Nelle librerie italiane è uscito un nuovo fumetto di Manuele Fior. Ma alcuni lettori potrebbero non essersene ancora accorti. Comprensibile: non è un graphic novel, non è un albo, non è una porzione di un fumetto collettivo né una pre-pubblicazione su rivista. Molto semplicemente – si fa per dire – “I giorni della merla” è uno dei capitoli di L’età della febbre, uno degli ‘oggetti’ editoriali del momento, ovvero un’antologia letteraria ambiziosa (solo scrittori under 40, chiamati dai curatori Raimo e Gazoia a raccontare il presente) che, compiendo una scelta ben poco ordinaria, ha voluto inserire un fumetto accanto a una decina di racconti in prosa. Di seguito potete leggerne le prime tavole.
Prima sorpresa, dunque: in Italia qualcuno tenta l’operazione di associare narrativa e fumetto, come già fatto da Futuro Dizionario d’America (con un fumetto di Chris Ware), The book of other people di Zadie Smith (con Ware e Daniel Clowes). Due libri, va detto, in buona parte ispirati dal seminale numero 13 della rivista McSweeney’s curato da Chris Ware – su impulso di Dave Eggers – ormai 11 anni fa. Il che meriterebbe una riflessione a sé (cosa ci dice questa ‘ibridazione’ sulla percezione culturale del fumetto?). Non oggi, però. Anche perché il fumetto di Fior solleva ulteriori domande.
Infatti, ai lettori già familiari con l’opera di Fior si presenta una seconda sorpresa. In questo racconto, che inizia in un modo e finisce in un altro, ritorna Dora, la co-protagonista de L’intervista, in una specie di sequel o spin‐off tanto in sintonia con il clima dell’antologia quanto autonomo. Un caso decisamente raro, nel panorama del graphic novel contemporaneo, ancorato a un’idea di “fumetto letterario” come opera unica, contrapposta all’idea tradizionale di sviluppo seriale.
Ma il vero interesse per il racconto di Fior viene non solo dal fatto che sia editorialmente sorprendente, quanto dalla sua identità narrativa. Che pare in bilico tra compiuto e incompiuto, e tra il radicamento nel presente e lo scollamento in un altroquando. Un curioso fumetto‐Fringe, un po’ fantascientifico e un po’ iper-sociale, che saltella fra due dimensioni, vibra un po’ bizzarro tra l’una e l’altra, e tuttavia riesce a tenere dritta la sua breve rotta. “I giorni della merla” è insomma un fumetto ambiguo, nella sostanza (l’immaginario) e nella forma (editoriale). Un fumetto di transizione e sulla transizione, nell’epoca del post‐graphic novel, da parte di un autore che ci offre un punto di vista lucido e intelligente sulle sfide del raccontare a fumetti oggi.
“I giorni della merla” è una piccola sorpresa: un fumetto in un’antologia letteraria (italiana).
Diciamo che sembra un po’ come mettere un brano musicale, in un’antologia letteraria. Il che è da un lato interessante, dall’altro disorientante. Mi immagino chi legge il libro – magari tra i lettori non abituati a leggere fumetti – e a un certo punto arriva al mio lavoro, che leggerà in 10 minuti. È un rapporto temporale molto diverso rispetto ai racconti in prosa, e mi chiedo che reazione avrà. Proprio per questo ho notato che la critica, almeno finora, non si è concentrata troppo sul fumetto: anche la critica letteraria, forse, non ha i mezzi per decodificare, e non sa bene cosa dire. Penso comunque che sia un’operazione coraggiosa, e ho accettato anche per questo, e perché credo apra a un pubblico diverso da quello che raggiungo con i miei fumetti. Naturalmente il risultato di questa alchimia lo vedremo col tempo.
Va detto che non è semplice ‘digerire’ un simile accostamento di linguaggi, che oscilla – in modo inevitabilmente ambiguo – tra giustapposizione e ibridazione.
