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Star Wars e Star Trek, compagni di scaffale

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Visto che mancano ormai pochi mesi alla terza trilogia di Star Wars (e, come dice Leo Ortolani, non garantisco sui risultati), vale la pena riprendere un attimo il filo del discorso. Chi è stato George Lucas, chi ha scritto il primo romanzo (che ho in biblioteca accanto al primo romanzo del primo film di Star Trek), chi è stato Joseph Campbell e soprattutto l’importanza del fumetto in tutto questo.

Ma prima, come si dice, una doverosa premessa. Nel grande scontro di civiltà fra gli amanti di Star Wars e quelli di Star Trek io sono quasi neutrale: tendo infatti ai secondi, non ai primi. Insomma, se proprio devo scegliere, preferisco la fantascienza sociologica a episodi di Gene Roddenberry al western new age di George Lucas.

Ok, detto questo, passiamo al meglio. Ci sono due libri di fantascienza, due vecchie edizioni cartonate, che spiccano nello scaffale in alto della mia libreria, sezione fantascienza. Uno si intitola Guerre Stellari e come autore riporta George Lucas, mentre l’altro si intitola Star Trek: The Motion Picture e riporta come autore Gene Roddenberry. Il punto è che nessuno dei due libri è stato scritto da chi dice di averlo scritto. Sono due novelization, due trasformazioni del soggetto originale in romanzo per sfruttare l’onda promozionale del film. E l’onda, soprattutto nel caso di George Lucas, sino a quel momento era praticamente inedita.

star trek star wars

Infatti il cineasta amicone di Steve Spielberg ha creato con il suo sodale l’intera categoria del blockbuster e, in più, ha generato anche una straordinaria fonte di reddito grazie alla commercializzazione di pupazzetti, action figure, libri, fumetti, infinite declinazioni del tema principale. Era la fine degli anni Settanta e l’idea di Lucas è stata potentissima. Il suo merchandising trasformato in scienza (quasi) esatta ha rivoluzionato il modo di fare film e guadagnarci. Ha anche rivoluzionato il flusso tradizionale delle narrazioni: dal grande schermo verso il negozio di giocattoli, la libreria, la fumetteria. Prima era il contrario, dopo no.

Se devo pensare a una innovazione altrettanto potente dopo questa, mi viene in mente solo il caso dei Pokémon, fenomeno di narrazione transmediale circolare: parte dai videogiochi, si trasforma in fumetto, evolve, passa ai pupazzetti, evolve ancora, passa al cinema, evolve, torna ai videogiochi cambiata definitivamente. E riparte per un nuovo giro. Ma se i giapponesi (in particolare, è Satoshi Tajiri il creatore dei Pocket Monsters per GameBoy di Nintendo e successori) hanno reso circolare il flusso della narrazione, il primo ad invertirla seriamente rispetto alla galassia dei media tradizionali è stato proprio Lucas.

I suoi personaggi diventano fumetti, action figures, cartoni animati, romanzi, qualsiasi cosa, e poi tornano immutati (questa la differenza rispetto ai nipponici Pokémon) al canone sul grande schermo. Perché Lucas con Star Wars aveva in mente una tripla trilogia: una specie di western new age diviso in tre blocchi di tre film. Ma non l’aveva scritta: cioè l’aveva scritta al massimo su un tovagliolino del bar, perché non sapeva se sarebbe mai partito il progetto. E quando ha trovato i soldi, si è messo a cercare strutture mitologiche sulle quali costruire la sua trama, per reggere una variazione dell’eterna storia del cowboy che vendica i genitori scoprendo di essere figlio del principe nero. Chi lo ha aiutato? Joseph Campbell, studioso di mitologia comparata molto famoso che, tra i molti libri belli che ha scritto (vi consiglio vivamente Il potere del mito, la versione estesa e trascritta dell’intervista registrata dalla PBS proprio allo Skywalker Ranch di Lucas), ne ha fatto uno sui Mille volti dell’eroe.

