«Ciò che penso sia importante ricordare è che questo film non è un sequel e non è un remake. Non è Terminator 5, non è un prequel dei primi film e non è un remake del primo capitolo. È il primo episodio di una trilogia del tutto stand-alone, basata sull’universo creato da James Cameron». David Ellison, produttore di Terminator Genisys
Qualche giorno fa abbiamo parlato del rilancio del marchio Jurassic Park, mettendo in evidenza come l’operazione sia stata condotta in porto attraverso un riuscito equilibrio fra citazionismo, nostalgia e una messa in scena fracassona, a tratti illogica e sgangherata, ma anche fluida e con alcuni momenti parecchio divertenti.
Le menti dietro al franchise di Terminator hanno provato a fare lo stesso. Dopo i primi due film diretti da James Cameron, che si sono dimostrati seminali per come hanno riscritto le regole del genere action fantascientifico – nel bene e nel male – i successivi due titoli della serie, Terminator 3 – Le macchine ribelli e Terminator Salvation non hanno praticamente lasciato nessuna traccia nell’immaginario collettivo, pur riscuotendo un buon successo di pubblico. Si trattava, in fondo, di due onesti b-movie d’azione, sorretti da qualche bella idea ma che poco avevano a spartire con l’inventiva che aveva caratterizzato Terminator e Terminator 2. L’ultimo capitolo della saga non riesce ad arrivare neanche a questo livello. Eppure le ambizioni non mancano. Peccato il prodotto finale sia, senza giri di parole, imbarazzante.
Togliamoci il dente: Terminator Genisys è, con tutta probabilità, il peggiore film di fantascienza degli ultimi vent’anni, almeno restando nell’ambito delle produzioni ad alto budget. E sembrava davvero difficile riuscire a far peggio di registi come Michael Bay in The Island o Paul W.S. Anderson in Punto di non ritorno.
La recensione più succinta del film potrebbe essere la seguente: un ottimo quarto d’ora iniziale e poi circa cento minuti di nulla che dimenticherete appena usciti dalla sala. Ci si potrebbe fermare qui.
Vale però spendere due parole in più per cercare di capire perché – e fino a che punto – questo film sia sbagliato, in quanto offre lo spunto per una riflessione più ampia sulla deriva che il cinema spettacolare d’oltreoceano sta prendendo negli ultimi anni.
Quello che appare subito evidente è che Hollywood è incapace – ormai da tempo – di creare icone penetranti nei confronti dell’immaginario globale, che siano, inoltre, durature. Che questa sia, e non da ieri, l’epoca d’oro dei remake e dei reboot è sotto gli occhi di tutti. Non si tratta però solo di recuperare eroi e maschere dal passato cinematografico cercando di sfruttare l’onda lunga della loro persistenza nell’immaginario comune, con risultati naturalmente alterni (Il pianeta delle scimmie, Star Trek, Star Wars, Indiana Jones, Jurassic Park, Halloween, Godzilla etc. etc.). I più grandi successi cinematografici degli ultimi anni, dal punto di vista degli incassi, possono quasi sempre essere identificati come sequel di pellicole già esistenti o adattamenti di opere provenienti da altre forme narrative: il fumetto con Batman o The Avengers, la letteratura con Il signore degli anelli, Harry Potter e Hunger Games, persino giocattoli, con la saga dei Transformers. Ci sono naturalmente delle eccezioni, rappresentate da soggetti originariamente sviluppati direttamente per la trasposizione cinematografica, ma quanti riescono a lasciare una traccia a distanza anche solo di uno o due anni dalla loro uscita nelle sale? Quanto, per fare un esempio concreto, i robottoni del mediocre Pacific Rim sono riusciti a sopravvivere alla masticazione e digestione frenetica da parte del loro pubblico? Quanti di questi titoli, di questi eroi, insomma, riescono a creare una vera e propria mitologia che si ramifichi successivamente alla loro veloce fruizione? Forse l’unica eccezione di un certo peso è rappresentata dalla serie di film dei Pirati dei caraibi, e non è certo un caso che, almeno i primi, fossero diretti da un regista consapevole e originale come Gore Verbinski. Pare evidente, però, che una tendenza alla reiterazione sia presente.