È probabile.
Accostare linguaggi diversi mi pare comunque positivo, perché spesso è proprio dal continuo slittamento che nascono curiosità e nuove idee.
È anche vero che fa parte di una certa formazione di lettori, slittare da un linguaggio all’altro. Forse, col tempo, si acquisirà una maggiore facilità. Penso a progetti che di recente, qui in Francia, hanno un certo successo come La Revue Dessinée, in cui il punto, per chi legge, è che scegli di informarti su cose che sarebbero “pallose” attraverso riviste disegnate. E qui lo slittamento inizia a farsi importante: una volta al mese puoi informarti su temi pallosi ma che, in questo modo, diventano digeribili. Potrebbe essere una delle cose più banali da dire sul fumetto, eppure è vera: te li leggi senza quasi accorgertene. Per esempio, quando arrivo alle pagine di economia e finanza su Repubblica in genere le salto, invece nel caso di una Revue Dessinée le leggo.
Parliamo del tuo racconto. Il cui tema, almeno nelle prime tavole, sembra il rapporto tra lavoro e impresa.
In realtà cerco di orbitare intorno ai temi che un po’ ho sollevato con L’intervista, e sto cercando di arricchire questo universo che ho immaginato entrando pian piano più nel dettaglio di alcune cose. Il campo del lavoro fa parte di un ambito distante dal mio interesse – una cava di marmo – eppure appartiene a un processo ormai inarrestabile per il quale, quando lasci alle spalle gli spunti autobiografici, vai a interessarti a cose molto distanti dalla tua realtà e dal tuo nucleo di interesse. Perché proprio da lì possono uscire, tangenzialmente, le cose più interessanti.
Ne L’intervista, ad esempio, mi ero concentrato sulla figura di uno psicanalista. Un uomo dallo stile, età e situazione sociale ben diversi dai miei. E devo dire che mi piace radicarmi sempre di più in temi lontani da me, ma per poter raggiungere nuclei estremamente personali. Penso soprattutto a questa cosa che si sta concretizzando sempre di più: la passione per il magico, la fantascienza, il fantastico. Il magico luccica ancora di più, se circondato da circostanze molto normali, concrete. “I giorni della merla” inizia con un personaggio che ha evidentemente truccato una gara d’appalto, e viene chiamato la domenica in questa cava. È sicuro che lo aspetterà un regolamento di conti; i suoi clienti vogliono forse vendicarsi di lui, perché ha commesso alcune illegalità … E invece ne esce qualcosa di tutt’altro. L’uomo si trova di fronte una fibra rocciosa che è stata scoperta un mese dopo gli avvistamenti ne L’intervista; un materiale che sembra non essere soggetto alla forza di gravità.
Si passa quindi da tutta una serie di questioni di attualità – illegalità, corruzione, italianità – per scivolare progressivamente in un mondo che non so definire, ma cui cerco di avvicinarmi piano piano: magico, onirico. Un mondo in cui cerco di riportare questo ingrediente primigenio del fumetto, la fantasia, per riscoprire il suo valore. Dopo 20 anni di fumetto che ha abbassato il suo orizzonte a quello del reale o del quotidiano, mi piacerebbe ritrovare un altro orizzonte – senza farne gerarchie – che sia rivolto a un nuovo tipo di visione. Come le visioni da cui sono stato sedotto all’epoca, da Moebius. Sento insomma che ho voglia di cercare un nuovo tipo di visione, di immagine del futuro.
Dunque questi temi di attualità sono sottomessi al fantastico, o quel che ti interessa è piuttosto la frizione tra le due cose?
