Quando si recensisce un’opera a fumetti (e più in generale, un testo narrativo) ci sono un paio di avvertenze che bisogna seguire. Diciamo tre, ma la terza la dico alla fine. La prima sono gli spoiler: e mi riferisco a voi, dannati recensori che mi avete rovinato il piacere di leggere decine di libri e fumetti. Voi sapete chi siete. Le recensioni, almeno dal mio punto di vista, devono essere come delle lunghissime quarte di copertina: alludere e circoscrivere, impostare, al limite definire, ma mai spiegare o riassumere. Soprattutto quando l’opera non è filosofia, ma un romanzo giallo, anzi un poliziesco. Se “en passant” mi dite chi è l’assassino, poi i soldi che non ho dato all’autore dell’opera perché non ha avuto più senso comprarla, glieli date voi?
Nel caso specifico del fumetto, la seconda avvertenza ha a che fare con il rapporto tra testo e immagine, tra la storia e la sua rappresentazione. Qui bisogna fare un’altra distinzione. Che è fondamentale per capire il lavoro di Otto Gabos, autore sardo che sceglie la Sardegna, anzi il Sulcis, come territorio della sua narrazione. Naturalmente sapete bene che c’è fumetto e fumetto. In alcuni ci sono topi e paperi che parlano e sono (parzialmente) vestiti, in altri ci sono tizi in calzamaglia che volano, in altri ancora ci sono persone quasi in carne ed ossa, che hanno la peculiarità di non esistere realmente, e in altre ci sono persone vere che esistono e le cui storie nessuno racconta. L’illusione della terraferma appartiene a questo penultimo genere: un romanzo vero e proprio, dal tratto fortemente realista ma carico di suggestioni grafiche tratte dall’epoca che vuole inquadrare.
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Per questo, con il caveat che si tratta di una narrazione “adulta”, improntata al realismo di un poliziesco ambientato negli anni Trenta nella Sardegna dominata dal fascismo, c’è da fare tutto un discorso sull’illustrazione di Otto Gabos. Che è artista completo, nel senso che si disegna le storie che scrive, oppure le fa disegnare anche da altri. In questo specifico caso, con metodo artigianale di cui rende conto nel dietro le quinte messo alla fine del volume pubblicato da Rizzoli Lizard, Gabos ha lentamente e personalmente costruito una storia che richiama, con un tratto denso e alle volte quasi soffocante, atmosfere crepuscolari, una Sardegna in cui piove e tira vento, in labirinti di linee e prospettive che riecheggiano sia le avanguardie del novecento italiano che gli stili dell’illustrazione propagandistica del regime fascista, il tutto marcato da segni forti, tratti decisi pur nella rigidità dei volti dei suoi personaggi con aperture espressioniste, futuriste e citazioni (interpretazioni) visive sempre ricche.
La storia ruota attorno al protagonista, un ex soldato reduce delle guerre coloniali italiane, diventato commissario di polizia e “allontanato” dal continente per incompatibilità ideologica con il regime. La sua presenza in Sardegna è sottolineata dal bisogno fisico di rientrare nella penisola, sottolineato dai baffi che non taglia fino a che resta in Sardegna, che porta alla necessità di alimentare l’illusione di essere ancora nella penisola. Da qui la quarta di copertina, quella vera dell’editore intendo, che spiega come il commissario Ettore Marmo vada spesso al molo a contemplare l’isoletta di San Pietro: per avere l’illusione di essere lui sulla terraferma, e l’isola in mare aperto, invece, quella di fronte a lui. Semplice e chiaro. Come dovrebbe essere.
Il romanzo per immagini di Otto Gabos procede su un triplo binario, come quelli della metropolitana. A destra, il giallo-poliziesco. A sinistra, lo stile forte, espressivo, calcato del disegno, che cita e richiama un’epoca aiutando a raccontarla. Ma il terzo binario, quello che dà -o non dà- l’energia, è quello delle sfumature, delle piccole invenzioni, delle intuizioni che permettono di immaginare i rapporti tra le persone. Come avrete capito, è il binario più importante, senza il quale gli altri due hanno poco senso.
