Nilde Iotti, in una famosa seduta della Camera dei Deputati del 7 dicembre 1951, scagliava i propri strali contro i fumetti. In particolare contro il filo-americanismo allora, e forse non solo allora, imperante in questo settore. Per chi non lo conoscesse, ecco un estratto dal suo intervento, intitolato Sulla vigilanza e controllo della stampa destinata all’infanzia e all’adolescenza:
Un mondo senza eroi. Senza niente per cui valga la pena combattere e rischiare. Soprattutto in cui non ha senso mettersi in gioco per gli altri. Quando noi eravamo bambini, il giorno della festa di Carnevale, quali travestimenti indossavamo? Chi erano i nostri idoli? C’era sicuramente Zorro, la volpe, che combatteva per liberare la California dall’oppressione spagnola. E poi Sandokan, pronto a rischiare la vita per affrancare il suo popolo dagli inglesi. L’elenco potrebbe continuare. Con Tarzan, poi sparito nel nulla dopo decenni di onorato servizio. Eroe ecologista, tra l’altro, sempre pronto a proteggere natura e animali dall’uomo bianco senza scrupoli.Oggi i canali dedicati ai ragazzi si sono moltiplicati. Alcuni dei vecchi personaggi sono rimasti. Hanno le stesse caratteristiche, ma la trama si è semplificata, ridotta all’essenziale. A dominare sono i combattimenti, i corpo a corpo. L’intreccio sfuma insieme con la caratura positiva dei protagonisti. Gli eroi dei libri dei ragazzi dei nostri tempi erano quasi tutti maschi. Oggi i maschi nei cartoni sono spesso meschini, di scarso valore, codardi. Si dirà: ci sono le personaggi femminili meno stereotipati, poste maggiormente al centro dell’azione. Largo, arrivano le donne. Il problema è che le eroine arrivano sì, ma con vestiti aderenti, pose sensuali e sguardi ammiccanti. Le eroine dei giornaletti a fumetti sembrano molto più interessante al look che alla «battaglia per il bene».
Sembrano passati, come del resto lo sono, più di sessant’anni da quei giorni in cui il fumetto veniva visto come uno strumento che il demonio capitalista sembrava aver creato appositamente per traviare i nostri giovani. Peccato che l’estratto precedentemente proposto sia un inganno, un gioco. Le parole riportate non sono, infatti, quelle pronunciate dall’onorevole Iotti nel 1951 bensì quelle – da me opportunamente rimaneggiate, per eliminare ogni riferimento alla contemporaneità – scritte solo qualche giorno fa dalla giornalista Rita Querzè, classe 1967, sulle pagine del Corriere della Sera. L’articolo completo e non rimaneggiato, intitolato Da Zorro al coniglio rosa. È il crepuscolo degli eroi? Le serie televisive e i cartoni per ragazzi sono dominati da personaggi a volte mediocri, spesso cattivi e violenti: ecco chi e perché ha preso il posto di Sandokan, è disponibile qui.
L’autrice che si occupa di – come recita la breve bio sul sito del giornale – “lavoro, consumi, imprese, temi sociali, non profit (un marito e due figli)”, pare abbia deciso di prendersi una pausa da temi impegnativi e importanti come quelli delle dimissioni in bianco, degli assegni di maternità e del lavoro al femminile, per dire la sua sulla produzione d’intrattenimento dedicata all’infanzia. Leggendo il suo articolo si ha la possibilità di fare un viaggio nel tempo alla volta del secondo dopoguerra. Al di là di alcuni evidenti anacronismi, che ho voluto mantenere nella riscrittura dell’articolo di Querzè, tolti i riferimenti alla televisione, a Peppa Pig e ad altri personaggi dei nostri giorni, l’illusione è quasi perfetta. Si veda di seguito, per un confronto, un estratto dal vero intervento della Iotti:
Noi non troviamo più, in questa forma di letteratura per ragazzi, alcuna traccia dello spirito che ha animato la stessa letteratura del secolo scorso. Non troviamo più, ad esempio, niente che possa essere paragonato al romanzo Robinson Crusoe od agli stessi romanzi di Giulio Verne. L’ispirazione, in fondo, di quelle opere, che hanno educato alcune generazioni di uomini, era l’amore verso la conoscenza, la scoperta del mondo, direi la esaltazione della personalità umana che riesce a dominare le forze stesse della natura, e quindi a carattere altamente educativo. Non troviamo, neppure più, in questi giornali per ragazzi, traccia dello spirito dei romanzi di Salgari, che ognuno di noi ha letto e su cui si è eccitato, forse; quei romanzi di Salgari i quali contenevano già un elemento negativo – l’eccessivo amore dell’avventura – ma tale elemento negativo veniva compensato dal fatto che nell’avventura vi era esaltazione della lotta di un popolo in difesa dell’indipendenza del proprio paese, della virtù, della generosità, dell’eroismo generoso e disinteressato- […] Oggi, nei giornali a fumetti troviamo soprattutto la esaltazione dello spirito di violenza, degli istinti di aggressione in quanto tali, l’esaltazione dell’uccisione per il piacere dell’uccisione stessa, in un modo che non può non preoccupare coloro che sono pensosi della educazione dei nostri giovani; vi è insomma l’esaltazione dell’istinto della lotta fra gli uomini. [L’intero intervento è disponibile qui, alle pp. 47-57].
