Ai lettori più distratti nomi come Doctor Mirage, Flamingo e Shadowman non provocheranno alcuna reazione al di là di un aggrottamento di sopracciglia neanche tanto convinto. Eppure la casa editrice che pubblica tali personaggi, la Valiant, è la next big thing dell’editoria statunitense, avendo saputo fare sua la dinamica di rinascita attuata dalla Image Comics.
Come quest’ultima, Valiant era una casa editrice nata a ridosso degli anni Novanta che aveva fatto fortuna con una serie di titoli commercialmente solidi e che in seguito è rinata dalle proprie ceneri. Vulture ha analizzato il fenomeno, ripercorrendo le tappe che hanno portato alla rifioritura del marchio newyorchese.
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Nata nel 1989 con l’apporto dei fuoriusciti Marvel Jim Shooter e Bob Layton, Valiant debuttò sul mercato con storie di supereroi misconosciuti i cui diritti erano stati rilevati per l’occasione da altri editori. Solo nel 1992 iniziarono a uscire creazioni ex-novo. La cifra stilistica: concept assurdi trattati con estrema disinvoltura (Rai, per esempio, era un samurai che combatteva nel Giappone del XLI secolo, X-O Manowar un guerriero visigoto in fuga dagli alieni). Fu da subito un successo, complice la bolla speculativa dei collezionisti.
La bolla era stata causata da un picco di vendite a fine anni Ottanta, quando il mercato aveva iniziato a interessarsi alle possibilità di sfruttamento e le case editrici – tra cui Valiant – stamparono copertine sempre più elaborate, dalle popolari cover metallizzate a quelle fosforescenti, dal rilievo all’olografico. A metà anni Novanta, la bolla scoppiò e mieté vittime illustri. Valiant fu acquisita dall’azienda di videogiochi Acclaim Entertainment nel giugno del 1994. L’idea di sfruttare i fumetti per produrre videogiochi si rivelò un azzardo, e Acclaim chiuse i battenti nel 2004.
In quell’anno, Dinesh Shamdasani era un ventitreenne emigrato da Hong Kong alla California con un lavoro alla Universal Pictures, nonché un membro attivo del forum ValiantFans.com. Shamdasani era un fan di ferro della Valiant. Per il suo tredicesimo compleanno s’era persino fatto fare una torta a tema. La sua passione era stata foraggiata dall’amico Jason Kothari, il cui padre tornava dai suoi viaggi di lavoro in America con valigette piene di fumetti. Per comprarsi un po’ di amicizie, Kothari regalava ai compagni quelli che reputava meno pregiati. A Shamdasani era capitato il numero 6 di X-O Manowar, uno dei titoli di punta della Valiant. Era stato amore a prima vista.
Appena si diffuse la notizia del crack della Acclaim, la comunità si accese: le proprietà intellettuali e gli asset della Valiant erano in vendita e girava voci che lo studio Film Roman (quello de I Simpson) aveva messo sul piatto 50.000 dollari. «Ero incazzato. Voglio dire, 50.000 dollari? Valevano molto più di 50.000 dollari!». Così, con l’aiuto di Kothari, raccolse un po’ di soldi, partecipò all’asta e perse. Arrivò secondo: qualcun altro si era comprato i suoi eroi dell’infanzia. «Stavo per dire addio ai miei fumetti, quando il vincitore si ritirò», Shamdasani si offrì per acquistarli al posto suo, ma un anonimo rivendicò il possesso dei diritti.
I due anni successivi passarono in combattementi a suon di avvocati per l’uso delle proprietà; poi, nel 2007, Shamdasani e Kothari vinsero la battaglia e furono liberi di rifondare la Valiant con il nuovo nome di Valiant Entertainment. Avevano però una casa editrice di fumetti e zero conoscenze di come farli, i fumetti. Chiamarono Shooter per farsi aiutare, ma il pessimo carattere dello sceneggiatore minò la relazione e costrinse i due a tornare allo stadio di progettazione.
«In redazione c’erano un sacco di appassionati di sport», ricorda Shamdasani, «e tutti avevano ben in mente Moneyball», il libro che racconta la vittoria della squadra di baseball Oakland Athletics grazie a una campagna acquisti basata sulla sabermetrica e su giocatori economici e ignorati dai grandi team. L’editor Marvel Warren Simons (di recente nominato editor-in-chief dell’etichetta) fu coinvolto affinché cercasse talenti che Marvel e DC avevano scartato; e intanto Shamdasani persuase alcune personalità che avevano lasciato la Casa delle Idee dopo l’acquisto da parte di Disney (gente come Robert Venditti, Josh Dysart, Patrick Zircher e Clayton Henry) che con Valiant avrebbero avuto una libertà creativa totale e sarebbero state parte integrante della costruzione di un nuovo universo supereroistico. In altre parole, titillò il loro ego con la promessa di essere ‘grande pesce in piccolo stagno’. E poi, chissà, magari lo stagno si sarebbe potuto allargare.
Nell’estate del 2012, Valiant operò un reboot sulle testate conosciute negli anni Novanta. E funzionò. X-O Manowar vendette 42.000 copie nel primo mese, il miglior risultato per un titolo indipendente dietro solo a The Walking Dead. La formula non era poi tanto diversa da quella di Shooter: idee fuori dagli schemi trattate con onestà e consistenza. Anche le testate meno seriose, come Archer and Armstrong (che nel primo arco narrativo ha visto i protagonisti combattere una società segreta di monaci buddisti nazisti, quindi non propriamente Faulkner), evitano di rompere il quarto muro o di citarsi addosso per il gusto effimero dell’ammiccamento al lettore.
Pur restando indietro ai colossi del settore in termini di vendite, il risultato della Valiant sul breve periodo è rimarchevole. Ma Shamdasani non intende fermarsi: «L’obbiettivo è diventare il terzo polo dell’industria. Tra cinque, dieci anni, o quanti ne serviranno, ci arriveremo.»