Dylan Dog continua con passo cadenzato il proprio percorso di rinnovamento orchestrato dal nuovo curatore della testata Roberto Recchioni – autore anche della sceneggiatura di questo episodio – presentando mese dopo mese nuovi elementi nella mitologia della serie. Nel n. 341 è il turno della nuova nemesi dell’Indagatore dell’Incubo, John Ghost, il cui debutto risale solo a pochi mesi fa, in un piccolo albo speciale distribuito a Lucca Comics 2014 qui ristampato, nella funzione di prologo alla storia. Ed è proprio il nuovo personaggio, però, a lasciare sul campo le maggiori perplessità su un episodio che promette più di quanto non riesca a mantenere.
Da un lato, John Ghost si presenta dotato di un carisma notevole: gli bastano pochi sguardi e altrettante parole per farsi rispettare dai suoi interlocutori, e la sua presenza scenica è definita anche da un look algido e seducente (merito del design di Angelo Stano), caratterizzato da un bianco candido che contrasta con il suo animo oscuro.
Tuttavia, nel seguire la vicenda in cui la sua azienda si trova a dover affrontare un’ondata di omicidi legati alla diffusione di un nuovo modello di smartphone, sembra di assistere alle gesta di un personaggio bloccato nel suo “dover essere”. Un avversario a tutti costi, insomma, costretto a compiere azioni riprovevoli quasi solo per il gusto di farlo. Nonostante il suo statuto di nuovo simbolo “dylaniato” – una figura di primaria importanza, un arcinemico destinato a tenere testa al complesso titolare della serie – si fatica infatti a percepire in Ghost una qualche motivazione, psicologica o esistenziale, alle sue azioni. La tridimensionalità del personaggio – soprattutto se messa a confronto con la personalità di Dylan, quanto mai stratificata e contraddittoria – è insomma assente, e non emerge nessun legame profondo con il protagonista. Quel che appare è piuttosto un “arcinemico vecchio stile” che esprime una malvagità gratuita, spiegata in parte da un finale a sorpresa che quasi ribalta l’intera storia, ma che lascia la sensazione di essere stato pensato come un modo di sembrare cool, più che come elemento narrativo. In ogni caso, l’idea di un rivale dipinto con i tratti del “male assoluto”, in Dylan Dog e nel 2015 – lo ammetto – non riesce ad appassionarmi.
Accanto alla debole entrata in scena della nuova nemesi – dopo il pensionamento di Xabaras richiesto da Tiziano Sclavi – questo episodio non guadagna certo in forza su un altro aspetto: il citazionismo, che suona spesso fine a se stesso. I riferimenti alla cultura pop sono infatti numerosi come non mai, alcuni dei quali gustosi. Su tutti, uno grafico: la griglia a nove vignette che assumono le pagine in una scena con protagonista un personaggio le cui fattezze ricordano quelle di un certo sceneggiatore di Northampton, come nella sua opera più importante. Ma il problema di questi riferimenti è lo stesso del finale: sembrano disseminati tra le pagine per farsi notare da una parte dei lettori, con un «effetto wow» che però, voltata pagina, si esaurisce presto, spodestato dal successivo riferimento.
Tutto questo è calato in un racconto che prova a richiamare le atmosfere di Sclavi, tanto per non far dimenticare qual è l’essenza del personaggio. Un’identità riadattata in alcuni dettagli ai nostri gusti/tempi: la componente horror – ovvero, un nuovo modello di smartphone che conduce a… una serie di omicidi – non è che un pretesto per raccontare l’alienazione sociale, che qui si vede attraverso il tema della diffusione di massa dei più diversi dispositivi digitali. Molto dylandoghiana, infatti, è la smaccata prospettiva critica: la perversità del fatto che noi tutti, in qualità di fruitori, siamo considerati più bersagli del marketing che cittadini. Ma le posizioni dei personaggi su temi di attualità non fanno una trama, e gli snodi principali della vicenda sono parecchio frivoli, persino sorprendenti nella loro ingenuità – come nel modo che sul finale Ghost usa per coprire le proprie malefatte, che qui non sveliamo. Tutto questo fa sì, inoltre, che Dylan sia poco funzionale alla storia: si ha la sensazione che al suo posto, a indagare sull’incubo del mese, avrebbe potuto esserci quasi chiunque altro.
Sul fronte del disegno, va riconosciuta la qualità del lavoro di Daniele Bigliardo, che con un fitto tratteggio restituisce a Londra un’atmosfera – diciamo vittoriana – che non è andata perduta nemmeno con la ipermodernizzazione recente – sottolineata all’interno della storia per rendere ancor più chiara l’intenzione di un rilancio al passo con i tempi – legata ad architetture sempre più futuristiche come lo Shard di Renzo Piano, ben visibile anche nella storia mentre si staglia sullo sfondo del Tower Bridge. Il tutto comunque unito a una buona attitudine per la recitazione dei personaggi, vivi e ben caratterizzati.
A fine lettura, le conclusioni – almeno per quanto mi riguarda – possono essere le stesse fatte per l’albo di ottobre. Si nota sempre di più il buon lavoro operato nella “ricostruzione” dei personaggi – distanti dalle vuote macchiette dell’era Gualdoni – e alcuni elementi di innovazione suonano interessanti, per quanto ancora solo accennati. Quello che manca, però, è la “costruzione”: buone storie, semplicemente, che senza cadere nello sclavismo di maniera possano sedurre non con qualche fredda trovata ma con qualche motivo per avere ancora paura. E allora speriamo che prima o poi lo spostino, quel dito, e dalle parti di Dylan ricomincino a guardare anche la luna.
Dylan Dog n. 341
di Roberto Recchioni, Angelo Stano e Daniele Bigliardo
Sergio Bonelli Editore, 2015
96 pagine, 3,20 €