Le differenze fra la retorica un po’ spicciola della Querzè e quella, certo rabbiosa e ammantata di un puritanesimo austero e sovietico, ma anche infinitamente più articolata e complessa della Iotti, esistono di certo. E condividono gli stessi, fondamentali, temi di fondo. Primo fra tutti l’identificazione del fumetto come prodotto principalmente indirizzato ai ragazzi e agli adolescenti – e di questo non ci libereremo probabilmente mai. Poi la nostalgia un po’ spicciola per un passato mitico, in cui gli eroi erano chiaramente identificabili come tali e dove si poteva benissimo distinguere da che parte fosse il bene, senza nessun tipo di ambiguità. Quello che fa sorridere, ma anche rabbrividire, è che i soggetti verso i quali le due autrici indirizzano il loro sguardo melanconico e trasognato sono fondamentalmente gli stessi. Entrambe, infatti, citano Salgari. Tra i giusti portati ad esempio dalla Iotti troviamo Verne e Defoe. La giornalista del Corriere rimpiange i costumi di carnevale di Zorro e di Tarzan, personaggi che, non fosse stato per le loro imbarazzanti origini statunitensi, probabilmente risulterebbero perfettamente coerenti con la retorica della parlamentare del PCI (a proposito, qualcuno sa dirmi quanto e in quali forme lo spadaccino mascherato approdò in Italia?).
Peccato che fra le due donne corra una differenza di quasi quarant’anni. Che potrebbero sembrare molti di più considerando quanto, fra la nascita della prima e quella della seconda, sia cambiato il contesto sociale, culturale ed economico non solo del nostro paese (alcuni direbbero che in fondo è cambiato molto poco e non avrebbero poi tutti i torti). Possibile, però, che una giornalista di meno di cinquant’anni e una parlamentare ex partigiana nata nel 1920, per trovare un termine di paragone attraverso cui moraleggiare sui giorni d’oggi – davvero terribili a sentir loro – si trovino a pensare entrambe a Salgari? Possibile che nell’immaginario di Querzè non ci sia un personaggio, una serie a fumetti, un romanzo che rappresenti positivamente la propria generazione e il proprio vissuto senza dover rivolgere lo sguardo alle opere di uno scrittore morto nel 1911? Cosa significa questo? Che la sua generazione non ha generato prodotti culturali e d’intrattenimento degni di nota (e sappiamo bene che non è così), capace di produrre affezione e quindi nostalgia? Oppure che il riferirsi a Salgari rappresenta una scelta ben mirata, che permette di captare il sentimento di una nazione, aggregando transgenerazionalmente bacchettoni di ogni età che magari Salgari non l’hanno mai letto ma, sicuramente, pensano di sapere cosa la sua opera rappresenti. Del resto persino la Iotti, nello stesso intervento, si trovava a giustificare, con qualche acrobazia, la preferenza per lo scrittore veneto:
Non troviamo, neppure più, in questi giornali per ragazzi, traccia dello spirito dei romanzi di Salgari, che ognuno di noi ha letto e su cui si è eccitato, forse; quei romanzi di Salgari i quali contenevano già un elemento negativo – l’eccessivo amore dell’avventura – ma tale elemento negativo veniva compensato dal fatto che nell’avventura vi era l’esaltazione della lotta di un popolo in difesa della indipendenza del proprio paese, della virtù, della generosità, dell’eroismo generoso e disinteressato.
