Nel 1989 gli organizzatori del Festival of Cartoon Art, un raduno triennale indetto dalla Ohio State University, invitarono Bill Watterson a tenere un discorso sullo stato dell’arte. L’autore di Calvin and Hobbes, da molti soprannominato il J.D. Salinger dei fumetti per il suo estremo riserbo, chiese che nessuno registrasse o fotografasse la sua apparizione e che venisse esonerato dalla sessione di autografi imposta agli altri oratori.
Il discorso, intitolato The Cheapening of Comics, copriva i temi cardine della carriera di Watterson: lamentava l’impoverimento della strisce, forma d’arte che aveva conosciuto l’acme nella prima metà del Novecento e che ora stava regredendo a causa dell’ossessione per il merchandising e per la mancanza di rispetto che editori e giornali avevano nei confronti delle opere, soprattutto per le tavole domenicali. Costretti a disegnare con griglie rigide, di modo che si potesse disporre le vignette a piacimento nella pagina del quotidiano, gli artisti non potevano sperimentare o arricchire l’esperienza fumettistica. Peggio, con il passare degli anni, lo spazio a loro dedicato continuava a ridursi.
Watterson tornò poi sulla questione delle licenze nell’introduzione a Dieci anni di Calvin and Hobbes, un raccolta di strisce commentate dall’autore, in cui spiegò le ragioni dietro le sue scelte:
«Primo, il merchandising impoverisce l’opera originaria. Quando dei personaggi appaiono su innumerevoli prodotti, il pubblico inizia a stufarsene e l’attrazione verso il fumetto diminuisce. Secondo, i prodotti commerciali non rispettano il lavoro dell’autore. Una striscia piena di contenuti non può essere ridotta a un’illustrazione impressa su una tazza di caffè senza violarne lo spirito. […] Terzo, una ragione pratica, il mondo delle licenze prevedrebbe l’aiuto di assistenti e il fumettista diventerebbe un supervisore di cose che non crea in prima persona. Ad alcuni non importa, ma io non voglio gestire un impero. Sono orgoglioso del fatto di aver scritto ogni parola e disegnato ogni linea di Calvin and Hobbes e che nessun altro abbia mai avuto a che fare con i personaggi all’infuori di me. […] I fumettisti che pensano di poter essere presi sul serio come artisti mentre sfruttano i loro personaggi per vendere boxer si stanno illudendo. […] La mia striscia parla di realtà private, della magia dell’immaginazione e della forza di certe amicizie. Chi crederebbe a tutto questo se mi mettessi a produrre ninnoli di cui nessuno sente il bisogno?»
Il suo ragionamento al Festival of Cartoon Art proseguiva offrendo ipotetiche soluzioni e punti di discussione (far diventare la sezione dei fumetti un inserto a parte, l’auto-produzione, l’abbandono delle syndicate, la critica all’uso di assistenti). Alla fine, la sala era divisa. Da una parte, gli autori più anziani, che presero sul personale le invettive di Watterson. Mort Walker (Beetle Bailey) salì sul palco subito dopo e commentò: «Se tu non vuoi concedere le licenze, va bene, ma non dovresti permetterti di dire agli altri cosa fare». Dall’altra, i giovani, che applaudirono l’idealismo dell’autore. In seguito, Jeff Smith sperimentò un’epifania che lo convinse a cambiare il formato di Bone da striscia a fumetto a piena pagina.
Il papà di Calvin and Hobbes aveva aperto il suo discorso con una dichiarazione d’amore verso Peanuts. Bill Watterson amava l’arte di Charles Schulz (vedere il suo pezzo Drawn Into a Dark But Gentle World – tradotto in italiano qui), meno il suo essersi svenduto all’industria. Certo, per lui Peanuts «ha riconfigurato da sola il panorama delle strisce nel giro di pochi anni», ma è indubbio che molti degli attacchi nel suo discorso fossero rivolti a Charles Schulz, reo di aver trasformato il suo lavoro in un’impresa commerciale da milioni di dollari l’anno a colpi di biglietti d’auguri e spot pubblicitari. Watterson ammetteva che alcuni autori avevano saputo esercitare un controllo stretto sulle diramazioni della propria opera e che «certe strisce sono state licenziate con gusto e rispetto. Ma sono eccezioni molto rare». Quello che più lo disturbava era che Schulz avesse aperto la vena di una tendenza che equiparava i cartoonist a uomini d’affari, e tutti avevano smesso di pensare alle strisce in sé, per concentrarsi su come spremere più soldi possibili dai loro disegni.
