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Hawkeye, il fumetto di Fraction e, soprattutto, di Aja

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© Marvel Comics

Quanto sono sopravvalutati gli sceneggiatori, nel fumetto contemporaneo? Parecchio. Forse troppo. Pensateci bene: per ogni serie di grande successo che riesce a emergere dal mare magnum delle ultime produzioni, gran parte del merito se lo prende puntualmente lo scrittore. Questo a spese del disegnatore – per non dire di inchiostratori, coloristi e letteristi – che si ritrova il lavoro ridimensionato a mera “messa su carta” di idee altrui.

Eppure, senza voler spaziare troppo e rimanendo nei confini di un solo editore, ripercorrendo gli ultimi anni di prodotti Marvel emerge una verità davvero curiosa. Decine di serie lanciate e rilanciate, eppure quelle di cui si finisce sempre col parlare in modo convintamente positivo sono, bene o male, le solite tre: Hawkeye, Daredevil e, seppur in maniera minore, l’ultimo Iron Fist. Comunemente note come le serie di Fraction, Waid e Andrews.

Dal mio punto di vista c’è qualcosa che accomuna tra loro questi titoli così diversi. Al di là delle ottime sceneggiature e della capacità di chiudere story arc in maniera impeccabile, mi pare che il punto sia questo: stili grafici molto caratterizzati e ben distinti dal resto della produzione mainstream. L’avvocato ninja, per esempio, ci ha stupito con la sua raffinata pop-art, arricchita da sperimentazioni e richiami colti e mai banali. Pugno d’Acciaio, da parte sua, funziona esattamente al contrario: un continuo gioco al rialzo che abbandona ogni forma di grazia per la voglia di esagerare fine a se stessa (tratti troppo pastosi, effetti di Photoshop a pioggia, stilizzazione continua e sgraziata), finendo volentieri in territori tutt’altro che popolari. E per ultimo Hawkeye, Occhio di Falco, che ha da poco raggiunto il suo capolinea dandoci l’occasione di rileggerlo con minore trasporto rispetto all’entusiasmo – sfrenato – dei primi, inattesi episodi.

Chiuso il numero 22, infatti, è una sola la domanda che ci rimane in testa: cosa ne sarebbe stata di questa serie senza Aja? Poca roba, temo. E se prestate attenzione vi accorgerete che anche Fraction se ne è reso conto, cedendo sempre più spazio allo spagnolo. Per capire l’importanza del lato grafico in questo titolo abbiamo la possibilità di accedere a uno strumento davvero prezioso: una serie pubblicata dalla stessa casa editrice di Hawkeye, scritta dallo stesso sceneggiatore, disegnata dallo stesso disegnatore e costruita, ancora una volta, attorno a un personaggio secondario. Parliamo di The Immortal Iron Fist, dove il Nostro pareva già aver raggiunto vette considerevoli.

In realtà, rivisto in prospettiva, lì il suo contributo era davvero minimo. Lo scopo era rendere accattivante un super-eroe nato nel boom dell arti marziali degli anni ’70, restituendogli una regia dinamica e muscolare. Priva di svolazzi kitsch o richiami folkloristici fuori posto. In realtà, in questo caso il lavoro di Aja si mantiene ampiamente all’interno della zona di sicurezza del fumetto seriale statunitense, indugiando sull’eleganza d’esecuzione (sia come tratto che come costruzione della tavola) ma senza strafare. Al posto suo sarebbero potuti esserci diversi altri disegnatori, altrettanto abili nel tratteggiare scene di lotta, e nessuno se ne sarebbe accorto. L’andazzo è iper-conservatore, con anatomie muscolose, costumi accattivanti e splash page come massima soluzione di spettacolarità.

Cosa è successo invece sulle pagine di Hawkeye (in Italia in albetti editi da Panini Comics), dove tutti questi punti fissi vengono stravolti? L’idea dietro alla serie è piuttosto chiara: rendere figo un personaggio da sempre relegato alle seconde file. Non tanto per mancanza di interesse o di carisma, quanto per l’assurdità della sua presenza (Hawkeye è un ottimo arciere e nulla più, ricordiamolo) in mezzo a geniacci, semidèi e ogni altra sorta di creatura appartenente al super-bestiario Marvel. Per arrivare al punto, il team creativo sceglie di non seguire le avventure del Nostro eroe, bensì di concentrarsi su cosa gli accade quando non è in servizio. Che per inciso significa: prendere casa a Brooklyn, girare per il quartiere con i pantaloni della tuta da ginnastica, fare brutto con le gang del posto, avere al proprio fianco un sacco di donne e finire in un casino davvero, davvero grosso. Non male, ma niente di straordinario. L’essenza outsider costituisce senza dubbio le fondamenta di tutto il concept, ma siamo pur sempre in casa Disney, e bisogna pur sempre vendere un personaggio da ammirare. Sono finiti gli anni del Major Bummer di Arcudi. Niente di meglio quindi di un certo finto scazzo giovanilista che fa tanto anni ’90, rivisto in un’ ottica supereroistica intrisa del tipico “A man’s gotta do what a man’s gotta do” statunitense.