Parole che, pur a tratti condivisibili, rappresentano solo in parte l’immensa produzione salgariana. Probabilmente la deputata si sarebbe trovata in un imbarazzo maggiore qualora avesse deciso di citare una sanguinosa e crudele storia di vendetta personale come quella descritta ne Il conte di Montecristo di Alexandre Dumas, altro classico della letteratura per l’infanzia e non solo. Imbarazzo che la Querzè invece non prova riesumando un personaggio come pochi intriso di sessimo e di retorica coloniale quale è Tarzan. Lettura legittima, sia chiaro, quella delle avventure dell’avventuriero (di nobili origini) con gli slip leopardati, ma che presta il fianco a facili critiche quando viene portato a confronto con la produzione odierna. Senza una contestualizzazione storica e accurata si può arrivare davvero ad affermare tutto e il contrario di tutto. Quando invece la nostalgia vaga vince sul ragionamento, bhe…attraverso il filtro dell’affettività non può che vincere il passato.
Quindi il tema di fondo dei due testi è lo stesso e si potrebbe riassumere sbrigativamente con un “si stava meglio prima”, arricchito da un moralismo spicciolo e da una concezione della pedagogia sinceramente soffocante. Inoltre, l’articolo della giornalista del Corriere è di un pressappochismo imbarazzante, infarcito com’è di inesattezze piazzate lì all’unico scopo di portare acqua al proprio mulino. Ecco un esempio:
Prendiamo gli Avengers, moderna versione dei supereroi. Hanno gli stessi superpoteri ma la trama si è semplificata, ridotta all’essenziale. A dominare sono i combattimenti, i corpo a corpo. L’intreccio sfuma insieme con la caratura positiva dei protagonisti.
Stiamo parlando di un gruppo di personaggi più vecchi della giornalista stessa. Se la modernità alla quale si riferisce è quella dei recenti film su di loro incentrati, la cosa non è specificata. Andiamo avanti:
Gli eroi dei programmi dei ragazzi dei nostri tempi erano quasi tutti maschi. Oggi i maschi nei cartoni sono spesso meschini, di scarso valore, codardi. Non fa grande mostra di sé il «papà pasticcione» di Peppa Pig. Per non parlare del papà di Gumball, il gatto azzurro che ha per genitore un coniglio rosa totalmente inetto. Si dirà: ci sono le Winx. Largo, arrivano le donne. Il problema è che le eroine arrivano sì, ma con tutù e mascara. Le ragazzine con le ali sembrano molto più interessante al look che alla «battaglia per il bene». In generale, il «cattivo» piace più del «buono». Prendiamo la trama di Cattivissimo me, protagonista il perfido Gru poi redento. Nell’ultimo film Gru è scomparso e sono rimasti solo i minion, piccoli assistenti senza scrupoli. Tra i cartoni in tv spopolano i Dalton, galeotti nell’America di fine 800 che a ogni puntata cercano di evadere. Bene, il protagonista del cartone in origine era il cow boy buono Lucky Luke, ora quasi del tutto dimenticato.
Sulla maggior presenza di maschi piuttosto che di femmine nei prodotti di intrattenimento per ragazzi (pur con lodevoli e interessanti eccezioni come Pippi Calzelunghe) si può concordare. Ma le argomentazioni presentate successivamente, invece di rafforzare questa piccola battaglia contro il maschilismo imperante, sembrano invece avere la funzione di indebolirla. Sottolineare che oggi nei cartoni «i maschi sono spesso meschini, di scarso valore, codardi» (ma sarà vero?) sembra esprimere un rimpianto verso un’epoca in cui i personaggi maschili erano dei veri eroi virili (si veda il già citato Tarzan). Il modello di maschio delle copertine di Harmony, per intenderci, arricchito però con qualche tocco rivoluzionario da barricadero.
I papà pasticcioni, poi, sono da decenni una costante dei fumetti e delle serie televisive, non li hanno certo introdotti i creatori di Peppa Pig o di Gumball. Si pensi alle storie di Richard Scarry, a Papà Mumin, a La famiglia Bradford,a molte serie giapponesi, alle innumerevoli strisce umoristiche a fumetti rappresentanti situazioni famigliari e via dicendo. Per quanto riguarda le Winx la riflessione sull’eccessiva erotizzazione delle protagoniste è di certo condivisibile, ma naturalmente l’autrice menziona un prodotto di successo allo scopo di rappresentare una tendenza, e questa riduzione di complessità, seppur funzionale all’attacco portato, è incapace di rendere la complessità di un mondo – o di più mondi – in cui negli ultimi anni, al contrario, risaltano con forza figure femminili interessanti e non stereotipate.