«Fintanto che si trattava di oggettistica o adattamenti su altri mezzi che rispettano la volontà dell’autore, non ci ho mai visto nulla di male» ammetteva Stephan Pastis – autore della striscia Perle ai porci – nel documentario Dear Mr. Watterson. «Quando Snoopy ha cominciato a vendere assicurazioni sulla vita o a fare da portavoce per delle aziende, mi è sembrato come quel cugino che dopo tanti anni di amicizia ti si avvicina chiedendoti se vuoi sottoscrivere un’assicurazione. Voglio dire, tutta la nostra relazione è stata costruita per portare a questo momento? Cose del genere ti fanno rivalutare la situazione e, per me, compromettono la relazione che il lettore ha con i personaggi».
Charles Schulz e Bill Watterson non sono legati soltanto dall’essere esempi felici di cosa sia una striscia a fumetti nella seconda metà del Novecento. Anche se associare i loro nomi si riduce spesso al gioco del maestro e dell’erede, entrambi gli autori hanno lottato, con esiti diversi, contro l’industria delle syndicate, i consorzi che facevano da tramite tra il fumettista e i giornali vendendo a quest’ultimi i lavori dei primi.
Alla fine degli anni Quaranta, dopo il buon riscontro ottenuto da Li’l Folks, Schulz strinse un accordo su scala nazionale con la United Feature Syndicate. Questa avrebbe accettato di pubblicare la striscia a due condizioni: modificare il layout – non più un solo pannello ma quattro vignette non più grandi di un francobollo ciascuna che sarebbero potute essere disposte a quadrato o a linea secondo la disponibilità di spazio sui quotidiani – e il titolo. Per evitare confusioni con Li’l Abner di Al Capp, la United Feature propose Peanuts. La ‘peanuts gallery’, nel teatro di vaudeville, era la sezione con i posti più economici. Nel 1943 lo show Howdy Doody usò il termine per indicare il pubblico composto da bambini, da cui la decisione della syndicate di adottarlo anche per la striscia. In un’intervista del 1987, Schulz disse che «il titolo è ridicolo, senza senso o dignità. E penso che il mio umorismo abbia dignità».
«Schulz non soltanto accettò i cambiamenti», ha scritto il Los Angeles Review of Books, «ma li fece diventare punti di forza della striscia. Lo spazio minuscolo delle vignette, che non permetteva alcuna sofisticazione grafica, donò a Peanuts un aspetto austero e rese alla perfezione l’alienazione dei personaggi». Fu proprio il successo di Schulz a convincere gli editori che i fumettisti non avevano bisogno poi di tanto spazio per creare una striscia di successo. E quando la popolarità ottenuta gli permise di avere una leva contrattuale, nonostante il suo odio, l’autore mantenne il nome Peanuts per non smantellare un marchio ormai consolidato.
Anche Watterson tribolò per vedersi pubblicato sui giornali. Dopo una serie di porte chiuse in faccia, trovò un riscontro positivo nella United Feature. Avrebbe accettato Calvin and Hobbes se l’autore avesse inserito un terzo protagonista, Robotman. La syndicate aveva da poco acquistato i diritti per un generico personaggio robotico di cui aveva già dei piani per produrre merchandising. Avevano solo bisogno di una piattaforma su cui lanciarlo. Watterson rifiutò (fu poi Jim Meddick a prendersi Robotman e inserirlo nella striscia Monty). «Accettare una visione altrui avrebbe significato compromettere la mia individualità a favore di una corporazione arraffasoldi» disse Watterson nel 1990 durante il discorso ai laureati del Kenyon College. «Il mio scopo ultimo sarebbe diventato vendermi, non esprimermi». Alla fine ricevette un ‘sì’ dalla Universal Press Syndicate.
Fin da subito, chiunque avrebbe voluto commercializzare Calvin and Hobbes. Nel documentario Dear Mr. Watterson Lee Salem, ex-boss della Universal, ricordava: «Ci telefonavano perché volevano produrre un film tratto dalla striscia. Steven Spielberg, Disney, George Lucas. La lista era lunga». Per anni, gli editori fecero pressioni su Watterson affinché accettasse un programma di licenze limitato. Avrebbero escluso i prodotti più offensivi, purché autorizzasse il resto dei progetti. Di prassi, i fumettisti cedono i diritti delle loro opere alle syndicate e queste hanno il diritto legale di procedere, con o senza l’approvazione dell’autore, ma la Universal preferì cercare la collaborazione di Watterson. Tutto quello che riuscirono a scucirgli furono due calendari e il libro per la didattica Teaching with Calvin and Hobbes. «Questa sarebbe stata la mia unica possibilità di controllare il merchandising. L’idea di barattare i miei principi mi offendeva, così rifiutai ogni compromesso».
