Tentare di rinnovare il genere fantasy è una missione in cui, prima o poi, cadono un sacco di autori. Difficile trovare una tentazione più forte di quella rappresentata da un filone vetusto e inamovibile, eppure conosciuto più o meno da tutti, e sempre capace di eruzioni di popolarità impreviste.
Ognuno ha un’idea ben precisa su come poterlo aggiornare, renderlo meno prigioniero dei suoi stessi paletti e proiettarlo verso l’età adulta (questo naturalmente da un punto di vista esterno, non da appassionato). Così c’è chi si inventa la variante realistica, chi quella oscura, chi ne dà un ritratto più umoristico e chi cerca di intersecarlo con diverse epoche o set geografici. Poi ci sono gli autori di Wika e la Furia di Oberon, che decidono di intraprendere una via più radicale: l’utilizzo smodato e senza freni di ogni singolo elemento vi venga in mente. Battaglie epiche? Ci sono. Suggestioni pop surrealist da Tara Mc Pherson a Mark Ryden? Ci sono. Orchi? Ci sono. Steampunk? C’è. Simbologia religiosa a buon mercato? C’è. Fate buone & fate cattive & fate che sembrano cattive ma sono buone? Ci sono. Suggestioni shakespeariane? Ci sono. Tizie con sei seni? Ci sono (beccati questo, Paul Verhoeven!). Influenze Liberty & Art Noveau? Ci sono. Linguaggio colorito? C’è. Tatuaggi mutanti? Ci sono. Commedia? C’è. Richiami alle favole? Ci sono. Dramma? C’è. Una protagonista fata tettonissima quindicenne seminuda? C’è. E potrei andare avanti ancora per un bel pezzo.
Un calderone kitsch che straborda da ogni tavola, senza mai però ammiccare o giocare con questa sua natura così prosperosa. Perché Wika e la Furia di Oberon rimane comunque un’opera piuttosto conservatrice, dove la componente narrativa è ben radicata nella tradizione del genere. Il pacchetto in cui ci viene consegnata è ricco in maniera eccessiva, ma non prende mai coscienza del suo essere sopra le righe. Per capirci meglio, quando Jonathan Hickman dà alle stampe l’ennesima serie basata sull’accumulo di suggestioni è ben cosciente di questa cosa. E infatti spesso la sceneggiatura ci gioca, rispecchiandone il gusto per l’esagerazione cerebrale e l’amore per il bizzarro. Thomas Day, l’autore di Wika, invece evita ogni ammicco complice con il lettore e porta avanti la sua visione in maniera molto seria. Come un vero autore fantasy, puro e duro.
La percezione che gli autori considerino questa loro opera come qualcosa di davvero bello e raffinato – senza un rovesciamento dei valori voluto e consapevole – non permette di catalogare l’opera come inscrivibile al camp meno politico (quello della trasposizione cinematografica del 1967 del Casino Royale di Flemming, per intenderci), ma di fermarsi piuttosto all’apparentemente poco nobile kitsch. Aspetto dato appunto dalla volontà di avvicinarsi in maniera pericolosa a una certa raffinatezza barocca e ampollosa. Scelta sempre rischiosa da maneggiare, soprattutto in un’epoca stitica e asciutta come la nostra. Questo primo capitolo è un’opera meno scontata di quello che ci si aspetterebbe, proprio in virtù della stoica rettitudine con cui viene portato avanti. Tutta l’energia è investita nella costruzione di un mondo che potrà anche presentare i suoi scivoloni – i terribili personaggi basati sui peccati capitali – ma risulta perlomeno solido e coeso. Nonostante l’atmosfera aliena e straniante che lo permea, va detto. Non ci troverete eccessi gratuiti messi lì tanto per sfoggiare chissà quali capacità visionarie degli autori, ma solo un microcosmo smodatamente ricco in cui ambientare una storia – tutto sommato consueta – di vendetta e giochi di potere.
C’è da dire che, ancora una volta, il modello francese non aiuta e il ritmo di 72 pagine all’anno non risulta proprio il più adatto per una saga fantasy concepita nell’epoca del binge watching. A giustificare questa cosa in questo caso c’è l’imponente lavoro alle matite di Olivier Ledroit, magnifico e nauseante nella stessa misura (mai come in questo caso la bellezza sarà negli occhi del lettore). Difficile arrivare a una conclusione soddisfacente quando la materia è così sfuggente. Sarebbe troppo facile dire che un minimo di volontà iconoclasta avrebbe reso l’insieme più interessante – senza per quello appesantirlo. Per rimanere nella stessa categoria estetica, vedi The Man from C.A.M.P. di Don Holliday – quando la volontà degli autori non era assolutamente quella. Ciò che rimane è un bizzarro esperimento a metà, meritevole ma troppo leggero per essere davvero così senza spessore – ritorniamo nel camp, ancora una volta – come vorrebbe.
Wikia e la Furia di Oberon
di Thomas Day e Olivier Ledroit
Mondadori Comics, 2014
72 pagine, 9,99 €