HomeFocusIron Man, Batman e la rivoluzione (a metà) del fumetto in digitale

Iron Man, Batman e la rivoluzione (a metà) del fumetto in digitale

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«Iniziamo dal concetto di mouse. Tu come lo descriveresti?» è la domanda che la rivista Comics Interview poneva a Mike Saenz, pioniere del fumetto digitale e artista di Shatter, primo comic book commerciale realizzato al computer. Siamo alla fine degli anni Ottanta, ma sembra passato molto di più.

A questo punto, era già da un po’ di tempo che il computer aveva iniziato a essere parte della conversione. Nelle arti visive, soprattutto, ogni dodici mesi si assisteva a crescite esponenziali, potenzialità inespresse emergevano dal mezzo e il cinema scopriva di poter dare vita a storie prima irrealizzabili. Forse con qualche stortura, il fumetto fece sua la foga per i calcolatori e avviò un dialogo fatto di bit e stralci d’informazioni.

Primi pixel: Shatter

La gran parte dei testi e dei saggi dedicati all’argomento differiscono sulla scelta del capostipite. Alcuni tirano in ballo Giovanotti Mondani Meccanici, il fumetto del 1984 di Antonio Glessi e Andrea Zingoni pubblicato sulle pagine di Frigidaire. Glessi e Zingoni prenderanno a prestito il titolo dell’opera per il nome del collettivo con cui, negli anni successivi, si dedicheranno soprattutto alla video arte. GMM è una prima sperimentazione ibrida: pur essendo disegnato su un Apple II, gli ‘originali’ furono fotografati perché all’epoca non era possibile stampare le vignette su un supporto cartaceo.

Altri citano Witches and Stitches, per altro considerato anche il primo esempio di proto-webcomic; Eric Millikin aveva iniziato a distribuire questa parodia de Il mago di Oz nel 1985 attraverso CompuServe, il colosso dei servizi commerciale online attivo negli Stati Uniti. A primeggiare in realtà sono tre cartoonist: Millikin, Hans Bjordahl, che diffuse il suo Where the Buffalo Roam sui server Usenet nel 1991, e David Farley, autore dal 1993 al 2006 di Doctor Fun, prima striscia presente sul World Wide Web.

I più assegnano il primato a Shatter (1985), che, nonostante sia successivo ai lavori di Glessi/Zingoni (ma comunque contemporaneo a Millikin), è da considerarsi il primo fumetto commercializzato a essere realizzato al computer.

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Pubblicato da First Comics, Shatter è un sci-fi dai toni distopici in cui il protagonista, il poliziotto Sadr al-din Morales, detto Shatter, ha la capacità di assorbire il talento delle persone che lo circondano. Scritto da Peter Gillis (in quegli anni in forza alla Marvel su Strikeforce: Morituri, Doctor Strange e What If…?), Shatter venne illustrato da Mike Saenz, designer e sviluppatore dei videogiochi Spaceship Warlock e la saga erotica Virtual Valerie. Le idee dello sceneggiatore andavano in una sola direzione: il cyberpunk, William Gibson e le atmosfere à la Blade Runner. Anche graficamente, Shatter è la cosa più vicina a una denuncia per violazione del copyright che vi potrà mai capitare tra le mani, tanto alcune pagine gridano ‘Syd Mead’.

Le tavole vennero create su un Apple Macintosh, introdotto sul mercato appena l’anno prima, e stampate con ImageWriter, la stampante associata al Mac che utilizzava una matrice di punti per creare figure e caratteri. Il procedimento consisteva nella realizzazione di bozzetti su carta che, dopo essere stati approvati dall’editor, andavano disegnati con il programma MacPaint, non essendoci uno scanner con cui riversare le matite.

