In un recente articolo della rivista online Prismo, abbiamo avuto la possibilità di essere introdotti, grazie allo sguardo sempre attento di Valerio Mattioli, al concetto di musica accelerazionista. Un’avanguardia sicuramente meritevole di una qualche attenzione, anche solo per il fatto di essere tra le poche cose che oggi sembrano guardare avanti. Chiarito lo spunto per questa column (e fermo restando che la lettura del pezzo originale è vivamente consigliata), un breve riassunto, per poi portare il discorso sul fumetto.
Tutto parte dal saggio Manifesto per una politica accelerazionista, steso da Alex Williams e Nick Srnicek. Secondo questo testo, il solo modo per superare il disastroso capitalismo di questi decenni, con tutte le sue disuguaglianze e l’iperconservatorismo che ne deriva, è… accelerare ulteriormente. Già. A differenza di ciò che sentiamo dire da ormai un decennio, la cosiddetta “decrescita felice” – che va esattamente dalla parte opposta – o qualsiasi altra forma di ‘localismo’, non sarebbero che palliativi. Il tema – il problema – è infatti così complesso da richiedere ben altro, per essere affrontato. Secondo i due teorici, l’attuale neo-liberismo sarebbe una sorta di freno a mano allo straordinario motore del progresso, imbrigliato nei gioghi dell’attuale classe dirigente. Poco interessata a condividere con il resto della popolazione il suo cono di luce.
Se, invece di opporci a tutto questo, ci decidessimo a spingere i meccanismi del capitalismo oltre il limite, avremmo due tipi di conseguenze: la dissoluzione di tutta la zavorra legata al vecchio modello, con la sua cronica incapacità di comprendere scenari davvero complessi, verso nuovi orizzonti di progresso; o l’apocalittico crollo di tutto il teatrino. Meglio il primo caso che il secondo, peraltro.
A rendere il tutto più interessante è il fatto che a questa filosofia abbia cominciato fin da subito ad affiancarsi un’estetica peculiare, votata al futuro e priva di ogni forma di nostalgia. Una forza creativa davvero seminale, che tra le sue varie diramazioni non poteva farsi mancare una nuova corrente musicale sviluppata ad hoc. Via tutte le trivialità del vecchio underground, così lercio e rumoroso, e avanti con un muro di suoni cristallini, ritmiche impalpabili e campioni ad altissima qualità. Ogni forma di emotività è bandita. Tutto deve essere gelido e distaccato come la più grandiosa opera di avanguardia, anche se tra un paio di anni risulterà – per una volta con consapevolezza – drammaticamente vecchio. Il riassunto perfetto di quella che potremo definire come “musica per ascensori” del futuro.
Per riuscire a creare qualcosa di finalmente slegato dalla retromania descritta da Simon Reynolds, gli artisti di questa nuova corrente sguazzano nella leggerezza, nel gratuito, nell’inoffensività più esibita. Musica digitale senza corpo, sia dal punto di vista letterale che metaforico. Dopotutto, per passare al prossimo stadio evolutivo della società, dobbiamo accelerare il più possibile quello che è il capitalismo odierno. Dal punto di vista musicale, significa mandare in soffitta abrasivi rumorismi punk, e fare spazio ad algidi cicalecci digitali composti su tablet.
Se siete arrivati fino a questo punto, dovreste già essere abbastanza confusi. Vediamo quindi di complicare ulteriormente le carte in tavola. Con una domanda: e se si provasse a traslare questo impeto evoluzionista dalla musica ai nostri tanto amati fumetti? Ci si lamenta sempre di come questi siano bloccati in un limbo astorico, prigionieri di convenzioni e retoriche ormai fuori tempo massimo. Forse è il caso di dargli una spintarella, no? Dopotutto, quel che occorre loro non è che un’accelerata.
Poco tempo fa, ho visitato la mostra di un altro eroe del digitale-a-tutti-i-costi: “This is all so crazy, everybody seems so famous” di Cory Arcangel. Aldilà dell’indubbio valore dell’esposizione in toto – finalmente è stato possibile vedere con i propri occhi opere presentate da Matteo Bittanti nel fondamentale testo Gamescenes nel lontano 2006 – una delle cose più interessanti presentate al pubblico è stato il catalogo, concepito come una sorta di teen magazine. Grafiche digitali pacchiane al punto giusto, colori fluo, emoticon come se piovesse, adesivi e poster realizzati con gradienti di Photoshop.