Questo è frutto, naturalmente, non solo della mancanza di inventiva e coraggio rintracciabile fra le schiere di produttori, sceneggiatori, registi che cooperano alla realizzazione di questi film, i quali costituiscono certo una parte importante del problema, ma anche nei cambiamenti che hanno interessato le modalità di fruizione. Grandi, importanti, film spettacolari vengono rilasciati nelle sale ad un ritmo sempre più serrato, la visione assomiglia sempre di più ad un atto feroce, vorace, bulimico persino e il tempo della sedimentazione fra un film-evento e l’altro è talmente esiguo che non lascia possibilità al mito di proliferare. Non che esistano sempre le condizioni necessarie, anzi. La tendenza nostalgica, reiterativa, che caratterizza quasi tutte queste grandi produzioni fa sì che per trovare opere più interessanti si debba andare a cercare fra quei film minori, dal punto di vista dell’investimento economico nel contesto del mondo hollywoodiano. E a volte, così facendo, esiste la possibilità di scovare delle piccole perle, come District 9 di Neill Blomkamp, anche lui ormai assorbito dagli ingranaggi della macchina livellatrice, o L’alba del pianeta delle scimmie.
Inoltre, quella che i produttori e gli autori pensano essere la strada del successo sembra somigliare sempre più ad una formula fissa o ad una ricetta di un cocktail: una base di azione, una certa dose – spesso soverchiamente abbondante – di umorismo, molte spruzzate di citazionismo acidognolo. Una ricetta che sembra ormai dare vita solo a miscugli prevedibili, stantii e incredibilmente ripetitivi, che iniziano ad emanare un certo odore di putrefazione. Una formula che non solo costituisce l’ossatura di quest’ultimo capitolo di Terminator ma che con questo film arriva a mostrare in maniera davvero esplicita ed evidente i propri limiti.
Facciamo un passo indietro. Quando Cameron diresse il primo Terminator aveva alle spalle una brevissima e non certo felice carriera. Fra le altre sue esperienze – una, fra l’altro, come tecnico degli effetti speciali su 1997. Fuga da NewYork – c’era quella, fondamentale, maturata alla factory del regista Roger Corman, alfiere del cinema a bassissimo costo ma dall’alta capacità inventiva. E Terminator nacque esattamente sotto questi auspici: un b-movie fantascientifico a basso budget che doveva riempire con le idee – e ce ne sono davvero molte – quello che i soldi non potevano comprare. Terminator 2, prodotto con un budget relativamente più alto, si mosse su ben altri binari. Un film ipertrofico, ipercinetico, visivamente impressionante – che ancora oggi regge benissimo il peso degli anni – ma sicuramente più aperto al compromesso, più autocompiaciuto, più bendisposto nei confronti del pubblico. Una macchina per far soldi, insomma. Se il primo film si presentava come una pellicola austera, quasi monacale, rugginosa come il T-800 interpretato da Arnold Schwarzenegger, il secondo assomigliava più al nuovo antagonista T-1000: liquido, levigato, visivamente sensuale, mutaforma, pubblicitario per certi aspetti. Comparivano inoltre le prime strizzate d’occhio, le prime battute scritte apposta per essere ripetute, i primi cedimenti, una dose spesso irritante di sentimentalismo. Il tutto però all’interno di una confezione impeccabile infiocchettata da un James Cameron in grandissima forma e, forte delle sue due precedenti esperienze – The Abyss che gli insegnò l’utilizzo degli effetti speciali digitali declinati poeticamente e Aliens, un’ottima palestra per i registi di pellicole d’azione – ora perfettamente consapevole delle sue capacità di narratore.
Dopo l’esito positivo di Terminator 2 il rilancio del personaggio non ha mai incontrato un vero successo. Poteva essere lasciato nel suo glorioso passato. E invece no: ecco un nuovo ritorno.