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© Marvel Comics

A questo punto entra in ballo David Aja e si inventa uno stile completamente nuovo. Graffiante come le autoproduzioni più innovative, paraculo come i graphic novel da lettore intelligente, piatto e bidimensionale come gli esempi più nobili di super-eroi (da Madman in avanti, tanto per correre indietro alla decade di cui si parlava prima, ancora una volta). Il risultato di questa ricetta? Una bomba: le tavole esplodono di vignette microscopiche e minimali, ogni particolar riesce a essere pregno di stile e la regia si fa decisamente più raffinata e funzionale rispetto tutto quanto fatto in precedenza dal disegnatore. Abbiamo tra le mani pagine che sono splendide a vedersi e, al contempo, narrano in maniera davvero eccezionale.

Il segno è così forte che lo stesso Hawkeye diventa subito riconoscibile, senza neppure aver bisogno di indossare un ridicolo costume. A lui bastano una tshirt, pantaloni comodi e un sacco di cerotti in faccia. E proprio a questo particolare dobbiamo prestare un sacco di attenzione. Il fulcro della serie è che Clint Barton è prima di tutto un uomo, e come tale quando finisce nei pasticci finisce per farsi del male. E infatti in tutta la serie raramente lo vediamo privo di bende. Peccato che queste medicazioni siano interpretate da Aja in maniera del tutto iconica, privilegiandone forme piatte e geometriche, riempiendole di un bel bianco piatto a farle scintillare sulla pagina.

I cerotti sul volto sono fatti per essere “belli a vedersi”, perché quello è il costume del nostro super-eroe. Sono la stella di Capitan America o la X dei mutanti. Solo che vengono associati ad abiti comuni invece che a tutine in latex, assumendo così una profondità davvero notevole. Burton è un eroe perché è un tipo che non vorrebbe noie – gira per il quartiere in tuta, tanto per chiarire il suo amore per le divise – ma non riesce a starsene fuori per qualche strana forma di senso del dovere.

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© Marvel Comics

Aja, semplicemente decidendo come vestire il protagonista, ci dice davvero moltissimo di lui. Ed è solo la prima delle incredibili trovate che dissemina lungo tutta la run. Perché, parliamoci chiaro, non ci credo neppure se lo vedo che Fraction – confuso com’è nel cercare di tenere le fila di story arc che spesso gli fuggono di mano – si mette a dare indicazioni su bende e cerotti in fase di sceneggiatura.

Infatti, nei primi episodi della serie, neanche lo scrittore crede più di tanto a un tale cambio di marcia, e massacra il collega con scene iper-verbose e soluzioni abbastanza canoniche. Poi qualcosa comincia a cambiare, raggiungendo il culmine con l’incredibile e premiatissimo numero 11. Quello, per capirci, in cui vediamo il mondo attraverso gli occhi di un cane. Tutta la narrazione è affidata a una serie di icone e di soluzioni visive, a metà tra Chris Ware e David Mazzucchelli. In realtà l’intrusione di sezioni di disegno aliene e fuori contesto parte già dal numero tre, con i riquadri in stile ‘libretto di istruzioni’ dedicati delle varie frecce a disposizione del protagonista. Soluzione resa ancora più stimolante dalla natura piuttosto concitata di tutto l’episodio, arrivando al picco nella scena dell’inseguimento.

Le vignette si sparpagliano sulla pagina come schegge di un parabrezza sfondato, variando anche l’angolazione del riquadro ad accentuare la violenza degli scontri. Unici segnali di stasi, in questo dedalo di adrenalina e lamiere contorte, sono appunto le trovate in stile Ikea di cui parlavamo poco prima. L’episodio è davvero eccellente, insomma. Ma sono certo che non si avrebbe avuta la stessa sensazione se ci fossimo limitati a leggere la sceneggiatura.

