bernardi non sono semplici contenitori, ma autentiche diramazioni della sua autorialità. Che non deve essere per forza di cose sempre coerente nelle sue esternazioni, ma sempre ben chiara negli intenti.

Quello che considero il pregio maggiore di queste riviste, dunque, avrebbe rappresentato oggi il suo punto di maggiore criticità. La visione di una persona colta e preparata, capace di portare avanti progetti complessi come questi nonostante i metodi produttivi quasi casalinghi (lui stesso ammetteva che aveva imparato a fare editoria semplicemente facendola e correggendo gli errori di volta in volta), avrebbe rappresentato una zavorra per via della sua intransigenza e della sua incapacità di farsi ingabbiare in schemi già noti a tutti. Stiamo parlando di uno scrittore, curatore, sceneggiatore e imprenditore capace di muoversi sempre per la sua personalissima strada. Senza mai arrivare a eccessi gratuiti che ne avrebbero in qualche modo facilitato l’emersione, ma senza neppure l’accettazione incondizionata di regole dettate da altri.

Il risultato purtroppo è quello di cui parlavo all’inizio: del suo lavoro è rimasto pochissimo. Perché difficilmente riassumibile in un pugno di facili definizioni, come quello di tanti altri esponenti della sua generazione.

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