Il vecchio e serioso catalogo, con la sua carta patinata e il suo peso da oggetto sacrale, non mi è mai parso tanto vetusto. Meglio un giornaletto per adolescenti, dove al posto dei saggi di emeriti critici sono riportate lettere d’amore spedite da qualche fan accaldata del 2075. Un lavoro straordinario, che spinge a riflettere sul peso della caducità del nuovo a tutti i costi. In mostra erano montati degli schermi con le proiezioni di effetti Java in voga fino a qualche anno fa. Un tempo (circa seconda metà degli anni ‘90) erano presenti su ogni sito che volesse apparire più accattivante della media. Ora paiono appartenere a un medioevo lontanissimo, simili a steli primitive.
Cosa c’entra questo con l’accelerazionismo? Alla faccia del ricacciare ogni forma di nostalgia, se andiamo a sentirci su YouTube uno dei dischi simbolo di questo genere (James Ferraro – Far Side Virtual) noteremo che il tenore dei commenti degli utenti non pare proprio protratto al domani («Like being sucked into a 90s virtual interactive tour through a CRT monitor» oppure «Listening to this, you may imagine a 90s software manufacturer encouraging you to get on board with their exciting new future!». Interessante poi l’insistere su realtà videoludiche come Nintendo Wii o The Sims). Il catalogo di Cory funziona esattamente alla stessa maniera. È un “nuovo“ vecchio che ci slancia in avanti. Ci disturba e ci invoglia a passare oltre.
Peccato aver mantenuto la carta, allora. Già, perché con i fumetti faremo sicuramente di meglio. Via quindi ogni supporto fisico, avanti con formati digitali responsivi e adattabili a ogni device. Liquidi, impalpabili. Dalle ololenti Microsoft all’ultimo terminale indossabile. Magari riusciremo a far tornare di moda anche i sensori di movimento alla Kinect o Leap3D, in modo da voltare pagina senza nessun contatto fisico (e il comando vocale fa troppo spy-story anni ’70). Forse gli stessi supporti saranno sfruttati per arricchire il fumetto di nuovi strumenti narrativi, rendendolo qualcosa in perenne mutazione. La rigidità dello spazio bianco lascerà spazio a transizioni molto meno faticose per l’utente, eliminando il fastidioso problema di dover colmare tutte quelle ellissi con il nostro lavoro di interpretazione.
In qualsiasi caso – mobile o statica – la qualità dell’immagine dovrà essere elevatissima. Sempre leggendo in giro per la rete commenti circa le produzioni accelerazioniste, una delle parole più ricorrenti è “pure”. Effettivamente, se andiamo a studiare uno dei portali simbolo di questa onda tecnoprogressista (DIS Magazine), pare di trovarci sulla homepage di uno Shutterstock qualsiasi. Immagini nitidissime, prive di qualsiasi spessore. Perché approfondirle significherebbe dargli significato, e questo non può accadere. Come ci fa notare il critico statunitense – indicato da Mattioli come voce ben più che autorevole – Adam Harper: «non ci sono più generi o scene, ma solo estetiche». E non a caso lo dice in un pezzo incentrato sull’health goth, che vorrebbe essere la variante più oscura del modernismo, ma che si limita a scimmiottare quanto già fatto da gente come Yohji Yamamoto per megacorporazioni come Adidas (quindi non proprio oscuri artisti da cantina). D’altronde cosa aspettarsi, quando l’intellighenzia di questo movimento pare ispirarsi alle pubblicità Apple piene di belle immagini, apparecchietti elettronici e cieli azzurro terso?
Non dimentichiamolo: c’è un fondo sovversivo, nell’aderire completamente – sfacciatamente, coraggiosamente – a un’estetica del consumo. E quindi avanti così. Anche per il fumetto. Il cui futuro potremmo immaginarlo così: disegni straordinariamente puliti, aggraziati, carini. Insomma, dalle parti delle sezioni videoludiche di Summer Wars o del corto animato Superflat Monogram di Murakami per Louis Vuitton. Sono lontani i tempi dei tratti bruschi e aggressivi, così come delle colorazioni cupe, lerce e opprimenti. Tutto deve essere luce, immediatamente intellegibile e praticamente privo di zone d’ombra. Con ogni probabilità anche le ambientazioni seguiranno questo andamento, spazzando via in un colpo solo incubi post-atomici, distopie fuori controllo e squarci di vita suburbana. Al loro posto una sorta di incrocio ipervitaminizzato tra Shibuya, Disneyland e il paese dei Munchkin del Mago di Oz. Più inquietante dei bassifondi di Roarsarch.