La frizione è importante. Se non c’è, il visionario perde di consistenza. Si rischia di scivolare in un’idea del fantastico o fantascientifico del passato, anni Settanta/Ottanta – penso ancora a Moebius – molto slegato dalla realtà di tutti i giorni. Quella era veramente una letteratura di evasione che punta altrove, verso altri mondi, altri universi. Penso però che dopo la nostra ‘cura’ fatta a colpi di L’Association – ma penso anche a Gipi – ovvero dopo anni di questo sguardo con telecamera in spalla, che ci ha aiutato molto a crescere, l’approccio al fantastico non sia più quello di 30/40 anni fa. Questa frizione dunque è importante, perché propedeutica a immaginare un mondo nuovo, cose nuove. Per esempio, nelle mie storie, un futuro prossimo nuovo in cui non si caschi sempre nell’idea di apocalisse.
C’è un bel libro che ho letto da poco di un economista americano, Debito. I primi 5000 anni, in cui si spiega che il collasso del capitalismo porta con sé anche un effetto collaterale: l’impossibilità di pensare a un sistema diverso. Secondo Graeber, infatti, il capitalismo sarebbe pronto ad autodistruggersi piuttosto che immaginare un’alternativa a se stesso. Anche l’immaginario di oggi, per esempio cinematografico, non riesce mai a pensare un al di là, ma solo una distruzione totale, una tabula rasa. Mentre il passo concettuale che dovremmo cercare di fare è pensare un futuro in cui, come nel presente, convivono cose anche positive, grosse rivoluzioni che cambiano tutto. Io per esempio metaforizzo come rivoluzione quel materiale che viene trovato dai miei personaggi, o la telepatia. Questo materiale potrebbe portare, nella mia immaginazione, a creare anche tessuti che fanno volare le persone… Dunque mi permette di riappropriarmi di un sogno – il volo – di cui la letteratura è piena, e di riproporlo con le coordinate che abbiamo adesso.
Mi sembrano nuove coordinate per un antico compromesso, quello tra reale e fantastico.
Più che un compromesso, per me è una direzione inedita e un po’ rivoluzionaria. Anche quando ne parli con gli editori non è facile. Per esempio, se annunci che il tema del tuo prossimo fumetto potrebbe essere il volo [ride] pare un oggetto volante non identificato!
Proprio sul volo hai scritto, di recente, un intervento all’interno di una raccolta di saggi su Studio Ghibli.
La cosa più bella sul volo, in Miyazaki, è proprio la frizione tra realtà e irrealtà del volare. In Superman, proprio sul volo, non c’è alcuna frizione: vola come un 747. Mentre per la streghetta di Kiki consegne a domicilio volare è sempre una lotta, un “aggrapparsi” alla sua scopa. Tutto è relativo al fatto che, come dire, in realtà non puoi volare, e quindi è un po’ una condizione eccezionale. È un’estasi come la descrive Herzog nel film sull’intagliatore Steiner: una condizione talmente non umana che è estatica. Non a caso, i santi che andavano in estasi si alzavano da terra; c’è poi il volo delle streghe, e tanto altro.
In realtà, quando dico che il mio prossimo lavoro vuole essere sul volo, in testa ho quasi una massa di cose ingestibili. E non intendo dire che immagino un fumetto di evasione sul volo. Per me questo è un mondo molto bello ma complesso, fantastico ma anche storico. Un tema molto umano. In cui ritrovare anche cose come il tappeto volante, insieme a molte altre rielaborate e digerite – in salsa mia, ecco.
L’altra sorpresa del tuo racconto ne L’età della febbre è che, a un certo punto, riappare Dora. Quasi si trattasse di un sequel de L’intervista. Perché sei ritornato a quell’universo?
Perché vorrei proprio continuare in questa direzione. Mi piace molto disegnare Dora. Forse ho trovato un “personaggio”? Non so ancora ben dire. Da Corto a Valentina, anche io voglio restare in sua compagnia. Non diventerà un personaggio ‘da serie’, ma forse una specie di opera che si compone di più capitoli anche disegnati in tecniche diverse. Quel che so è che arrivato a 40 anni, e con alle spalle sei libri a fumetti, mi sembra più stimolante continuare con elementi già venuti alla luce, che non inventare ogni volta personaggi nuovi. Forse sto cambiando un pochino io. Mi ritrovo a rileggere cose lette tanto tempo fa, come Pratt, Crepax, Daredevil, gli X‐Men… Sono cresciuto in un contesto fumettistico diverso, però il fascino del seriale c’è ancora. A patto che abbia le regole che gli do io, che posso pensare io.
