Soffro di una grave malattia che si chiama indecisite. Una malattia i cui effetti collaterali più visibili sono una ossessiva-compulsiva determinazione per il collezionismo – in questo caso quasi sarebbe più corretto dire per l’accumulo – di prodotti culturali di tipo seriale. Mi spiego.
Quando inizio a comprare un qualcosa, ad esempio un fumetto che viene venduto in più fascicoli numerati, non posso fermarmi e devo continuare ad ogni costo. Anche se non leggo la storia, anche se la accumulo per un secondo momento quando vorrò e potrò finalmente mettermi lì e digerire uno dopo l’altro tutti i volumetti accatastati nella parcella dell’affitto di casa mia che occupano ed occuperanno per parecchi anni.
Ho un orientamento analogo per le serie di telefilm (e qui Netflix e Amazon Studios mi hanno capito, perché mettono fuori l’intera stagione in un colpo solo) che nel tempo ha portato anche all’acquisto di un numero imbarazzante di hard disk. Poco male, perché gli hard disk prendono meno spazio rispetto alle banconate di fumetti, che richiedono metri quadri, mensole Ikea, regolari spolverature. Con gli hard disk puoi sempre far finta di niente, perché tanto stanno in una singola scatola ben mimetizzata, con i fumetti che si accumulano, invece, è diverso.
Con i fumetti alla fine deve esserci il momento in cui finalmente leggi e dici: “Fantastico! Ho fatto proprio bene a comprare XYZ per tutte queste settimane (mesi, anni?) senza neanche avere idea di cosa ci fosse dentro. Se non l’avessi fatto avrei perso un capolavoro di questo apparentemente irrilevante ma in realtà fondamentale autore!”. E sei felice.
Il problema viene quando invece apri il primo, poi il secondo, poi il terzo volume e ti entra una depressione densa e pesante perché non si riesce ad andare avanti, i contenuti proprio sono storti, il disegno non piace, la storia non gira, è tutto sbagliato.
Bisognava accorgersene prima, certo, ma soprattutto bisognava non soffrire di indecisite. Perché l’indeciso cronico (come me) anche quando capisce a pelle che la serie di albi non sta in piedi, è scosso sempre dal dubbio. È buonista dentro. Si fa venire mille pensieri. Dice a se stesso: sto leggendo un inizio lento, ma l’autore potrebbe riprendersi. Se vuole ce la fa, può ripartire. Certo, pensi, potrebbe essere veramente una vaccata, ma potrebbe anche succedere l’imponderabile.
Chessò, ti dici, è vero che nell’attuale universo non sono ancora in grado di apprezzare questo autore sino in fondo, non appena però la Terra attraverserà un portale dimensionale che ci porterà altrove e ci cambierà dentro profondamente e per sempre, scoprirò che invece lui è il Frank Sinatra del fumetto. Se smetto di comprarlo adesso rimpiangerò di non avere accumulato gli albi settimana per settimana, mese per mese, anno per anno, ordinatamente e senza salti.
Ok, arriviamo al punto. Arriviamo al perché scrivo questa lunga premessa che in realtà è un tentativo di prepararmi a quanto segue. Rullo di tamburi e rivolo di sudore sulla tempia.
Ho deciso di lasciar andare Dragonero.
Ecco l’ho detto.
Il fatto è che in Dragonero ci ho creduto, ci ho voluto credere in tutti i modi, ho aspettato e sperato, ma non ce la faccio più. Dopo quasi due anni, uno speciale e non so quante altre cose, lascio perdere.
E non per mancanza di stima degli autori, intendiamoci! Luca Enoch per me è un grande dai tempi di Sprayliz (ho un suo disegno che mi ha fatto in una fumetteria di Sesto Fiorentino che ancora venero) e considero Lilith un grande fumetto. Anche Dragonero, se intendiamo con questo nome il romanzo a fumetti bonelliano uscito nel 2007, scritto con Stefano Vietti e disegnato da Giuseppe Matteoni, è un gran bel fumetto fantasy.