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© Marvel Comics

Comunque sia, dopo l’episodio #11 le cose paiono cambiare, e Aja si prende sempre più spazio. All’interno del #13 – tutto realizzato con un griglia tre per tre – la regia è qualcosa di sublime, forse ancora più cinematografica di quello che un autore come Cameron Stewart aveva portato avanti, in maniera esemplare, su Sin Titulo. La pagina in cui Burton deve comunicare la morte del figlio all’anziano padre è un esempio perfetto di storytelling ben riuscito e composizione della vignetta impeccabile. Da quel Dead End posto come beffarda apertura – in pratica un titolo per la micro narrazione contenuta nella tavola – al posizionamento del genitore – ai margini della folla – nel riquadro centrale.

Provate e rivedere adesso Iron Fist, e ditemi se al confronto non vi sembra grossolano e puerile. Altre finezze le possiamo trovare nel numero #15, con i suoi continui richiami al mondo dei cruciverba. Le pagine sembrano essere costruite a incastro, decorazioni a scacchiera spuntano ovunque e la risoluzione di un mistero pare diventare un gioco da Settimana Enigmistica. Basta infilare il pezzo giusto e tutto trova il suo senso.

Hawkeye #15 | ©Marvel Comics
© Marvel Comics

Nel frattempo le vicende del protagonista si intrecciano con quelle di altri due Hawkeye, le cui gesta sono narrate da altri disegnatori. In particolare la bravissima Annie Wu si occupa della trasferta Californiana di Kate Bishop. Il risultato è un fumetto fresco e accattivante, una sorta di Bat-Girl meno ammiccante, ma niente per cui strapparsi le mani. Eppure lo sceneggiatore è sempre quello.

A questo punto Fraction non può che alzare le mani. Di pari passo con la perdita di brillantezza in fase di scrittura rispetto ai primi episodi, così vitali e ricchi di idee, il contributo del disegnatore nel far veleggiare la baracca in territori altissimi è sempre più ampio. La cosa è talmente chiara che, a un certo punto, si sceglie di rendere Hawkeye sordo. Questo significa baloon finalmente vuoti, e inserzioni ancora più grafiche. Sempre più spazio concesso alla narrazione disegnata.

© Marvel Comics
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Non si finisce nell’avanguardia solo perché i confini del fumetto mainstream non permettono questo tipo di azzardo, ma ci andiamo davvero molto vicini. Infatti si parte alla grandissima con il numero #19 e si annacqua mano a mano l’idea fino al numero #22, dove è davvero ridotta al minimo. Eppure la conclusione di una serie così particolare è il più banale dei confronti all’ultimo sangue, con lacrime, morti, grandi discorsi motivazionali, e a renderlo qualcosa di unico ci pensano solo i disegni.

Per una volta non schiavi di spettacolarizzazioni a ogni costo, ma vettori di una narrazione davvero unica. Si avverte in maniera davvero forte la voglia di Aja di poter realizzare tutto il trittico finale di Hawkeye senza dover inserire una sola riga di dialogo, affidandosi unicamente alla sua matita. E ci sarebbe riuscito, visto che potrete capire in tutta tranquillità gli albi senza leggere una sola parola.

Come si dice “non è il cosa succede, ma il come viene raccontato ciò che conta”. E in queste pagine tale privilegio non passa per piani temporali sfasati, dialoghi brillanti o altri strumenti ad uso esclusivo dei chi sta dietro la tastiera, ma tutto viene posato sulle forti spalle del disegno.

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© Marvel Comics

Provate a non sentire il dolore dei colpi inflitti a pagina undici (con quei tre micidiali pugni di Burton, sempre più forti, sempre più vicini al lettore) o a non essere sorpresi – con i nostri occhi ancora ipnotizzati dal volo al rallentatore della pistola, così rapido eppure frammentato in cinque vignette – dalla freccia di pagina diciassette. Come dicevo prima, sono certo che queste cose, sulla sceneggiatura, sembravano davvero una cosa diversa.

Verrebbe forse la pena guardare il fumetto sotto quest’ottica ogni volta risultasse possibile – e parlo soprattutto per me stesso, spesso e volentieri convintissimo nel trattarlo come romanzi-con-disegni – vivendolo come un atto dovuto per poter arrivare a capirlo in profondità. Realizzando di volta in volta come questo magnifico linguaggio nasca prima di tutto dalla fusione perfetta di più alfabeti complementari tra loro. Magari passeremo dal consumare un albo in dieci minuti al farcelo durare qualche ora, dimenticando per un attimo  letture compulsive e ossessioni da binge reading. Certo, si tratta di uno sforzo impegnativo. Ma sono sicuro che ne varrà la pena.

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