Joseph Campbell

Chi è l’eroe? Una figura comune a tutte le culture. Un soggetto che esce dalla sicurezza del gruppo, cerca il senso e torna, trasformando con la sua narrazione la realtà per tutti gli altri. L’eroe non è quello che uccide il cattivo e sposa la principessa. Invece è un viaggiatore, uno che vuole andare oltre (e poi tornare a casa). Una figura fondamentale per il modo in cui la nostra mente organizza le narrazioni e acquisisce nuove informazioni. Dovete leggere Il potere del mito e poi cercare in rete Il viaggio dell’eroe. In questo caso non è più Campbell, ma Christopher Vogler, uno sceneggiatore del gruppo, che schematizza a uso dei suoi successori quella che è una delle più importanti e famose ricette – anzi un vero e proprio algoritmo, volendo – per scrivere sceneggiature di film, fumetti, telefilm, qualsiasi cosa. Anche romanzi (non sceneggiature di romanzi: romanzi veri e propri).

Il viaggio dell’eroe è la schematizzazione dei passaggi che l’eroe dai mille volti fa per compiere la sua avventura, assieme ai personaggi che lo accompagnano e che gli si oppongono. Considerate che, per quanto seria e ben cadenzata, è in realtà una lettura molto molto “mitologica”, cioè new age, di come si snodano le avventure. E non è assolutamente l’unico modo in cui si svolgono le avventure. È il più diffuso e comune all’umanità, però.

Ok, torniamo ai due libri. Quello di Lucas l’ha scritto in realtà un favoloso (e poco conosciuto) scrittore di fantascienza: Alan Dean Foster. Noto per il ciclo di Pip e Flinx (Humanx Commonwealth Universe), pubblicato in Italia dalla Nord, Foster è un autore versatile che, per campare, ha fatto tantissimo il ghostwriter. Professione nobilissima, che lui ha interpretato in maniera egregia: per 5mila dollari ha preso la sceneggiatura di Lucas e ha scritto un romanzo ricco di dettagli, particolari, visioni che nel film sono solo vagamente accennate. Talmente ricco da diventare la base del canone di Guerre Stellari (e dei successivi film).

Quando gli hanno chiesto se non si è per caso sentito derubato del nome in copertina, visto che l’autore passato alla storia di questo peraltro ottimo romanzo è Lucas, Foster ha risposto: “Per niente. L’idea della storia è di George. Io ci ho solo lavorato sopra, espandendola. Non avere il nome in copertina non mi turba per niente. Sarebbe strano se un’impresa di costruzioni volesse avere il proprio nome su una casa al posto di quello di un’archistar come Frank Lloyd Wright”.

E Star Trek? Gene Roddenberry è stata una figura interessante di produttore televisivo. Ha fatto un po’ di tutto, ha costruito varie serie, e Star Trek è sicuramente il suo capolavoro. È fantascienza sociologica, c’è il tema del viaggio e dell’esplorazione, ma c’è anche molto di più. Nella traiettoria della serie originale di Star Trek c’è tanta fantascienza letteraria (ci hanno lavorato alcuni tra i maggiori autori di fantascienza americani) e il desiderio di costruire dei possibili mondi nuovi per gli spettatori. Viene dopo Ai confini della realtà, altra serie che porta l’immaginario in prima serata (perlomeno nella tv USA) e viene però con lo stesso spirito. Gli anni Sessanta dopotutto sono una fase di profondo ripensamento dell’Occidente, operata da quella generazione di Baby Boomer che segue i grandi combattenti della Seconda guerra mondiale e precede l’arrivo delle attuali generazioni più “mosce”, come quella cui modestamente appartiene il sottoscritto.

Comunque, dentro Star Trek ci sono il teletrasporto, i telefoni cellulari, il motore ad antimateria, il computer onnipresente, gli strumenti per diagnosi e cure rapidissime, non ci sono più i soldi come strumento di scambio e le donne di colore possono baciare liberamente gli uomini bianchi, in prima serata.