Trovare un accordo sembrava impossibile: a Watterson non importava di guadagnare più soldi e alla syndicate non interessava mantenere l’integrità artistica a lui tanto cara. Nessuno dei due aveva una leva negoziale con cui condurre le trattative e, al quinto anno di vita della striscia, il dibattito si era imbruttito al punto che Watterson si preparò a lasciare il consorzio. «Se non potevo avere il controllo su Calvin and Hobbes, continuare la striscia non m’importava».
Il contratto firmato dall’autore prevedeva che, in caso di un suo abbandono, la syndicate avrebbe potuto rimpiazzarlo con altri artisti. La stessa situazione in cui si era ritrovato Schulz nel 1974, quando aveva chiesto alla United Feature di rinegoziare il suo contratto per avere il controllo sul brand dei Peanuts minacciando di andarsene. La United, temendo che le trattative potessero fallire, aveva commissionato ad Al Plastino un lotto di strisce da usare alla bisogna. Schulz aveva avanzato queste pretese dopo ventiquattro anni di lavoro, a Watterson ne bastarono cinque.
Allo scadere del contratto, la Universal accettò le condizioni di Watterson, che strappò un accordo per cui avrebbe detenuto i diritti dei personaggi. Non avrebbe concesso alcuna licenza. «Quando accetti la commercializzazione» spiegò Pastis, «ti ritrovi a interagire con una marea di persone, il designer, il capo del designer, quelli delle vendite, e improvvisamente nella tua vita sono entrate sette persone che prima non esistevano e con cui non vuoi niente a che fare. Invece che passeggiare nella foresta, come immagino facesse, Bill avrebbe dovuto rispondere a sei telefonate che prima non avrebbe preso. Si tratta di perdita del controllo».
Quello dei contratti era un’altra criticità evidenziata da Watterson nel suo discorso, che lamentava l’unilateralità degli accordi con le syndicate. Di fronte a un esordiente, le syndicate sono in una posizione di potere e possono estorcere qualsiasi diritto, tra cui quello di poter affidare il titolo ad artisti diversi dal creatore. Nel gergo: zombie strip, quelle strisce che si tramandano di artista in artista come fossero commodity. «È come se ti chiedessero di continuare un quadro di Rembrandt. Alcuni acquirenti preferirebbero avere una copia di Rembrandt piuttosto che non averlo affatto».
Sul finire degli anni Ottanta, mentre il papà di Calvin e Hobbes criticava il sistema delle licenze, l’impero Peanuts si era consolidato, diventando un modello di riferimento per autori come Jim Davis. Il creatore di Garfield in un’intervista rivelò di dedicare «una settimana al mese per scrivere la striscia. Scrivo materiale per quattro o sei settimane e poi lo affido ai miei assistenti». Il resto del mese era dedicato a gestire gli affari della PAWS, Inc., la società che gestisce il merchandising del gatto che odia i lunedì.
Charles Schulz e Bill Watterson erano uomini con retroterra e sensibilità diverse. Avevano concezioni diverse dello sfruttamento commerciale perché, alla base, avevano concezioni diverse di cosa rappresentasse una striscia a fumetti. Pur devoto al proprio mestiere, Schulz non pensava che i fumetti fossero arte. Nel 1977 dichiarò che «le strisce a fumetti non sono fatte per durare, sono fatte per divertire e poi essere gettate vie». E pochi anni dopo rimarcò il concetto in un’intervista a Eugene Griessman: «Se riesci a creare qualcosa di divertente e che riesca allo stesso tempo a esprimere qualcosa di significativo, va bene. Ma la cosa principale è intrattenere i lettori ogni giorno affinché si vendano più giornali».
Proprio per questo aspetto commerciale, non gli parve un vilipendio far diventare la propria strip una fonte di merchandising. «Cosa c’è di male?», domandò in una conversazione con The Comics Journal. «Le affermazioni di Bill Watterson mi sembrano ridicole. Non lo conosco ma sono sicuro che la sua vita sia diversa dalla mia. Lui non aveva cinque figli da mantenere e cose del genere. Quindi è sempre rischioso fare affermazioni del genere sull’argomento».
Watterson, invece, ha sempre anteposto le proprie preoccupazioni ideologiche al ritorno economico. L’episodio di Robotman è un sintomo della sua avversione al compromesso. Instancabile, insoddisfatto del proprio lavoro, nulla andava mai bene davvero. Nel 1991, non aveva motivi per dirsi infelice: aveva ottenuto la libertà artistica, lo spazio sui giornali e il controllo assoluto della propria creatura. Eppure la faida con l’industria lo aveva amareggiato, lasciandolo sfibrato nell’anima. «Il mio disgusto, l’essere messo con le spalle al muro e il mio sconforto mi hanno fatto perdere la convinzione che avrei passato il resto della mia vita a disegnare fumetti».
