Non capisco proprio cosa possa essere andato storto in Rocket Girl. A dispetto di uno spunto che definire banale sarebbe poco – la “ragazza razzo” del titolo è un’eroina che decide di tornare indietro nel tempo per impedire a una mega corporazione di prendere possesso di tutta la società – il duo di autori è riuscito a infilare tra la pagine del volume una serie di trovate potenzialmente in grado di fare la differenza rispetto a quanto fatto in realtà. Azione, un pizzico di umorismo, la giusta dose di sorprese e misteri. Già il fatto che ci si prenda la briga di dare una nuova – e fantascientifica – rilettura alla sempreverde questione degli adolescenti vs mondo adulto avrebbe dovuto essere sufficiente a rendere Rocket Girl un titolo perlomeno meritorio di attenzione.
Si parte prendendola un poco alla larga, giocando sul sicuro. Quando i protagonisti si muovono ai giorni nostri – in realtà il passato del 1986 – vediamo un gruppo di giovani dottorandi lottare contro l’assenza di scrupoli, la miopia e l’obsolescenza dei loro principali. Come già detto siamo ancora in territori piuttosto blandi, ma quando l’azione si sposta nel futuro si toccano vette di satira politica del tutto insperate in un titolo simile. Nella New York del 2013 – paradossalmente, il futuro – ci si arruola in polizia a 13 anni, si combatte il crimine – praticamente assente – per i sette seguenti e poi ci si gode la meritata pensione diventando una guardia privata della Quintum Mechanics. Mega corporazione al di sopra della legge, in combutta con il governo e detentrice di un sacco di tecnologie piuttosto utili nel soggiogare la popolazione di uno stato intero. Un meccanismo di autoconservazione praticamente perfetto, dove si pensa bene di disinnescare la carica di rabbia giovanile mettendola dalla parte “giusta” della barricata. Niente di diverso da Arancia Meccanica di Kubrick. Naturale che un’agente sveglia come la quindicenne Dayoung Johansson veda in questo circolo vizioso qualcosa di marcio e decida di andare a fondo. Mai fidarsi di chi ha più di trent’anni, urlavano una volta giovani scavezzacollo di Berkeley pronti a cambiare il mondo con ogni mezzo. Quello che scoprirà la costringerà a viaggiare nel passato – sono solo 27 anni, ma lei non era ancora nata – e a cancellare per sempre il suo futuro.
Se lo spunto alla Terminator sembra la cosa più abusata del mondo, questa nuova chiave di lettura avrebbe dovuto fornire così tanto materiale da costruirci una serie davvero grandiosa. Invece Brandon Montclare si perde in un bicchiere d’acqua e cerca di valorizzare la sceneggiatura con un paio di colpi di scena basati sui paradossi temporali e poco altro. Il ritmo è folle e le scene d’azione si susseguono senza tregua, combinando spettacolarità e velocità di fruizione in maniera impeccabile, è vero. Ma è altrettanto onesto notare come ogni impeto eversivo o caustico delle premesse sia stato messo a tacere da una scrittura iper-conservatrice, dove ci si deve limitare alla costruzione di una vicenda solida e priva di grossi buchi.
Per nostra fortuna la disegnatrice Amy Reeder non sembra pensarla alla stessa maniera e carica le vignette dell’energia sovraumana che ogni quindicenne dovrebbe possedere. Le tavole sono caotiche, spesso menfreghiste nei confronti di ogni forma di storytelling, cariche di particolari e votate al movimento continuo. Proprio come farebbe un adolescente. Certi aspetti sono praticamente lasciati a metà – tutto il design del futuro è poco più che un abbozzo – per arrivare a concentrarsi dove c’è la vera azione. Quello della Reeder è un mondo dove si urla di continuo, si è sempre di corsa e un sacco di cose succedono contemporaneamente. A rafforzare questa forza anche l’uso di colori forti, pienissimi e quasi invasivi. Un tour de force che attinge molto dal fumetto mainstream, senza però cadere nei soliti cliché e riuscendo sempre a trovare la strada per porsi in maniera personale. Lo possiamo notare soprattutto dalla costruzione dei personaggi e dalla gestione della anatomie, decisamente più moderni e attuali della media. La protagonista Dayoung è davvero una ragazzina e viene caratterizzata da un fisico quasi efebico – niente gigatette qui – mentre il suo commissario ha un paio di baffi appena accennati, come quelli sfoggiati da ogni sedicenne smanioso di dimostrarsi adulto.
Peccato per la ricostruzione della New York anni ’80, collocabile temporalmente solo grazie alle didascalie e non per quello che leggiamo tra le righe. Non bastano certo orecchini ad anello over-size, fuseaux multicolor e una citazione da The Final Countdown per richiamare un’epoca in maniera degna. Così, alla fine, l’aspetto più ottantiano di tutto il volume è il logo in chiaro stile Sorayama messo in copertina. Anche in questo caso una grande intuizione – sorvolare direttamente la nostra quotidianità per concentrarsi su un passato iconico e un presente alternativo – viene gettata alle ortiche.
Sarebbe interessante sapere perché due autori così sulla cresta dell’onda abbiano scelto di consegnarci un lavoro così incompiuto, tenendo anche conto di quanto la Image abbia risalito la china mettendo il proprio marchio su testate ben più rischiose. Magari il desiderio era quello di produrre una proprietà intellettuale da rivendere a più mercati diversi (partendo magari dalla televisione, a giudicare dall’età anagrafica dei protagonisti) ma rimane il fatto che difficilmente si andrà più in là di questo – seppur interessante – volume.
Rocket Girl Vol. 1
di Brendon Montclare e Amy Reeder
Bao Publishing, 2015
128 pagine, 14,00 €