Ci sono diversi modi in cui i creatori possono gestire la vita dei loro personaggi quando quest’ultimi passano sotto il controllo di altri: si può gioire del ritorno economico, come John Carpenter che interrogato sull’ennesimo sequel del suo Halloween rispose «non posso che parlarne bene, ogni volta che ne realizzano un altro mi ritrovo un bell’assegno nella cassetta delle lettere»; si può cercare di impedirne la fuga, come Robert Zemeckis che recentemente ha chiosato sulla possibilità di un remake di Ritorno al futuro «Non succederà finché io e Bob Gale (sceneggiatore del film) siamo in vita. Sono quasi certo che lo faranno dopo che moriremo, a meno che i nostri avvocati riescano a impedirglielo», ha detto, specificando che, a suo giudizio, rifare la pellicola «sarebbe oltraggioso. Specie perché è un ottimo film. Sarebbe come fare un remake di Quarto Potere. Che scemenza sarebbe? Per quale motivo dovrebbe succedere?»; si può, infine, mantenere un atteggiamento ambivalente. Come ha fatto Cameron nei confronti della saga di Terminator. Tale atteggiamento si esprime prima dichiarando che la saga doveva finire con lo scioglimento del T-800 che chiude il secondo episodio, poi esprimendo pubblicamente ammirazione per il lavoro di Jonathan Mostow, regista del terzo, poi, in seguito alla visione dell’ultimo ridefinire la propria scala di valori affermando che Terminator Genisys è il vero terzo film della serie.
Non si capisce davvero il perché di questo entusiasmo. Terminator Genisys è figlio sicuramente più di Terminator 2 che dell’episodio originario, ma senza averne ereditato neanche un’ombra del potente fascino. Sembra esserne, anzi, quasi una parodia. Tutti conoscono la storia alla base della saga: in un futuro prossimo le macchine hanno preso il dominio del pianeta e stanno sterminando la razza umana. L’unica speranza di sopravvivenza è rappresentata dal leader militare John Connor. Un cyborg umanoide viene quindi inviato nel passato per uccidere sua madre, Sarah Connor. Per proteggerla i resistenti mandano indietro nel tempo Kyle Reese che procreerà con lei la futura speranza per la razza umana. Viaggi nel tempo e classici paradossi temporali: elementi di non semplice gestione, ma che ormai costituiscono un patrimonio acquisito e un classico delle narrazioni di fantascienza. In Terminator 2 le cose si complicano un pochino. Sono passati dieci anni dalla fine del primo film. Un nuovo cyborg, più avanzato – il T-1000 – viene mandato indietro nel passato per uccidere John Connor da bambino. Per proteggere lui e la madre viene inviato questa volta un altro cyborg, dalle stesso modello di quello del primo episodio, appositamente riprogrammato dai ribelli. La cosa si fa più complicata ma lo sviluppo della trama è ancora piuttosto lineare e ad ogni modo i paradossi temporali non costituiscono certo il grosso del fascino di questi due film, che si configurano principalmente come pellicole di inseguimento. Tralasciamo di raccontare i successivi due film, dove invece si spinge decisamente il piede sull’acceleratore delle complicazioni derivanti dai viaggi del tempo e arriviamo all’ultimo, la vera star, il vero gigante della supercazzola fantascientifica inutilmente complicato.
La presenza di un futuro post apocalittico, due linee temporali nel passato – di cui una basata su ricordi di una linea temporale futura non ancora esistente (sic) – il moltiplicarsi dei cyborg in azione, e l’idea, interessante di per sé ma sviluppata davvero malamente, di considerare le due pellicole originali come degli universi non più solo narrativi e a se stanti, ma che si intersecano con quello attuale, sono tutti elementi la cui somma si traduce semplicemente in un noioso, complicato, e sgangherato pasticcio. E non un godibile pastiche, come forse era nelle intenzioni degli autori. Questo surplus di complicazioni ottiene l’unico risultato di annodare la storia su se stessa – in realtà, rispetto agli altri film non succede granché di nuovo se escludiamo il risibile colpo di scena con l’introduzione di un cattivo piuttosto ridicolo a là Matrix, terribilmente mal caratterizzato. Si intuisce che tutti questi elementi servono a preparare gli altri già annunciati della nuova trilogia, anche escludendo la ormai immancabile scena finale che interrompe i titoli di cosa, ridicola per come cerca di evocare esplicitamente una sorpresa che i rumors sugli altri film a venire avevano già abbondantemente disinnescato.