Si prese due lunghe vacanze, attirandosi le ire dei colleghi, che si vedevano subissati dalle scadenze. «Prendersi una pausa è ingiusto verso quelli che lavorano duro per vendere i tuoi fumetti» disse Schulz. «Watterson fa quello che vuole, ma è una cosa che mi lascia interdetto». In cinquant’anni di attività, Schulz si prese appena qualche settimana di riposo. Né il divorzio né i problemi di salute gli impedirono di saltare una consegna. Watterson, nel giro di tre anni, si prese due pause di nove mesi. «Non le ho mai pretese né richieste», scrisse in Dieci anni di Calvin and Hobbes, «ma la lotta sulle licenze mi aveva lasciato esausto e accettai di buon grado l’offerta di due periodi sabbatici. So che ero diventato l’emblema del fumettista fannullone, ma […] le critiche mi sembrano presuntuose. Alcuni autori riescono a raggiungere i propri standard qualitativi ed essere sul campo da golf per mezzogiorno, ma non vale per tutti.»
Le affermazioni di Watterson confermavano quanto tenesse in considerazione se stesso e l’arte delle strip. Per lui Calvin and Hobbes era arte, Krazy Kat e Pogo erano arte. I Peanuts erano arte. Da ciò nasceva una tensione esemplificata in un suo pezzo del 2007 per il Wall Street Journal, in cui scriveva che la gang di Charlie Brown era un modello di profondità, ma che «il successo travolgente della striscia ha oscurato i suoi risultati artistici». Per Watterson la cosa costituiva un paradosso. Come faceva un’opera che compariva sulle confezioni degli Happy Meal ad avere una mostra al Louvre?
Secondo Jean Schulz, la vedova di Charles, il merchandising è un’estensione della striscia e non ha niente a che vedere con l’integrità artistica. Ciononostante, nei biglietti d’auguri, Charlie Brown appare come il bambino più felice della Terra. Lo scarto potrà sembrare minimo, ma significa ridefinire il carattere del personaggio nella percezione comune. Silver, che con il suo Lupo Alberto ha ramificato la propria presenza sugli scaffali italiani come pochi altri, ha spiegato la faccenda in maniera simile: «Volevo che il mio personaggio travalicasse i confini del fumetto per diventare – anche – qualcos’altro. Non per sete di denaro, ma perché ho sempre guardato a quel genere di personaggi capaci di vivere anche al di fuori del fumetto».
Al contrario di altri, Calvin and Hobbes è destinato a rimanere un fumetto, almeno finché Violet, la figlia di Watterson, non deciderà di svendere tutto al miglior offerente, come hanno fatto gli eredi di Schulz. Dal 2010, infatti, i diritti di Peanuts sono nella mani di Peanuts Worldwide, una società creata dalla conglomerata Iconix Brand Group e dai famigliari di Schulz, che insieme hanno acquistato i diritti relativi all’opera di Sparky, proiettandola verso un futuro più remunerativo. Con un film in arrivo, «l’obbiettivo della Iconix è ingigantire il brand e se la pellicola avrà anche solo un successo moderato, i benefici saranno enormi», ha scitto Forbes.
Schulz ha fatto diventare i personaggi icone popolari. Lo stesso non può dire Watterson – non che gli sia mai interessato. «Non sarà mai nell’immaginario, specie dei giovani, tanto quanto noi vorremmo» si rammaricava Bill Amend (FoxTrot). «Ma sarà ricordato nella maniera ‘giusta’, cioè guardando al fumetto e non al bambolotto di Hobbes».
Entrare nel gergo collettivo, nella cultura del minimo comun denominatore, ha un costo: far passare in secondo piano la striscia, affogandola nel marasma di portafoto e lenzuola. L’oggettistica prodotta di certo non ne ha sminuito la potenza, ma nella percezione comune Peanuts è diventato proprio quello che Watterson temeva: qualcosa di carino. Basta guardare come hanno impostato la strategia sociale quelli della Iconix. Hanno intitolato i profili delle varie piattaforme ‘Snoopy’, invece che ‘Peanuts’ e hanno spinto al massimo il fattore ‘coccoloso’ del brachetto. «Un sorriso quotidiano sulla vostra bacheca di Facebook», recita la descrizione della pagina ufficiale per Peanuts Worldwide. Ritornano in mente le parole di Pastis, che parlando del suo rapporto con quelli del marketing diceva: «Ti chiederanno se il tuo personaggio non potrebbe sorridere sulla confezione. Perché, sai, sorridere fa vendere di più».
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