E poi c’è la scrittura. Che dovrà essere leggera, avvitata su se stessa. Verrebbe da pensare a uno shōjo ambientato nel paese del terrore descritto poco prima, o al limite in qualche metropoli futuristica, in cui tutto è pulito e lindo come in una sala operatoria. Pettinature dai colori folli, vestiti minimali, scritte pubblicitarie in helvetica dalla crenatura perfetta. Decine di storie incastrate tra di loro in un dedalo tanto luccicante quanto cristallizzato. Frammenti di piacevolezza sprovvisti di una reale spinta (alla faccia dell’accelerazione), indispensabile per evolvere in maniera tradizionale. Come ci ricorda Steven Shaviro “where transgressive modernist art sought to break free from social constraints, and thereby to attain some radical Outside, accelerationist art remains entirely immanent, modulating its intensities in place” (dal saggio Accelerationist Aesthetics: Necessary Inefficiency in Times of Real Subsumption). Tutto è fine a se stesso. Come in un reality di Mtv, dove in realtà non succede mai nulla. Anche le spinte narrative più importanti finiscono per annullarsi, e alla fine si sapeva già che John si sarebbe rimesso con Deena. Tanto valeva non guardarsi le puntate precedenti e arrivare subito a questo punto.
In tutta questa operazione, sia chiaro, non c’è traccia di ironia. Non si tratta di scrivere un fumetto totalmente inoffensivo come parodia della proposta editoriale attuale, ma di aderire completamente a essa e di sfruttarne le caratteristiche insite per risultare urticante. Il vero pericolo arriva dai prodotti completamente privi di trasgressione. Ce lo ricorda anche Kyary Pamyu Pamyu, idol giapponese prodotta dalla musicista accelerazionista Sophie, in una recente intervista a Dazed: «My kawaii world is poisonous – it’s not straightforward». E in effetti basta vedersi uno dei suoi video per capire cosa ci celi dietro a una dichiarazione simile. Zuccherini in maniera tanto nauseante da superare a destra, e senza troppa fatica, robaccia gore alla Forced Gender Reassignment dei Cattle Decapitation. E se un tale eccesso di glucosio può risultare quasi letale in ambito musicale, non vedo perché non dovrebbe funzionare anche in quello editoriale.
L’inoffensività di tutti questi prodotti, compreso il nostro ipotetico fumetto, è talmente palese da risultare straniante. Già immagino i dialoghi scritti in un pidgin incomprensibile, mistura letale tra acronimini, emoji, neologismi dell’ultima ora e svolazzi di carineria. Non stento a credere che mi troverei quantomeno infastidito da un simile prodotto, proprio come mi sento prudere le mani dopo pochi secondi della hit accelerazionista “Hey QT”, che riesce a essere contemporaneamente video musicale e réclame per un’ipotetica bibita energetica (in questo fantastico mondo non ci si può mostrare stanchi o depressi, bisogna sempre girare a mille). Tra parentesi, anche questa canzone è prodotta dalla Sophie di cui vi parlavo prima. Definita dal sito del Boiler Room “the artist behind some of the most forward-thinking + infectious club music of the past 18 months”. Diciotto mesi, come se si trattasse di un’unità di misura importante.
Non mi pare di poter aggiungere molto altro sul nostro fumetto. Se non che lo immagino brandizzato in maniera spettacolare. Sneaker a tiratura limitata disegnate da qualche rapper finito sulla copertina di the FADER, lettori FLAC ad altissima fedeltà, marche di acqua di lusso (alla Voss), bibite energetiche dai colori improbabili. Tutte cose che in qualche maniera potrebbero anche essere fighe – tranne l’acqua a 34 dollari a bottiglia, quella è da coglioni e basta – ma che in realtà … mi fanno venir voglia di andare a vivere nei boschi. Il più lontano possibile da tutta questa lucentezza consumistica e dalla gente che la venera. Una rabbia molto più profonda da quella generata da anni di letture di fanzine fotocopiate, votate al più abbietto abbattimento di ogni paletto della decenza. Forse perché da quella parte ci puoi trovare un minimo di senso di appartenenza, come se voler indispettire il pubblico generalista ci rendesse parte di un club esclusivo. Dove il nostro bisogno di esclusione possa essere compreso e condiviso anche da altre persone. Alla fine risulta quasi rassicurante. A differenza del nostro fumetto, dove invece il bisogno di distacco risulta tirato al limite.
Non male. Vuoi vedere che siamo diventati i fumettisti più pericolosi dopo Mike Diana?