Editorial cartoon li chiamano negli Stati Uniti. Sono le vignette politiche che sulle pubblicazioni più disparate si prendono gioco della politica locale o internazionale. Quello stesso genere di vignette al centro della strage di Charlie Hebdo che ora il New York Times ha legato con la controversia seguita alla (non) distribuzione di The Interview, il film comico con Seth Rogen e James Franco, analizzando il potere dell’arte, e del fumetto, nella società statunitense.
Tim Kreider, disegnatore per il Baltimore City Paper dal 1997 al 2009, sa bene quanto conti un vignettista nel suo paese e quali siano gli effetti reali del suo lavoro. «Ammiro Steve Bell [vignettista del Guardian] e le sue caricature di Bush, nei panni di uno scimpanzé lanciamerda» scrive l’autore «ma qui negli Stati Uniti la satira a fumetti è incisiva come una sitcom da prima serata. Il resto è nicchia che predica alla propria fetta di pubblico». Vonnegut, in effetti, parlava spesso di come la critica al Vietnam da parte delle arti avesse «la forza esplosiva di una grande torta di crema alla banana – una morta di due metri di diametro, spessa venti centimetri e fatta cadere da un’altezza di dieci metri». Quello che Kreider prova è un senso di colpa irrazionale «perché non stiamo disegnando niente per cui valga la pena farci ammazzare».
Gli artisti, secondo Kreider, tendono a deprecare se stessi perché sono cresciuti in una cultura che guarda all’arte come un semplice investimento ad alto margine di guadagno. E se diventa controversa lo è solo per aver toccato il sesso, l’argomento tabù preferito dall’America puritana: «Il sesso è il nostro Muhammad da due soldi, l’unica cosa che non può essere rappresentata».
Per Kreider, culture orientali come quella della Corea del Nord o dell’Islam mostrano la propria fragilità indignandosi con violenza di fronte a prodotti che, nel remoto caso venissero considerati dall’Occidente (perché i film di Seth Rogen non sono mai stati propriamente dei blockbuster e prima della strage Charlie Hebdo tirava appena 60.000 copie), sarebbero visti come commedie stupide o vignette volgari. «Avresti quasi voglia di dire loro ‘No, guardate, per noi queste sono stupidate. The Interview neanche saremmo andati a vederlo se non fosse stato per voi’». Non che la censura non sia presente sul suolo statunitense ed europeo; agisce soltanto attraversi mezzi diversi: «Nelle democrazie mature dell’Occidente, non c’è più bisogno di lanciare fatwa. Perché sprecare dei proiettili per sparare a un artista quando puoi limitarti a non pagarlo?». Basta quindi ignorare un artista per rendere irrilevante la sua opera e, quand’anche questi volesse farsi sentire, gli toccherebbe adeguarsi e uniformarsi a quello stesso sistema soggetto delle sue critiche.
Forse sottostimando le numerose repressioni a sfondo letterario del suo paese Kreider continua dicendo: «Perché darsi tanta pena censurando i libri quando la gente, i libri, non li legge neanche più. E anche li leggesse, troverebbe una letteratura statunitense provinciale, narcisistica e che non tocca un solo nervo scoperto».
Alla base dell’articolo c’è quindi una rivendicazione del potere dirompente delle produzioni creative. «L’arte non è un diversivo frivolo, un prodotto o un ‘contenuto’. È viva e pericolosa e viene odiata e temuta da quelli che vengono derisi da quella stessa arte. Io e i miei colleghi» conclude Kreider «onoreremo i caduti e faremo quello che fanno i vignettisti: prendere in giro crudelmente gli svitati islamici, i bigotti destrorsi, i politici opportunisti e i vignettisti inutili, proprio tutti. Nessuno sarà risparmiato».