Certo, il capitano è uno un po’ rubacuori e un po’ puttaniere, ma nutre sentimenti solidi se non altro verso il suo trio di bromance preferito: l’ufficiale scientifico (poi primo ufficiale) Spock e l’ufficiale medico Leonard McCoy. Gay o semplicemente amici per la pelle? Nel tempo in molti se lo sono chiesto, soprattutto pensando al rapporto tra James T. Kirk (la T. sta per Tiberius, come si scopre… solo leggendo il libro!) e il signor Spock.

Roddenberry ha cercato di mettere dentro la serie anche un po’ di quel fermento e quella vita, quella diversità che oramai era diventata incontenibile dopo il grigiore degli anni Quaranta (la guerra), Cinquanta (la ricostruzione) e Sessanta (la crescita). Una società di uomini in giacca e cravatta, di donne in abito castigato: guardatevi Mad Men e rabbrividite. Solo grazie alla lungimiranza della straordinaria casa di produzione, la Desilu Productions (che ha una storia che vale un romanzo), si era potuto fare.

dean foster

Solo che Star Trek era andato male, l’avevano chiuso dopo tre anni, si era tentata una serie a fumetti e un cartone animato, insomma le cose stagnavano sino a che non era partita l’idea di fare il film. Durante la produzione era anche uscito Guerre Stellari, che aveva completamente ribaltato il modo di immaginare e filmare la fantascienza. Quando finalmente Star Trek: The Motion Picture arriva sullo schermo c’è bisogno ovviamente di avere, oltre a fumetti e giocattoli, anche il libro. E per questo chi è che viene chiamato a colmare il buco? Ma Alan Dean Foster, ovviamente. Che come autore freelance aveva scritto anche una decina di libri basati sulla serie animata, più varie altre variazioni. Forse non un genio nel creare trame dal niente, ma un vero artista nel prendere l’esile filo di una sceneggiatura e trasformarla in un vero best-seller. Tanto che J. J. Abrams ha chiesto proprio a lui di scrivere la novelization sia del reboot di Star Trek nel 2009 che di Star Trek Into Darkness del 2013. Sarà lui l’autore della versione romanzesca anche della prossima trilogia di Guerre Stellari, visto che è sempre J. J. Abrams a occuparsene?

Beh, si era perso in realtà i romanzi successivi al primo film della saga di Lucas (vale a dire l’Episodio IV, quello che inizia – come diceva nell’Ars poetica il buon Orazio – in medias res) e le probabilità sono piuttosto basse. La macchina del merchandising di Lucas ha creato una tonnellata di prodotti strettamente controllati, molto diverso come contesto da quello dell’universo espanso di Star Trek, fatto da decine e decine (centinaia, in realtà) di romanzi oltre al resto.

Quindi sul mio scaffale ci sono questi due libri, così diversi ma alla fine scritti dallo stesso artigiano, costruiti su due immaginari che sono in realtà due rovesci della stessa medaglia (la fantascienza sociologica degli anni Sessanta e il viaggio dell’Eroe in salsa new age) e che costituiscono uno dei ricordi più piacevoli della mia infanzia. Peccato non sia continuata questa capacità tutta artigianale di creare versioni libresche della fantascienza del grande schermo. In parte succede forse nel mondo dei videogiochi (uno per tutti, il gigantesco e affascinante ciclo-franchising di Metro 2033 e variazioni, inclusa quella del nostro ottimo Tullio Avoledo), ma questo potrebbe essere argomento di un’altra chiacchierata.

Una sola aggiunta: ci sono anche gli albi a fumetti di entrambe le serie, ovviamente. Con generazioni, annate, valore e qualità molto varie. Ma di questi vale la pena fare un altro discorso ancora. Per adesso resto a guardare incantato il mio scaffale in alto, uno dei pochi posti dove da trent’anni Guerre Stellari e Star Trek si fanno compagnia.


*Antonio Dini, giornalista e saggista, è nato a Firenze e ora vive a Milano. Ha un blog dal 2002: Il posto di Antonio.

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