I volti dei personaggi di Gabos sono duri, fermi, legati a una gamma espressiva limitata, come dicevo. I corpi, i momenti di lotta, di confronto, gli stessi amplessi, sono rigidi e schematici, spesso inquadrati di taglio, quasi soffocati dalle tinte scure, cariche. La storia al contrario procede su un tracciato abbastanza chiaro: il corpo decapitato ritrovato per caso sulla scogliera dove il commissario va a contemplare l’isola, assieme al questurino Mallus amante delle patelle, apre la danza delle indagini, arricchite dalla concorrente presenza della milizia fascista al gioco dell’ambizione del potere locale, il tutto condito di flashback che aiutano a comprendere meglio la psicologia del protagonista, cioè Marmo. Però l’energia della storia viene dal terzo binario, arriva cioè dai dialoghi, e soprattutto dalle situazioni. Oppure no.
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Mi spiego. Ci sono momenti di calo della tensione, dispersivi per il piacere di una narrazione e di un’atmosfera che viene comunque ossessivamente ripetuta (la Sardegna, isola che ignora il mare e vive volgendogli le spalle). E momenti in cui l’intuizione riesce a rende perfettamente l’illusione della vita (la vedova che ospita Marmo, con il figlio affetto da problemi di vista, le notti di due solitudini in cerca di qualcosa ma diverso: protezione oppure calore). La bravura e i limiti di Otto Gabos stanno qui, in questa forbice: nella capacità di acchiappare un’emozione, un sentimento, oppure di lasciarlo sfuggire, evaporare. Nella maggior parte dei casi ci riesce, e spesso sorprendentemente. Da questo punto di vista è un romanzo per immagini d’atmosfera e questa, il binario cupo dell’illustrazione e quello sfavillante dell’energia, procedono in maniera sinergica. La storia è complessa e tutto sommato relativamente importante: il racconto non era lo scopo ma solo la scusa per cercare tratti di personaggi, situazioni, relazioni che la Sardegna degli anni Trenta presentava.
Il lavoro del critico, cioè del sottoscritto, a questo punto è più semplice. Si tratta della terza avvertenza che vi avevo detto avrei spiegato alla fine. Il critico può dare un giudizio da “tecnico” dell’analisi, sulla base di criteri oggettivi e con riferimenti ben chiari, oppure può farsi misura del mondo. Mettersi un po’ a nudo, confidando che la relazione che con il tempo ha saputo costruire con i lettori sia rivelatoria del suo gusto e quindi indicativa di cosa ci si può aspettare. Con tutti i limiti e le idiosincrasie che il gusto di una persona, anche se “lettore di professione” si porta dietro. Ma se quella persona la conoscete, ci fate la tara e sapete cosa aspettarvi quando vi urla “Capolavoro!” oppure “Tavanata galattica!”.
Ecco, scelgo la seconda strada (senza urla, però), e vi do la mia impressione, poi conoscendoci meglio imparerete a tararla e regolarvi di conseguenza, se volete. A me L’illusione della terraferma è piaciuto molto ma a intermittenza. Mi spiego. Non è il mio stile di disegno preferito (sono tra coloro che hanno una naturale propensione per una ‘linea chiara’) ma le suggestioni visive a volte mi hanno trascinato, esaltato quasi. Alcune cose mi sono rimaste dentro e ci resteranno per molto tempo, penso. C’è, sporca di terra e a tratti solo abbozzata, l’immagine potente di un’epoca, gli anni Trenta nella Sardegna fascista, senza forzature ideologiche e senza le distorsioni alle quali in Italia la fiction contemporanea che rivisita il Ventennio ci ha purtroppo abituato. Non c’è la retorica degli “italiani brava gente”, insomma, e questo mi fa wuminghianamente piacere, quando si parla di quest’epoca. E la delicatezza di alcuni dialoghi, di alcuni passaggi mi hanno davvero stupito. Ma ci sono anche i cali, purtroppo: non molti, ma rendono il racconto discontinuo.
Lo regalerei a un amico? Sì, volentieri, ma solo se è più vecchio di me. Oppure se ha passione per una narrazione fatta di atmosfere remote e non banali. Non sarà il giallo dell’anno, ma per chi cerca qualcosa che vada oltre la “dittatura del procedural all’italiana”, statene pur certi: sarà una boccata d’aria fresca.
L’illusione della terraferma
di Otto Gabos
Rizzoli Lizard, 2015
150 pagine, 17,00 €