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‘Fatherland’: Steven Guarnaccia in mostra a Bologna

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Il seguente testo di Steven Guarnaccia accompagnala sua mostra che si tiene a Bologna presso l’Associazione Hamelin. Organizzata dall’associazione stessa, l’iniziativa rientra nella programmazione del progetto europeo Transbook Children’s Literature on the Move. Inaugura oggi alle 19:30 presso i locali di Hameli in via Zamboni 15.

Le fotografie che accompagnano il testo sono state scattate alla mostra da Emanuele Rosso.

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Come lo sciamano che, attraverso un oggetto personale, richiama lo spirito del suo proprietario assente, o come un genetista che ricostruisce un essere umano a partire da un filamento del suo DNA, ho cercato di evocare mio padre attraverso alcuni oggetti sparsi: un sigaro, una scarpa, una sega.

Questo è quanto sono riuscito ad avvicinarmi a lui, in vita e dopo.

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FUMARE

Per un bambino abituato ad andare in giro con una zampa di coniglio, un coltellino e un topo morto nelle tasche, l’idea di portarsi appresso tutta l’attrezzatura collegata alla pipa – l’alesatore, il curapipe, lo scovolino, i fiammiferi, l’astuccio per il tabacco – sembrava il naturale passo successivo nella crescita.

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SCARPE

Ovunque viaggiassimo, mio padre si metteva a cercare scarpe: espadrillas in Spagna, scarpe saddle nelle piccole città del New England. Erano scarpe ormai difficili da trovare, oppure in cui era difficile imbattersi nella piccola cittadina suburbana in cui vivevamo (le espadrillas, per esempio), ma penso che rappresentassero per lui una qualche idea di qualità, o dei giorni passati, o di appartenenza, sebbene non fosse affatto il tipo che si preoccupa di queste cose.

Alla sua morte, c’erano ancora nell’armadio espadrillas mai calzate, che ho ereditato e continuo a usare.

Ora acquisto scarpe ovunque sia in viaggio.

Quando ero alle superiori c’era una pubblicità per i mocassini Bass che mi affascinava: protagonista un ragazzo (mi sembrava uno studente di college) che ammira intensamente il proprio mocassino mentre lo lucida, e nel frattempo alle sue spalle una bella ragazza gli passa le dita tra i capelli. Mio zio Dave, il fratello di mio padre, una volta mi beccò a lucidarmi le scarpe, in una delle sue visite serali a casa nostra. Era incredulo: “Come sarebbe che un giovanotto come te passa il sabato sera a casa a lucidare scarpe? Dovresti essere fuori con i tuoi amici!”.
Mio padre aveva un rapporto speciale col commesso del settore scarpe al Fairfield Department Store (mio padre era un uomo parco di amicizie). Il commesso zoppicava, e calzava in un piede una scarpa correttiva con una spessa suola aggiuntiva. Faceva anche l’arbitro per la Little League di baseball in cui non mi era permesso giocare, a causa della mia malattia – ero appena guarito da due consecutivi attacchi di febbre reumatica, un anno dopo l’altro – per un po’ fui anche costretto su una sedia a rotelle – e mi era permesso fare solo l’aiutante e il responsabile delle mazze nella squadra di mio fratello, i Turnpike Cleaners. Mio fratello e io ci recavamo con mio padre al Fairfield Department store quando avevamo bisogno di nuove scarpe, per misurare la taglia col commesso zoppicante. Probabilmente avvertivo un’affinità con quest’altra anima disabile.

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VESTITI
Mio padre possedeva molte giacche con toppe di camoscio sui gomiti, cucite prima che i gomiti delle giacche fossero lisi. Questa era un’ostentazione britannica e “preppy”, tutto il contrario dei vestiti rammendati con le toppe.

Ci recavamo spesso al negozio dello stabilimento GANT a Norwalk per comprare camicie oxford con bottoni al colletto e gancio appendiabito (che veniva poi strappato via dai bulli della scuola), e maglioni Shetland, che dovevano abbinarsi ai calzetti. I miei genitori, rispettivamente il figlio di un immigrato siciliano del New England e un’ebrea di Long Island, erano attirati dai fronzoli della cultura borghese.
Mia madre si infastidiva quando mio padre indossava una camicia a quadri su un paio di pantaloni a quadri con fantasie che cozzavano l’una con l’altra.

CIBO

Quando mio padre friggeva i calamari, restavamo tutti fuori dalla cucina. I suoi calamari fritti apparivano “contusi”, ed emanavano il peggior odore che avessi mai sentito. I calamari non furono l’unico strano cibo con cui io e mio fratello entrammo in contatto. C’era il finocchio, che a me suonava come Pinocchio, e sembrava un cibo per bambini: una verdura che sapeva di liquirizia. C’era il fico d’india, che ancora non ho assaggiato. E c’era il melograno. Le piccole perle di polpa rossa traslucida, che attorniano un nocciolo duro e amaro, erano stranamente piacevoli da mangiare. In prima media fui oggetto di curiosità, per aver portato un melograno a scuola per pranzo. Già ero considerato strano per la mia scarsa socialità, il mio attaccamento ai libri, e i miei vani tentativi di vestirmi secondo la moda corrente. Il melograno a pranzo fu il sigillo alla situazione. In casa nostra la caponata si trovava in barattolo, come molti altri cibi: pasticcio di carne, i ravioli dello Chef Boyardee, pasta e fagioli, ostriche affumicate, prosciutto macinato speziato.

