Great Pacific può vantare un concept di base davvero, davvero forte. Una di quelle trovate così bislacche, irriverenti e al contempo terribilmente contemporanee da non trovare asilo se non alla nuova Image. Produttrice di successi milionari alla Walking Dead, ma anche incubatrice di un’enorme quantità di piccole, sghembe serie come questa.
Si parla ormai di una casa editrice completamente slegata dal suo passato, fatto di grotteschi energumeni avvolti nel latex e di ambigue signorine dalle anatomie impossibili, oggi improntata su di un fumetto d’evasione – che si tratti di noir, fantascienza, horror o quant’altro poco importa – dalle forti connotazioni autoriali. Tutto questo per chiarire come l’idea alla base di questa serie sia tutt’altro che banale, perfettamente in linea con i vari The Manhattan Projects e The Wicked +The Divine.
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In poche parole: l’erede di una dinastia miliardaria di petrolieri decide di sottrarre un sacco di soldi dai fondi della sua azienda e di stabilirsi su di una chiazza di rifiuti galleggiante – frutto del fenomeno realmente esistente del Pacific Trash Vortex – rivendicandola come stato sovrano e ribattezzandola New Texas.
Anche questo caso non si tratta di una trovata del tutto avulsa dalla realtà, basti pensare al Principato di Sealand con i suoi cinque abitanti disposti a tutto pur di difendere la piattaforma artificiale su cui si sono stabiliti. Da questo presupposto così interessante si dipana un primo arco narrativo dove l’unica regola considerata valida è quella del continuo rilancio verso l’altro. Abbiamo la comparsa, tanto per fare un esempio, di una tribù di indigeni guidati dalla figlia di un seguace di un culto del cargo. Religione millenaristica – e altro esempio di fenomeno reale ben più bizzarro di qualsiasi idea di fantasia potesse farsi venire lo sceneggiatore – che vede coinvolte società tribali use alla venerazione di navi o aerei carichi di beni di sopravvivenza inviategli dagli stati Europei.
Aggiungiamoci pirati asiatici alla ricerca di testate nucleari inesplose rientrate dall’atmosfera all’inizio degli anni ’80 (indovinate? Anche qui si parla di fatti reali, con il sistema di bombardamento orbitale FOBS attivato nel 1969 dall’Unione Sovietica), enormi cefalopodi mutanti (chiedo venia, ma in questo caso non ho idea se si tratti o meno di un altro riferimento documentato) e ancora qualche altra sorpresa.
Insomma un sacco di ottimo materiale. Peccato che lo sceneggiatore Joe Harris non sia in grado di padroneggiare tutta questa carne al fuoco e lasci prendere il sopravvento a una narrazione dal andamento confuso e dal ritmo limaccioso, dove troppo spesso si ha l’impressione di tornare di continuo al punto di partenza piuttosto che di procedere verso il prossimo obbiettivo. E non parliamo certo di un esordiente alla prime armi, ma di un professionista con un curriculum di tutto rispetto (tra le altre cose Batman, B.P.R.D. e la nuova serie di X-Files per la IDW) a cui però manca totalmente il polso della situazione.
Ci si rimane un poco male perché – ci tengo a ripeterlo – a livello di nocciolo concettuale siamo a livelli stellari. Così come la scrittura dei dialoghi è ficcante e ritmata, di sicuro mai banale o stopposa seppure inclusa nello scontato solco della battuta sempre pronta.
Ironicamente si potrebbe dire la stessa cosa del disegnatore Martìn Morazzo, perfettamente a suo agio quando di tratta di mettere su carta scene enormi e ricchissime di particolari (rese in maniera davvero notevole dal suo tratto stilizzato ed essenziale) ma davvero troppo legnoso nelle sezioni di raccordo o nei segmenti meno concitati. Un narratore ancora tutto da rodare con un occhio eccezionale per i passaggi da kolossal spaccone e visionario.
La realtà dei fatti è che la coppia di autori ha deciso di misurarsi con una sfida enorme. Un’impresa che con ogni probabilità avrebbe terrorizzato molti dei loro colleghi. Abbiamo una storia dai vaghi toni politici, basata sul presente e su una serie di trovate tanto reali quanto davvero al limite del credibile. Intrecciate tra loro in maniera sempre più convulsa, con tutta l’intenzione di andare a generare un universo intriso in un immaginario grottesco e parossistico.
Se si considera anche l’input tecnologico che dà il via a tutta la vicenda pare di essere dalle parti del miglior Warren Ellis. Quello ossessionato dalle ultime scoperte scientifiche e dalla fantapolitica, eppure così innamorato dell’escapismo più terreno da non poter mai rinunciare a un denso substrato intriso di realismo urbano. Solo che del genio britannico manca del tutto la gestione folle del ritmo – sempre teso al limite – e la capacità di stupire (o disgustare) il lettore a ogni pagina.
Rimane un tentativo coraggioso di superare i propri limiti da parte del team creativo, nello scrivere e disegnare una storia che non prende spunto da nulla se non dalle intuizioni dello scrittore e che, sopratutto, non intende infilarsi in nessuna facile classificazione. E rispetto al tragico ripetersi di altre realtà a fumetti, ben più curate e professionali di questa, è già un grandissimo risultato.
Un volume solo più che discreto ma che, nonostante tutto, meriterebbe una spinta da grande produzione. A dispetto del necrofilo reiterarsi che pare andare per la maggiore.
Great Pacific vol.1 – Rifiuti
di Joe Harris e Martìn Morazzo
Saldapress, 2015
168 pag., 15.00 €