Mi sembrano interessanti i dubbi intorno all’“avere trovato un personaggio”.
Perché per un fumettista, avere un personaggio nel 2015, non è più la stessa cosa. Come si diceva prima sull’immaginario, sulla fantascienza che oggi non può essere quella di 30 anni fa, forse anche l’idea di raccontare la vita di un personaggio deve essere cambiata. Per esempio, non è più tempo di personaggi che non invecchiano mai. E quindi oggi forse serve un approccio diverso ai personaggi, almeno quelli creati da un autore di oggi. Per questo dico che non so ancora bene come fare … Ma so che alla base c’è un certo fascino per l’idea di seguirlo nel corso degli anni, o in fasi della sua vita che non hanno nulla a che fare con L’intervista: vederlo invecchiare, vederlo cambiare. Non è facile prevedere tutte queste cose, ma sento di avere questo interesse di fondo, e dunque questa è la direzione che intendo intraprendere prossimamente.
Immagini quindi di proseguire anche questo stesso racconto?
Sì, penso di proseguire anche questo racconto, magari prolungando alcune sue intuizioni. Per esempio questa scoperta di “materiale antigravitazionale”, che io conosco meglio di voi [ride]. Per dire, so che ha alcuni funzionamenti un po’ strani: ha molto a che fare con le persone che gli stanno vicino… E quindi voglio continuare su questo ma, come dicevo, con formati e tecniche diversi; per esempio il prossimo libro non sarà in bianco e nero. D’altro canto non penso di proseguirlo nel senso di considerarle le prime 26 pagine di un libro. Rimane una storia breve in un’antologia, ed è giusto che sia così.
Sembra quasi che tu non abbia un progetto, almeno in questa fase, ma una strategia.
Forse è anche il momento storico, in cui il fumetto ha bisogno di una specie di nuova rinfrescata. Lo vedo qua dalla Francia: probabilmente il mercato del graphic novel in sé ha cominciato a mostrare la corda. Si cerca di guardare cosa ci sia oltre il romanzo a fumetti di 200 pagine. Per quanto mi riguarda, dopo avere appena finito un libro (sul Musée d’Orsay) di 64 pagine, mi piacerebbe tornare a formati ancora più brevi, tipo anche 48 pagine. Per me è quasi un poter aggirare la prossima graphic novel, e magari anche spiazzare con un oggetto un po’ diverso. Niente di inventato da zero, sia chiaro, ma nel mio percorso è una novità.
Per noi che ci occupiamo di fumetto, sappiamo bene che una pagina come quelle di Little Nemo era sufficiente: una pagina alla settimana bastava a fare un’opera di grandissima profondità (per me forse una delle più grandi di sempre). Quello che mi chiedo, oggi, è: perché non possiamo pian piano anche tornare a focalizzarci sul fumetto tout court? Un fumetto che non ha bisogno di concorrere col romanzo in termini di numero di pagine. Per avanzare ci sono altre cose, come l’architettura della pagina, che ha un campo ancora molto ampio di possibilità. Basti pensare a Chris Ware, o a tanti altri: cosa si può fare con una o poche pagine? Ancora tantissimo. Poi so anche che per me è strano, perché da un lato sono affascinato dalla brevità, dalle poche pagine, ma dall’altro ho uguale interesse per opere fiume – e penso che ancora ne farò, in futuro – come Akira, con uno stile compatto, veloce, con cui raccontare tante cose. La realtà, in fondo, è che oggi abbiamo anche un sostrato di lettori più formato, rispetto a venti anni fa. Non è forse un contesto ideale?