Ci sono titoli che «basta la parola» per far danni. Ovvero, libri con un titolo talmente ‘piantagrane’ che, da solo, basta a capire che difficilmente [eufemismo] qualche editore potrebbe pensare di metterlo in commercio. Il suicidio spiegato a mio figlio, secondo libro autoprodotto con il “metodo Prima o mai”, è in primis questo: il fumetto con il titolo più piantagrane nell’intera storia del fumetto italiano. Ma è anche (ben) altro.
Per dirla in poche parole, il libro è una specie di piccolo manuale tascabile, sfacciatamente sarcastico, composto da una raccolta di “istruzioni per l’uso” su metodi e prassi (passate e presenti) per ammazzarsi, e da una paradossale disquisizione sulla condizione sociale – supremo tabu – che è il suicidio. Questi ingredienti sono articolati lungo quattro capitoli disegnati in rosso su pagine nere, ma incastonati all’interno di un racconto-cornice, quest’ultimo disegnato, come una sorta di negativo, in nero su pagine rosse. Nella cornice, due colleghi/amici si incontrano; uno informa del recente suicidio di un conoscente, e l’altro inizia a leggere l’ultima opera del suicida in questione (guarda caso, un autore di libri per bambini): Il suicidio spiegato a mio figlio, per l’appunto, che si rivela essere dunque un libro-nel-libro.
I primi tre capitoli sono quelli propriamente manualistici. Molto brevemente, il primo, ‘Le Maniere’, è un abbecedario che passa in rassegna numerose tecniche di suicidio più o meno canoniche, da corda a fornello a playstation:
Il secondo, ‘La Grammatica del Suicida’, presenta un catalogo di strafalcioni da evitare – nella linea che va da Io speriamo che me la cavo in poi – all’interno delle ‘ultime lettere’ (immaginarie) di vari suicidi, introdotte dal personaggio “Mario il professore”:
Nel terzo, ‘I Grandi Maestri’, Mario il professore ritorna per offrire una galleria di ritratti di pionieri (anche questi tutti inventati) esemplari nei più assurdi e creativi metodi per suicidarsi:
Il quarto capitolo, ‘Mario il Professore’, è il più lungo. L’occhialuto personaggio si lancia nella sua requisitoria contro la società che ha reso tabu un gesto simile, attaccando varie categorie (madri, docenti, sacerdoti) e fornendo la sua – balzana, a dir poco – teoria:
La storia-cornice, invece, allontana dal tono pseudo-didattico, presentandosi però più come una serie di intermezzi che non come un racconto. Dei due personaggi, l’amico-lettore (Jack) si inserisce tra e nei capitoli, interrompendoli per commentare ciò che sta leggendo. L’amico-informatore (Philip) cerca di farlo smettere per tornare alla realtà – in ufficio – ma la lettura assorbe talmente Jack che, al contrario, vuole proseguire per arrivare in fondo al libro dell’amico-suicida.
Spero bastino queste poche parole e cinque doppie tavole per capire, innanzitutto, una cosa: il libro di Maicol & Mirco è un’assurdità, che scherza su un tema quanto mai sensibile, con idee spaventose e al contempo con trovate spiazzanti e battute sinceramente spassose. Il suicidio spiegato a mio figlio è insomma una grossa e stravagante boutade, una vasta freddura che raggela mentre fa sorridere. Nonostante il titolo piantagrane, dunque, ritenerlo ‘difficile’ in quanto diseducativo sarebbe non tanto sbagliato quanto fuori luogo: non è un manuale, ma un gioco intorno alla formula del manuale e allo stile della pedagogia spicciola. Un gioco spietato, per certi versi, ma in realtà – ulteriore paradosso, se volete – anche molto rispettoso. La cura per il design e gli aspetti formali è puntuale e impeccabile come capita raramente di vedere. La grammatura della carta, la qualità ovvero la saturazione del nero e del rosso (in realtà, figlia di un’insolita scelta del grafico Roberto Montani: la carta del libro è rossa, sommersa di inchiostro nelle pagine nere), la scelta di font graziati intramontabili (un Caslon) e la presenza della numerazione in calce a ogni pagina, lo rendono un libro dal design classico, raffinato, persino chic.