Era un processo laborioso – che quasi tornava a guardare al puntinismo di Seurat – e per velocizzare i tempi l’artista creò dei file con oggetti di scena che potevano essere riutilizzati in caso di una loro riapparizione nella storia. Ogni aspetto del fumetto venne pensato e ideato in funzione del computer – i disegni, il lettering, il logo, perfino gli editoriali – tranne il colore, perché la stampante si limitava al bianco e nero e le tavole andavano colorate a mano. L’esatto opposto del metodo contemporaneo in cui il disegnatore scansiona la tavola e il colore viene applicato digitalmente. Saenz abbandonò Shatter dopo due numeri e la First Comics lo rimpiazzò con Steve Erwin e Bob Dienethal, che disegnarono i numeri successivi nella maniera tradizionale (un processo di digitalizzazione aiutò a mantenere la coerenza stilistica).

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Solo con l’arrivo di Charlie Athanas nel settimo numero Shatter tornò a essere un fumetto digitale. Athanas lavorò su un MacPlus da ben 1 megabyte di memoria e che montava Fullpaint e LaserWrite, rispettivamente il nuovo programma da disegno e la nuova stampante Apple. «La cosa più difficile non era disegnare con quel carro armato di mouse del MacPlus», ricorda Athanas, «e nemmeno l’impiccio di avere una memoria bassissima e l’intrigo di floppy su cui caricare programmi o file da riutilizzare. No, la cosa peggiore era che non potevi vedere la tavola intera, a meno che non la riducessi alle dimensioni di un francobollo. Le copertine e le splash page, in particolare, erano un incubo».

Shatter apparve sul magazine di computer Big K e sulla testata Jon Sable, per poi guadagnarsi una serie propria durata quattordici numeri. Il primo, stampato in 60.000 copie, andò esaurito, così come la sua ristampa (e che la First Comics ristampasse il proprio materiale era cosa più unica che rara), ma con il passare delle uscite il pubblico perse interesse per quello che era, in essenza, un innovativo esercizio di stile.

Crashare il sistema: Iron Man e Batman

Sarà proprio Mike Saenz, il disegnatore originale di Shatter, a proseguire nel solco con Iron Man: Crash, prima incursione di un editore generalista nel mondo digitale. L’opera Marvel del 1988 è anche il primo fumetto in formato graphic novel a essere ideato e colorato al computer. Crash è un tecno-thriller sugli ultimi giorni di Tony Stark che, ormai vecchio, finisce in una cospirazione industriale in seguito alla vendita dei suoi brevetti a un competitore giapponese.

Inizialmente, per dare a Testa di Ferro i suoi iconici colori, Saentz utilizzò il software Tint Prep della Pixelcraft; l’autore, da sempre utente Mac, si ritrovò a passare notti intere nel suo studio di New York a gestire un programma pensato per il PC. L’impaccio lo stava rallentando troppo e il lavoro rischiava di non essere completato in tempi utili. Fu l’entrata in scena di William Bates a salvarlo. Co-fondatore della Knowledge Engineering Incorporated (KEI), una società di software che lavorava in sinergia con la Apple per fornire servizi come JustText e Document Manager, Bates contribuì alla creazione di Lithographer, il programma per Mac atto alla colorazione al computer. In un giochi di specchi con la finzione – perché Crash parla di copyright e guerre industriali – sarebbe finito da lì a poco in beghe legali con il socio Frank Brooks Jr. per l’uso di brevetti registrati appartenenti alla KEI e che Bates riteneva di sua proprietà.

Iron Man: Crash non destò «soverchi entusiasmi», come scrisse Luciano Secchi su Super Comics (la rivista che lo pubblicò in Italia), e non c’è da stupirsi che sia caduto nel dimenticatoio. L’esperimento «squallido e da dimenticare», secondo Steve Oliff, pagò un’esecuzione stentata, sia in sede di scrittura, con una sceneggiatura in preda a rigurgiti di computerese e pagine intere in cui Tony Stark parla un mumbo jumbo di tecnobubbole prematurata come neanche Antani, sia in quella grafica: espressioni facciali limitatissime, sfondi – quando pervenuti – insipidi e una narrazione visiva goffa. Saenz tornerà all’attacco nel 1993 con Donna Matrix, un fumetto in 3D a tema sadomaso dove le vignette sembrano fotogrammi delle cutscene del primo Tomb Raider.