Quello che ho compreso solo successivamente nel corso della mia vita è che tutti questi cibi erano italiani. Ai tempi sembravano solo alieni. Sono cresciuto in una casa sprovvista, o quasi, di cultura etnica.
Mio padre preparava una lista meticolosa di cose da comprare al supermercato, e aveva un modo altrettanto meticoloso per mettere via gli alimentari una volta rientrati a casa. Le buste venivano tutte piegate con cura e conservate sotto il pianale della cucina, per essere usate come futuri sacchetti della spazzatura, mentre gli alimentari venivano divisi per categorie e allineati per essere poi stipati sugli scaffali della cantina. Il mio compito preferito era proprio sistemare le merci in barattolo sugli scaffali. I barattoli venivano impilati in base alla tipologia, e io mi sedevo sui gradini della cantina e distribuivo i barattoli sugli scaffali.

Mio padre era un abile preparatore di cocktail, avendo lavorato come barista al college. In casa non c’è mai stata una bottiglia di scotch per tutti gli anni della mia infanzia. Non preparava nulla che egli stesso non bevesse.

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POKER E ALTRI GIOCHI

Quando i fratelli di mio padre venivano da noi a giocare a poker sul tavolino da gioco pieghevole, l’odore acido di sigari masticati e birra calda impregnava il salotto. Mi piaceva impilare le chip. Lo zio Charlie mi diceva “vattene al diavolo, fuori di qui”. Pensavano che i bambini dovevano essere visti e non sentiti, e, possibilmente, neanche visti.

Mio padre era una star del football, un lanciatore del peso e del disco. Giocava anche a bowling (la variante duckpin) e a bocce. Duckpin bowling? Uno sport così poco macho. E con delle palle davvero piccole.

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STRUMENTI

Odiavo segare i rami degli alberi e spaccare i ceppi nel giardino sul retro con mio padre, nei freddi sabati mattina autunnali. Usavamo una sega a doppio manico per segare tronchi e rami caduti. Con un martello e un cuneo di ferro spezzavamo i ceppi che accatastavamo come legna da ardere. La stanza di famiglia era quella in cui guardavamo la tv, festeggiavamo il Natale, intrattenevamo gli ospiti e bruciavamo i ceppi.

La sega a doppio manico è ora appesa sopra la porta della nostra sala da pranzo a Brooklyn, e i sostegni del cuneo tengono aperta una porta.

Sembrava che gli attrezzi di mio padre potessero, in ogni momento, liberarsi dalla mia presa e rivoltarmisi contro. Avevo paura di essere martellato dal martello, segato dalla sega, o tagliato dall’ascia.

BASTONI

Mio padre iniziò a usare un bastone da passeggio un’estate, durante un viaggio in Messico. Nel corso degli anni ha incominciato ad appoggiarsi sempre più pesantemente sul bastone, rompendone uno dopo l’altro, man mano che il legno si asciugava e si arrendeva alla sua presa di ferro.

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LIBRI

Sebbene mio padre diffidasse degli “intellettuali” (chiunque si desse la pena di parlare dei libri che aveva letto), leggeva in continuazione. Si era iscritto all’associazione Club del libro, al National Geographic e alla rivista mensile dello Smithsonian.

Per quanto riguarda le arti visive, mio padre era perplesso dal mio desiderio di diventare un illustratore. La sua battuta immortale era: “Spero che tu sia in grado di mantenerti allo stesso stile di vita a cui sei abituato”. Questo non significa che non cambiò la propria opinione, una volta che cominciai a pubblicare regolarmente sul New York Times e su altri periodici. Si vantava anzi con amici e conoscenti del mio più recente disegno a essere apparso sul Times. Questo lo scoprì solo molti anni dopo grazie a mia madre.

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Steven Guarnaccia è uno dei più importanti illustratori contemporanei. Le sue tavole sono pubblicate su numerose riviste e quotidiani, fra cui “Abitare”, “Rolling Stones”, “Domus”, e il “NewYork Times”, di cui è stato per tre anni art direttore della pagina delle opinioni. Collaboratore delMoMA e di numerose aziende nel campo del design industriale, ha disegnato diversi modelli digioielli, orologi (Swatch) e murales (Disney Cruise).  È autore d’alcuni libri sulla cultura popolare e ildesign (Madam I’am Adam, Designing for children, Black and White…) e ha pubblicato numerosilibri per ragazzi (Naming the Animals, Busy Busy City Street…) tradotti in tutto il mondo. In Italia ilsuo lavoro è pubblicato da Corraini e include alcune fiabe rivisitate attraverso il designcontemporaneo, come Riccioli d’orso e i tre orsi – al quale è stato assegnato il premio per il migliorlibro per bambini di arte alla Fiera del Libro per Ragazzi di Bologna del 2002 –, I tre porcellini eCenerentola. Vive a New York dove insegna al Dipartimento di Illustrazione alla Parsons – NewSchool for Design.

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