Paradosso supremo, ed estremo tabu, il manuale si rivolge a un pubblico immaginario di “aspiranti suicidi” molto, molto particolare: i bambini. Il che moltiplica felicemente sia la magnitudo del nichilismo che quella della implausibilità dell’operazione. Che alla fine dei conti suona grosso modo come un’operazione d’avanguardia, più vicina al surrealismo (nella sua declinazione pànica e situazionista, più che in quella trasognante) che allo spirito crudo dell’estetica punk e underground, cui pure sono spesso stati associati Maicol & Mirco. Qualcosa che sta in una linea fra Roland Topor e Massimo Mattioli, potremmo dire.
Ma la vera intelligenza del libro sta in un altro aspetto. Per prenderla larga, potrei dire la sua ‘leggibilità’. La apparente “antipatia” del tema, infatti, si accompagna a una straordinaria facilità di lettura. Se leggere è, innanzitutto, scorrere le pagine, Il suicidio spiegato a mio figlio è una splendida esperienza in cui questo “andare avanti” è possibile con rara naturalezza. Il suicidio spiegato a mio figlio, per dirla in poche parole, è uno dei fumetti più ‘scorrevoli’ che mi sia mai capitato di leggere.
Le soluzioni che regolano la cadenza e gli “accenti” ritmici sono ciò che alimenta questa scorrevolezza. Le pause e le accelerazioni, le grida e i sussurri, i momenti (e le tavole) vuoti, gli stacchi e i passaggi più intensi sono sottolineati da scelte di disegno e composizione semplicemente perfette. A titolo di esempio basta considerare le interruzioni di Jack e Philip, che si snodano in un crescendo al cui centro vi è il racconto del dialogo, dapprima sereno e poi sempre più teso, fra i due personaggi. La prima di esse chiude il cap.1 ed è un invito, in una breve doppia tavola, a proseguire la lettura con il cap.2:
La seconda interrompe il cap.2 per mostrare la reazione a una “lettera del suicida” – una grassa risata – del personaggio-lettore Jack (4 tavole):
La terza è il primo tentativo di Philip di far smettere il collega (6 tavole); la quarta è un altro ‘stop’ di Philip con il secco no di Jack (le 2 tavole succitate a pagg. 138-139); la quinta è l’esplicito tentativo di Philip di riportare l’amico al lavoro in ufficio (18 tavole); la sesta (2 tavole) è una reazione di Jack al “colpo di scena” delle avventure di Mario il professore; e l’ultima è la tragica conclusione del racconto-cornice, in cui Jack scopre che il collega, probabilmente intristito dalla scarsa attenzione da parte dell’amico, si è [SPOILER] suicidato (48 tavole).
Un primo merito di questo lavoro mi sembra perciò questo: l’indubbia maestria nel gestire lo humor insieme all’andirivieni tra storia-manuale e storia-commento, ovvero tra l’architettura di sequenze nere e sequenze rosse. [Gli appassionati di narratologia troveranno in questo aspetto un esempio – spassoso – di uso della cosiddetta metalessi, una trasgressione dei livelli narrativi diegetici e metadiegetici]. Ma il secondo e vero merito del libro ha a che vedere, più in generale, con l’abilità di Maicol & Mirco nel costruire scene e sequenze in funzione di una leggibilità essenzialmente visiva. Un aspetto che si chiarisce soprattutto soffermandoci meglio sui quattro capitoli ‘didattici’. Gli esempi sarebbero numerosi, e mi limito a una manciata. Partendo da quando il Professore pone la sua prima domanda cruciale, iniziando così a spiegare come mai il suicidio sia un grande tabù:
In questo passaggio decisivo per il prosieguo della storia, la logica del singolo-disegno-in-singola-pagina si rompe, e assistiamo a una doppia pagina che segna il momento chiave della “grande domanda”: «Ma perché?» Analogamente, alcune pagine dopo Mario interpella il suo pubblico di lettori-bambini («Ve lo ricordate?»), riproponendo la logica della doppia pagina, che suona di nuovo come una scena enfatica, un grido rivolto alla comunità degli ascoltatori/lettori:
La scena immediatamente successiva presenta la risposta anch’essa con una delle rare doppie pagine, dando corpo a una metafora grafica della replica corale: la stessa frase è spezzata sulle due facciate («sì ce / lo, ricor / diamo», ovvero occupa tutto lo spazio visivo di fronte a noi, come a ‘riempirlo’ della eco della risposta all’unisono:
Ma la sequenza più brillante e rappresentativa è quella che apre il capitolo 4. Mario il professore torna in scena, questa volta in qualità di autentico protagonista. Sin dalla prima tavola lo vediamo nella sua silhouette, muta e sorridente, per una due tre pagine; poi prende gli occhiali, e per una due tre pagine semplicemente li gira, rigira e li strofina con un panno; poi ancora una due tavole con la sua sagoma muta che infine, semplicemente, ci invita a seguirlo. Più avanti, Mario arriverà a porre la fatidica domanda che vi ho descritto – quella sul perché il suicidio sia un tabù – offrendo finalmente la sua teoria: «il suicidio è il nostro amico fico delle scuole medie». Incredibile. Incredibile e bislacca assurdità, naturalmente. «Proprio così», ribadisce Mario, nella sua silhouette scarabocchiata che torna, sempre muta, ma stavolta non proprio sorridente. Sfogliando le pagine successive alla sua stravagante affermazione lo rivediamo disegnato ancora muto, in ieratico silenzio, all’interno di una sequenza del tutto simile a quella precedente. Mario è zitto, in un’espressione enigmatica. Nella tavola accanto è sempre muto, ma con un’espressione diversa, quasi a guardarsi intorno. Voltiamo pagina e lo osserviamo, ancora muto, mentre si toglie gli occhiali. Poi, sempre in silenzio, li rimira meglio. Poi ci alita sopra. Poi li strofina. Poi li rimira ancora. E infine li calza.
In queste sei ‘inutili’ tavole mute, come nelle precedenti otto, Maicol & Mirco fanno un lavoro tutt’altro che inutile. È in queste sequenze, infatti, che gli autori danno forma alla recitazione perfetta di un personaggio che crea così – senza “fare nulla” – la propria autorevolezza: la liturgia dell’intellettuale quattrocchi che mentre riflette, in silenzio, pulisce gli occhiali. E così facendo, costruisce l’aspettativa per le parole che pronuncerà. Per sentirlo parlare, insomma, tocca aspettare. Il risultato è un effetto comico legato dunque sì alle forme – una caricatura, schizzata nella semplicità del pennarello – ma anche e soprattutto al ritmo, enfatico e perciò pronto a sottolineare smisuratamente quella che si rivela essere una roboante assurdità («il suicidio è il nostro amico fico delle scuole medie»).
Al di là della freddura in sé, dal sapore quasi dadaista, in questa sequenza diventa particolarmente evidente lo spirito cavandoliano del libro, che scorre fluido, vicino più a un flip book che a un fumetto. E nel meccanismo ‘meta’ del racconto-nel-racconto Il suicidio… conquista tutta la sua forza: al cuore del gioco c’è la performance della lettura stessa. Il suicidio… si libera così del limite di essere un mero divertissement giocoso su un tema tragico, perché tutto si sposta altrove: l’atto performativo del leggere. Il puro gusto dello sfogliare pagine, percorrerle compulsivamente, facendo saltellare le dita e lo sguardo. «Sfogl, sfogl», segnalano alcune onomatopee cattivikiane, tanto inconsuete quanto assurde, nelle sequenze con Jack e Philip. Perché alla fine, il punto è uno solo: leggere – guardare, sfogliare – disegni è un atto leggero, a prescindere (dal contenuto). Una leggerezza paradossale, qui, quanto far correre dita e occhi lungo un racconto grafico che dovrebbe – e invece no – generare pesantezza.
Ciò che spiega questo libro, allora, non è tanto la nozione di suicidio, quanto quella di ritmo grafico. Una lezione che fa de Il suicidio spiegato a mio figlio uno dei migliori fumetti dell’anno, e la più riuscita e convincente produzione ad oggi di Maicol & Mirco. Anzi, di Maicol, unico creatore di questo lavoro (la presenza di Mirco, ormai da tempo, è rimasta solo come vezzo nel nom de plume collettivo). Un autore di talento, dall’immaginario scombiccherato – in una linea fra Roland Topor, Osvaldo Cavandoli e Massimo Mattioli – e dal segno splendidamente “tirato via”. Come è bene che sia, quando il punto, per chi fa fumetti, è lanciare su una pista di carta delle tracce – dei segni – che costringano gli occhi a corrervi dietro.