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Altro tassello dell’invasione nel mainstream fu il Batman: Digital Justice firmato da Pepe Moreno, che di Iron Man: Crash aveva curato gli sfondi. L’incursione della DC Comics nel genere è datata 1990 ed è, ancora una volta, una storia piantata nella distopia cyberpunk in cui James Gordon, nipote dell’omonimo detective, indossa il mantello di Batman per combatte il virus informatico denominato Joker e vendicare la morte della compagna Lena Schwartz. Ad aiutarlo ci sono il computer senziente Batcomp e il robot Alfred, nonché le nuove versioni di Robin e Catwoman.

L’artista spagnolo, presenza costante sulle pagine di Heavy Metal, collaborò con lo sceneggiatore Doug Murray, commilitone di Larry Hama e creatore della serie militaresca The ‘Nam, e si avvalse di un armamentario tecnico aggiornato agli anni Novanta: un Mac II, nuovi programmi (Studio 8, ImageStudio, Quark Xpress), 8 megabyte (!!!) di RAM e una scheda grafica da sedici milioni di colori.

Digital Justice rappresenta una saldatura più coerente tra tecnica e arte, grazie a un meno respingente effetto pittorico della tavola, ma risulta difficile entusiasmarsi per una storia così tanto derivativa dal Neuromante gibsoniano.

Se negli Stati Uniti non ci si staccò dalla fantascienza urbanizzata, dall’altra parte dell’Atlantico, l’Europa mosse i primi passi con L’impero dei robot (1988), elaborato su un Atari 520 T e una primitiva tavoletta grafica dal tedesco Michael Götze, in Spagna il Mac sarà usato per colorare i fumetti erotici di Jaime Martin e Monica y Bea; in Francia, sul finire del secolo, fu Fred Beltran a farsi notare per i disegni barocchi di Megalex, su testi di Jodorowsky. Nello stesso periodo in Italia si mossero Marco Patrito e il suo Sinkha Project, piattaforma multimediale ramificata in libri e fumetti fantasy, e soprattutto lo Shok Studio coordinato da AkaB (al secolo Gabriele Di Benedetto) che sperimentò con i calcolatori riscuotendo successo anche all’estero. Lavori come Morgue ed Egon non troveranno però seguito perché il gruppo si disperderà in carriere soliste.

Si iniziò a capire che l’approccio doveva cambiare: ci vollero anni prima di arrivare a un compromesso tra una resa soddisfacente e un costo di produzione sostenibile, pena l’effetto alienante dell’uncanny valley. L’alto grado di spersonalizzazione, la freddezza dei disegni, la lentezza della produzione, una gamma di storie limitate all’ambiente del cyberpunk e l’assenza di originali da vendere furono tutti motivi che spinsero i professionisti ad abbandonare in parte la tecnica.

Tre sono i cambiamenti permanenti apportati dalla tecnologia nel fumetto. Prima, le tavole grafiche, evolute fino alla Cintiq della Wacom, in grado di raggiunge oltre 2000 livelli di sensibilità. Cintiq, al contrario delle altre tavolette in cui il gesto è riportato sul monitor del computer creando uno scollamento tra occhio e mano, permette di disegnare direttamente sullo schermo e il risultato appare sotto gli occhi dell’artista. Poi il lettering, di cui abbiamo già trattato, che nel 1990 vide l’inizio di una nuova epoca con la commercializzazione del primo font al computer, ‘Whizbang’, dello Studio Daedalus; poco dopo seguì la nascita della Comicraft di Richard Starkings. Infine, innovazione ancora più radicale, quella del colore.