Dragonero ha introdotto un concetto che era contemporaneamente potente e fluido, con un intero mondo da esplorare preparato meticolosamente a tavolino, ma raccontato con un passo epico niente male. Un passo epico che nella serie regolare, arrivata nel 2013, ha retto molto poco: mi è morto tra le mani a partire dal quinto numero.
Il romanzo originale di Dragonero, immaginato dai suoi creatori per essere un exploit solitario, aveva la potenza che viene dall’uso di metodo e fantasia, disciplina e sregolatezza: i nostri autori raramente si mettono in condizione di lavorare con quella capacità professionale che contraddistingue gli autori statunitensi (e nipponici, a mio avviso) pur mantenendo freschezza e capacità di creare concetti interessanti.
Bonelli è uno dei pochi che riesca a coltivare la professionalità dei suoi autori in modo sistematico, proteggendoli e facendoli crescere in maniera sana e priva di pigrizia. Purtroppo, troppo spesso questo avviene a scapito della freschezza delle storie, che si appiattiscono nella regolarità di una serie. Invece, i nostri epici creatori di Dragonero avevano messo giù una storia sorprendente, potente nei suoi richiami e nei suoi tempi, secondo me ben pensata anche rispetto al momento (tra la prima e la seconda trilogia tolkeniana di Jackson), e devo dire anche ben bilanciata. Restava in bocca un giusto sapore di curiosità, ma non troppa.
Non so cosa sia successo dopo, quando è iniziata la serie regolare, e onestamente non sto neanche a chiedermelo più di tanto. Succede. Voglio dire: le copertine sono belle (a parte che siano un po’ tutte uguali) e i disegni dentro sono sempre di alto livello. I dialoghi scorrono bene, le ambientazioni convincono, lo studio per creare un universo coerente ci sta e non ci sono mai scorciatoie o banalità. Non sto a raccontare la storia, ma devo dire che ha tutte le sue cosine a posto.
Sarà invece una questione di chimica (o bisognerebbe dire “alchimia” visto il tema), comunque il passo di Lilith (ogni albo semestrale è come una piccola isola in un oceano infinito di tempo da passare nell’attesa) o quello epico del romanzo a fumetti del 2007 erano pressoché perfetti. Con la serie regolare invece no, non ci siamo. Manca qualcosa e non ho più il tempo e la voglia di sorbirmi altri venti anni di psicanalisi alla Nathan Never, alla ricerca del reboot perfetto (che ancora bisogna vedere, ma si capiva già dai primi venti albi che non ci sarebbe mai stato), o altri trenta di crescente depressione alla Dylan Dog, trasformato da indagatore dell’incubo in una specie di Second Life dei social network: tutti sanno che esiste ancora (più o meno) ma nessuno ci va più.
No, mi spiace, la vita è troppo breve, non ho tempo, bisogna anche correre nei prati, fare il giro del mondo con Ryanair, vedere l’Australia. Insomma, io Dragonero da oggi lo mollo ufficialmente, ho dato disposizioni affinché non sia più tenuto nella mia casella.
Ecco, l’ho detto (di nuovo).
E mentre lo dico, una vocina dentro di me sussurra: maledizione Antonio, ti sbagli. Dragonero passerà alla storia come uno dei più importanti fumetti del nostro tempo, ma tu non te ne sei accorto per via di una crisi acuta di indecisite che ti ha bruciato le vibrisse della bande dessinée. E passerai il resto dei tuoi giorni a cercare rari e costosi numeri arretrati che oggi potresti accumulare comodamente.
Uffa. Lo so. Ma resisto e non lo compro più.
*Antonio Dini, giornalista e saggista, è nato a Firenze e ora vive a Milano. Ha un blog dal 2002: Il posto di Antonio.