Insomma, alla linearità che aveva contraddistinto i primi film si sostituisce una maggiore complessità, per non dire complicatezza, di cui non solo non si sentiva il bisogno ma che gli sceneggiatori si dimostrano totalmente incapaci di gestire. Le necessarie e raramente chiarificatrici scene di spiegazione, che cercano di riannodare i fili consumati della trama, vengono tradotte filmicamente in imbarazzanti dialoghi che spezzano l’azione sballando completamente l’equilibrio del racconto e infarcendolo di riflessioni che vorrebbero ammantarsi di un vago sentore filosofico ma che finiscono solo per essere ridicole. Tante parole insomma, troppe parole, a scapito del ritmo. Già, il ritmo. Anche quello è un elemento che deve essersi perso per strada.
Alan Taylor, il regista, che aveva esordito nel 1995 con l’ottimo Palookaville e che negli ultimi anni ha diretto principalmente episodi di serie televisive – oltre al secondo episodio cinematografico del Thor Marvel – non è esattamente a suo agio nella gestione delle scene d’azione e quasi sempre si trova a scimmiottare la lezione del maestro Cameron con il risultato di trasmettere una costante e soporifera sensazione di déjà vu. E non si tratta né di una caduta né di un errore imprevisto. In Terminator Genisys il déjà vu è programmatico, voluto, desiderato e ricercato.
Se nel già citato ultimo episodio della saga di Jurassic Park, il citazionismo, come detto, ha un ruolo comunque preponderante, almeno si inserisce in una cornice visivamente autonoma, sia dal punto di vista cinematografico che scenografico. In Terminator Genisys, che pure si presenta non come un sequel ma come un nuovo inizio per il marchio del cyborg assassino, ogni elemento presente nell’inquadratura è visivamente allineato a ciò che è strato mostrato nei primi due episodi, e non solo per evidenti esigenze narrative. Vengono riproposte, a mo’ di mantra le stesse battute topiche, le stesse location, gli inseguimenti seguono gli stessi schemi di quelli conosciuti, e la citazione diventa non solo un momento di confidenza fra lo spettatore, una pausa intima, una strizzata d’occhio, ma si configura come la sostanza che sorregge il film e porta avanti il racconto. Una sostanza piuttosto fragile, bisogna dire. La citazione diventa quindi il film e il film, a sua volta, non riesce ad uscire da una schematicità, narrativa e registica, da serial tv. E la paura che i nuovi mezzi (cellulari, tablet etc.) attraverso cui fruire l’intrattenimento e le nuove forme in cui l’intrattenimento si incarna (internet, le serie tv) è talmente evidente da fare quasi tenerezza, nel momento in cui i “cinematografari” spaventati cercano di esorcizzarla. C’è, a tal proposito, un punto di contatto particolarmente evidente, fra gli altri, in Jurassic World e nel film oggetto di questa recensione. In entrambe le pellicole, infatti, gli smartphone e altri terminali simili vengono rozzamente descritti come dispositivi disumanizzanti, come un filtro che gli utenti mettono fra la realtà e la sua percezione mediata. Inutile qui dilungarci in una riflessione sulla perdita di materialità dopo l’abbandono della pellicola e l’avvento di una nuova era intangibile ed elettronica. Non sarebbe il caso. Qui quello che fa paura, per quanto si voglia mascherarlo dietro un paravento etico, è la paura di perdere soldi.
Difficile salvare qualcosa di questo film. Tempi narrativi sbagliati e mal calibrati, design visivo complessivo funzionale ma anche totalmente derivativo, cast completamente fuori fuoco, colonna sonora invadente, inespressiva, muscolare e irritante, colpi di scena ad accumulo ma senza che si raggiunga mai un vero pathos: anche tutto questo è Terminator Genisys. Si salva, è dispiace quasi dirlo, solo la tenera macchietta di Arnold Schwarzenegger, attore più sfumato di quanto si sia normalmente portati a pensare, ma che persevera nell’approfondire il tema della macchina capace di umanizzarsi, vera grande caduta di stile del Cameron sceneggiatore e che qui raggiunge il suo apice più patetico.
Si finisce, e lo si dice senza ironia, per parteggiare per l’evoluta, egocentrica ma a suo modo compassionevole Skynet.
Buona visione.