Nuovi colori: Akira e la Image

Il primo fumetto a essere colorato al computer fu la storia di quattro pagine My Fears apparsa sul quinto numero della testata della Eclipse Mr. Monster (febbraio 1986), ma il padre putativo del colore digitale è Steve Oliff, fondatore dello studio Olyoptics e colorista della versione statunitense di Akira. «Considero Akira il primo fumetto di sempre in cui il colorista si è occupato della separazione dei colori in prima persona. Ho potuto creare delle sfumature mai viste prima.»

Oliff aveva letto sulla rivista Computer Graphics World che Saenz stava lavorando con la Pixelcraft per realizzare un fumetto colorato al computer e Saenz stesso avrebbe tenuto uno showcase al National Computer Graphics Association di Filadelfia. Presenziò all’evento rimanendo sorpreso in positivo delle capacità del mezzo. Saenz abbandonò poco dopo Pixelcraft in favore di un altro programma, Lithographer, e Kenny Giordano, lo sviluppatore di Pixelcraft, si trovava ora senza un prodotto che dimostrasse le capacità del software. La storia è nota: Oliff colse al volo l’occasione e, quando gli offrirono di colorare Akira, si ricordò di Pixelcraft e propose la via digitale.

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Akira #1 uscì una settimana dopo Crash, ma a passare agli onori della cronaca fu il lavoro di Oliff. Da lì, Oliff venne contattato da DC Comics, per cui colorò l’adattamento a fumetti del primo Batman di Tim Burton, ma né DC né Marvel avevano a cuore gli interessi d’innovazione di Oliff: «DC voleva solo eliminare la separazione dei colori manuale dal processo e Marvel nemmeno quello, visto che all’epoca separare a mano era ancora l’opzione più economica. Io volevo essere diverso.» Non a caso il prezzo di Akira dovette essere ritoccato tre volte nei primi due anni di pubblicazione per raggiungere la parità di bilancio.

Oliff fu uno dei primi a utilizzare il software come strumento artistico e non come scorciatoia editoriale; lo stesso dicasi per Dave McKean che, come scrive Marco Feo in Il fumetto digitale, ebbe «un’impronta stilistica tanto forte da imporsi come IL metodo di usare il software», fosse esso Photoshop o Painter prima, Premiere o After Effects poi.

A esaudire il desiderio di diversità di Oliff ci pensò Image Comics, che lanciò la figura del colorista digitale e rivoluzionò il modo in cui guardiamo a un fumetto con una nuova estetica. Storiacce disegnate nel modo più cazzuto possibile, tavole aperte che balzassero agli occhi del lettore e ipertrofismi. Un’estetica che passava anche per il colore e le magie permesse dal computer: effetti di luci, rifrazioni, distorsioni, sfocature.

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Se DC Comics e Marvel mettevano a disposizione solo un centinaio di colori, i mezzi digitali non lesinavano in quanto a sfumature e tinte intermedie e gli artisti iniziarono ad affidarsi sempre di più ai coloristi per la costruzione scultorea dei corpi e delle ombre (quindi meno lavoro di matita e pennino e più produzione). Prima che la casa editrice si armasse di un suo reparto apposito, Olyoptics aveva in carico il 70% della produzione Image. Il suo successo favorì la nascita di altri studi come LIQUID!, Hi-Fi Studios e DreamWave Production.

Per colorare, Olyptics usava il software Codd/Barrett, quello alla base di Tint Prep. Codd/Barrett era un programma vettoriale economico ma limitato e poco user-friendly. Photoshop, introdotto nel 1990 da Adobe, avrebbe presto preso piede nonostante il costo di gestione elevato (il programma occupava parecchia memoria, 64 megabyte, e negli anni Novanta un solo megabyte di RAM costava 50 dollari). Oggi Photshop è lo standard dell’industria fumettistica. «Non c’è altro modo per colorare i fumetti» ha confermato Oliff «ma il computer non compie le scelte, è il colorista a decidere quali colori usare e sono le sue abilità (o l’assenza di esse) a determinare la qualità finale del fumetto.»

Leggi anche: I fumetti casuali di John Pound

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