Sui Minions e sui Dalton vale la pena di fare solo un paio di appunti banali. La “bontà” del “cow boy” (sic) Lucky Luke era di stampo prettamente parodistico e, come spesso accade, pur nella serie a lui intitolata il pistolero si limitava a fare da spalla a comprimari, o antagonisti, spesso più carismatici. I Dalton, in particolare, si conquistarono l’onore di comparire come protagonisti assoluti di alcuni episodi a fumetti, spin off della serie principale. Succede spesso che i personaggi secondari di serie famose inizino a vivere di vita propria. È un meccanismo classico della letteratura popolare. Si pensi che nel secondo romanzo di quello che solitamente viene identificato con il ciclo salgariano dei pirati della Malesia…Sandokan non compare affatto (tralasciamo il fatto che non è neanche ambientato in Malesia, ma vabbè). Si tratta di ripetere fino allo sfinimento un’ovvietà. Anche nelle storie che vedono protagonisti dei “buoni” succede spesso che i cattivi carismatici – anche nel caso di pasticcioni come i fratelli Dalton – catturino maggiormente l’attenzione, in particolare dei lettori più giovani. Questo non significa certo promuovere il crimine, perbacco.
Siamo poi sicuri che questo “bene” senza sfumature, senza ambiguità, senza compromessi, senza dubbi su da che parte stare sia quello che vogliamo i nostri giovani leggono e fruiscano (che poi i giovani di quello che vogliono gli adulti giustamente se ne fregherebbero pure)? La rappresentazione di personaggi maschili fragili, impacciati, meschini – anche se, magari, capaci di un successivo riscatto – teneri, timidi, non rappresenta ad esempio invece una conquista? Qual è l’idea di educazione che un articolo come quello qui citato vuole proporre? E, soprattutto, c’è ancora un pubblico capace di recepirla? Si spera, sinceramente, di no.
Il mondo dell’intrattenimento, al netto dei numerosi passi falsi, delle semplificazioni ed esagerazioni che propone, degli sbagli che a volte è giusto fermarsi a sottolineare, restituisce oggi una complessità – parte della complessità del mondo – che prima veniva negata al suo pubblico. Una complessità che prevede che gli eroi possano essere problematici e in parte meschini, che il bene sia un concetto sfumato e problematico, e che le personalità siano trattate come oggetti stratificati e contraddittori. E’ questa complessità, in passato appannaggio quasi solo dei villain e molto raramente degli eroi, che permette ai lettori di identificarsi e di interrogarsi, di crearsi una propria opinione, al di là dei diktat pedagogici che vorrebbero proporre divisioni nette, bianco e nero, anzi, o bianco o nero. Alcune ambiguità sono, naturalmente, pericolose, ma un aumento della complessità nella trattazione dei soggetti narrati è sempre preferibile ad un’eccessiva semplificazione. L’atto di dolore con cui la Querzè si afflige per il mondo che stiamo lasciando in eredità ai nostri figli (“Ma che mondo triste, per i nostri figli, senza sogni e senza eroi. Soprattutto senza cause per cui combattere”) sembra invece l’ennesimo rimpianto per un mondo che, in parte, non esiste più, in cui erano esclusivamente i padri e le madri, nelle loro diverse incarnazioni pubbliche e sociali, a decidere chi erano gli eroi e quali le cause giuste.
Ciò che viene da chiedersi è, invece, se articoli come questi rimpiangano un passato mitico che forse non è mai esistito per come viene descritto oppure, sotterraneamente, lamentino una perdita di potere dei padri rispetto ai figli, un aumento della distanza che comporta che i primi guardino ancora a Salgari – simbolo della continuità rispetto ai loro, di padri – in mancanza di qualcosa di veramente proprio della cui assenza soffrire davvero, mentre i secondi di Salgari se ne infischino (magari arrivando a recuperarlo successivamente) ostentando con orgoglio i loro gusti, le loro scelte, i prodotti culturali che gli sono veramente propri.