Fino a poco tempo fa, il mio solo punto di contatto con l’hip-hop erano gli inevitabili Beastie Boys. I motivi sono un po’ gli stessi di tutti, riassumibili in maniera abbastanza sbrigativa – e forse poco rispettosa nei confronti di questa enorme cultura – in un paio di punti fondamentali: Paul’s Boutique è uno dei dischi più grandi di sempre, sia che si parli della produzione dei Dust Brother o delle geniali rime alla Egg Man («Sometimes hard boiled sometimes runny, it comes from a chicken not a bunny dummy»); il terzetto di Brooklyn ci ha sempre viziato girando video pazzissimi, tra cui l’eterno Body Movin’ con i suoi campionamenti al Diabolik di Mario Bava (spacciati come opere del presunto regista svizzero Nathaniel Hörnblowér).
Ai tre ex-party boy aggiungerei forse i Public Enemy – solo perché hanno fatto una canzone con gli Anthrax – e i Run DMC, ma più per motivi iconici che altro. Eppure, contrariamente a quanto avrei mai creduto, ora sto scrivendo questo pezzo ascoltando in loop la raccolta Looking for the Perfect Beat di Afrika Bambaataa. Uno che fino a poco tempo fa conoscevo solo per qualche hit e le stravaganti – diciamo così – mise da palcoscenico. Per quanto mi riguarda, la colpa di questa improvvisa epifania è tutta di Ed Piskor e del suo Hip Hop Family Tree.
Partiamo col dire che se hai la forza, l’incoscienza e il talento di portare avanti un progetto come questo – una storia enciclopedica del hip-hop narrata sotto forma di fumetto vintage – e di arrivare alla diffusione globale, allora qualcosa da dire ce l’hai. Non ci si scappa. Piskor ama alla follia sia la materia di cui ci vuole parlare, sia il linguaggio che ha scelto. Crede talmente nel progetto da scomparirvi all’interno, rinunciando a ogni forma di velleità per aderire completamente all’obbiettivo. Siamo agli antipodi del Fun di Bacilieri, dove al posto del rap si parlava del cruciverba e dei suoi risvolti sociali, ma dove l’idea centrale all’opera finiva centrifugata dall’ingombrante presenza del suo autore. Nel caso di Family Tree il risultato è molto più mirato, seppur presentando due facce ben distinte. Entrambe eccellenti ma non sempre compatibili tra loro.
Il lavoro di ricerca dietro al volume è incredibile. Raccogliere fatti e rime con una precisione da indagatore scientifico. Le feste nei campetti del Bronx, i primi sgangherati contratti discografici, l’arrivo del mercato dell’arte. La rivoluzione culturale portata dal hip-hop viene narrata in maniera ineccepibile, in maniera tanto enciclopedica da dimenticarsi che le pagine su cui andrà stampata saranno quelle di un fumetto. Ed è questo l’unico difetto di questo volume: l’essere composto per la maggior parte da didascalie con fantastiche illustrazioni sotto. La quantità di informazioni trasmessa è davvero enorme – a tratti frastornante – come se Piskor preferisse lasciar parlare la storia rispetto alle sua voce. Eppure, quando si decide a spingere sull’acceleratore e a cedere al piacere di romanzare un poco la realtà dei fatti, si dimostra un gran narratore.
Sono tanti gli esempi di questo talento così trattenuto. Afrika Bambaataa è tratteggiato così bene – enorme, impassibile, tanto temuto quanto rispettato – da sembrare tratto dai Guerrieri della Notte. Così tosto – leader della più potente gang di New York e al contempo maestro di cerimonie ai party più selvaggi – da essere scambiato per un personaggio di fantasia. Alla stessa maniera Rick Rubin, futuro produttore dal tocco di Re Mida e autentico deus ex machina di tutto questo suono, viene introdotto alla perfezione, partendo dalla sua adolescenza da ragazzo bianco privilegiato. Non viene anticipato nulla di quello che arriverà, lasciando il neofita con il fiato sospeso (“Cosa c’entra questo ragazzetto in fissa con i Ramones? Perché ne parlano così tanto?”).
Il modo con cui Piskor dissemina indizi e sottotrame è grandioso: dal giovane studente di grafica Chuck (D)ouglas che divide la stanza con un certo Dre, ai due sbarbatelli in tuta Adidas che cercano di farsi ascoltare in ogni modo, fino alle infatuazioni delle menti più illuminate per un certo gruppo di musica elettronica tedesco. E queste sono solo alcune delle frecciatine che un ignorante in materia come me ha saputo cogliere, mi immagino cosa potrebbe vederci un autentico appassionato.
In qualsiasi caso il fumetto è sfruttato come tale: impiega meccanismi narrativi solitamente dedicati alla finzione nel racconto della realtà. Si disseminano cliffangher, si lavora al margine della vignetta, si sfrutta la natura visiva del linguaggio per suggerire qualcosa di più delle parole. L’insieme diventa organico e l’hip-hop non è più una serie di fredde nozioni, ma un movimento vivo e in continuo divenire.
Il risultato è sotto gli occhi di tutti. Premiatissimo, presente in praticamente tutte le top ten dello scorso anno, ora perfino promosso a serie regolare. Eppure l’andamento di Piskor è comunque sottotono, relegando alcune tra le sue trovate più geniali alla breve appendice umoristica imperniata sulle similitudini tra hip-hop e supereroi (Grandi costumi! Alter Ego! Arcinemici!). Come se non volesse fare troppo rumore nel narrare una storia che ritiene molto più grande di lui.
Come abbiamo già detto non c’è spazio per nessun vezzo autoriale. L’unico aspetto su cui l’autore indugia è l’amore per uno stile grafico sospeso tra pop-art e il culto delle fanzine più underground. Le sue citazioni di Kirby o Steranko non sono mere dichiarazioni d’amore nei confronti di questi due enormi autori – sebbene siamo sicuri che Piskor li adori – ma un profondo segno di devozione nei confronti del fumetto popolare. Anche in questo caso Piskor lascia parlare chi è più grande di lui, non nascondendo mai le sue fonti e scegliendo di lasciarle svettare sulla sua impronta personale.
Forse si dovrebbe tacciare l’autore di essere derivativo, ma il fumetto è troppo compatto e unico per non essere il risultato di una precisa serie di scelte. Proprio come la musica di cui parla, Hip-Hop Family Tree riesce a essere allo stesso tempo ultrapopolare, legato all’autoproduzione da cantina, lanciato verso l’olimpo dei grandi artisti e composto da campionamenti del passato. Un’autentica dimostrazione d’amore per quella realtà di beat e rime che ha finito per cambiare il mondo.
Hip Hop Family Tree
di Ed Piskor
Panini 9L, 2015
112 pagine, 22,00 €