Se c’è una dote che nessuno può negare al fumetto seriale statunitense è la costante tensione verso il presente. Mutazione/evoluzione forse frutto di un mercato molto più competitivo e spietato rispetto a quello a cui siamo abituati noi. Basta ripassare un minimo il percorso dei comics dalle origini a oggi per capire come la storia ha sempre premiato chi per primo riusciva a carpire lo spirito del tempo.
Dai super-eroi con i super-problemi alla deriva urbana e priva di luce degli anni Novanta. In mezzo a questi due estremi tutta una serie di variazioni mai così esplicite, ma comunque sempre bene allineate ai propri lettori. Pensate all’esplosione degli eroi afroamericani o, in maniera ben più profonda e meno legata ai trend del momento, a tutta la fase cosmica degli anni Settanta. Il modo migliore per fare pendant con un sacco di passatempi psicotropi dei giovani di quegli anni (folto gruppo di cui facevano parte anche gli stessi autori di fumetti) e con le svariate filosofie di vita derivanti.
Nonostante una gloriosa carriera alle spalle il meccanismo sembrava però essersi bloccato con l’ingresso nei Novanta. Da questo punto in avanti ci si ritrova dispersi in una necropoli di mode e tendenze perlomeno agghiaccianti: dal periodo in cui tutti i protagonisti dovevano vestire un’armatura, al periodo cyber-punk, a quello forzatamente horror alla famigerata fusione con i manga (che ci ha regalato anche qualche autore degno di nota. Ben poca roba rispetto alle tonnellate di spazzatura che ci siamo comprati con un bel sorriso stampato in faccia).
Non stupisce se da quegli anni a oggi l’unica trovata con una forza propulsiva un minimo paragonabile agli exploit delle scorse decadi sia l’effetto Civil War. Finto realismo (il reality show alla base di tutta la vicenda, l’ONU che chiede spiegazioni, i diritti sul marchio dei Vendicatori, ecc.) pompato con una buona dose di testosterone e spacconeria. Eppure la cosa ha funzionato e ci si sta campando ancora oggi, almeno a livello di pubblico generalista. Il prossimo film di Capitan America si baserà proprio su quelle vicende e sarà curioso vedere come gli spettatori reagiranno a stimoli che ormai sulla carta hanno quasi 15 anni (è vero, le belle storie non invecchiano mai. Peccato non sia questo il caso).
Per nostra fortuna, qualcuno pare essersi accorto che certa roba comincia a emanare il tipico tanfo del vecchiume conservato solo per pure ragioni affettive. La concezione della tecnologia negli ultimi dieci anni è radicalmente cambiata, così come la percezione di quello che è considerabile come genericamente “figo”. Siamo passati da un periodo dove l’eccitamento del fruitore passava da uno slancio sempre più esasperato verso il domani (anche dal punto di vista di altri linguaggi. Vi ricordate la musica elettronica dei Novanta? Le locandine di rave e serate dei club) al recupero forzato di ogni forma di eredità culturale. Dalle avanguardie di Morrison su Flex Mentallo e Batman alla pletora di finte cover retrò realizzate anche solo per puro diletto da grafici di ogni parte del mondo. Un labirinto da cui sembra impossibile uscirne, complice anche il fascino che il passato esercita in ogni altro ambito creativo. Stiamo sempre a recuperare qualcosa: la vera cucina, la vera moda, le belle e genuine cose di una volta.
Il passato è diventato il presente e continua a diffondersi tramite i nostri device di ultima generazione. Grazie a nuovissime app che ci permettono di mappare in tempo reale la situazione del nostro orticello da neo-contadino e alle dritte che l’innovatore di turno ci regala durante il suo intervento al TED. Da bravi amanti del bricolage amiamo vantarci dei nostri simpatici oggettini fatti in casa. Sempre però che siano realizzati con l’ultimo modello di stampate 3d pensata per i maker di tutto il mondo. Sospesi tra ieri e domani facciamo della normalizzazione la nostra bandiera. Galleggiamo e non siamo nulla di speciale. Se vogliamo tornare a parlare di fumetti seriali potremmo quasi affermare che oggi come oggi l’avanguardia è la narrazione del presente, senza ogni minima forma di spettacolarizzazione o forzatura. Il segreto sta nel raccontare mondi che tutti noi percepiremmo come normali, anche se forse di normale non hanno proprio nulla. Sono la tipizzazione del quotidiano plasmato secondo le regole di qualche teen drama d’importazione. Proprio come il mondo della nuova Batgirl.
Abbiamo parlato del selfie in copertina, del nuovo costume e del carisma che l’intera operazione lasciava trasparire. Ora, dopo tre numeri pubblicati, possiamo incominciare a farci un’idea del progetto messo in piedi da Cameron Stewart, Brenden Fletcher e Babs Tarr. Riassumendolo ai minimi termini l’articolo si concluderebbe così: tre storielle divertenti ma fondamentalmente inutili – autoconclusive e dotate di folkloristici anatgonisti degni del telefilm con Adam West – calate in un contesto strepitosamente banale. Vediamo invece di approfondire un minimo.
La protagonista è un’universitaria di buona famiglia, logico quindi che vada ad abitare nel quartiere più hip di tutta la città. Non c’è una vignetta dove non spuntino tatuaggi e barbe da boscaiolo. Perfino la sua coinquilina forzata – scoprirete di chi si tratta recuperando il fumetto – si lamenta del fatto che nelle vicinanze ci siano solo microbirrerie artigianali e nessun altro tipo di locale. Saremmo disposti a scommettere che negli smartphone dei protagonisti suoni in continuazione l’ultimo disco di FKA Twigs. Tutto questo fa percepire la serie coooosì figa. Sul pezzo come poche altre produzioni. Eppure non ci sono universi virtuali, distopie fondate sulla televisione o qualsiasi altro tipo di supercazzola protofuturista. L’ambientazione ci appare modernissima perché rispecchia il presente – “presente percepito” verrebbe da specificare – delle grandi metropoli, spostando la linea dell’orizzonte da vent’anni nel futuro a qualche ora di aereo dall’aeroporto più vicino a casa nostra (a meno che non abitiate a Londra, New York o Berlino. Allora ci siete già).
Altrettanto logico che una grande città come Gotham non sia abitata solo da WASP della classe media. Così succede che la Nostra protagonista abbia a che fare con rappresentanti della comunità LGBT, mussulmani e immigrati vari. Senza che nessuno di questi aspetti abbia un peso narrativo. In altre parole una ragazza può portare il velo senza che per forza di cose nella storia ci sia un criminale noto per indizi disseminati nei manzil del Corano e occorra qualcuno in grado di decifrarli. Se va tutto bene entro qualche anno non ci sarà neppure più bisogno di segnalare questa cosa, perché questi caratteri avranno – si spera davvero tanto – lo stesso peso del colore dei capelli o della statura. Ininfluenti se non in casi davvero particolari. Un futuro del tutto corretto e, appunto, normalizzato.
Poi c’è l’uso smodato e compulsivo degli smartphone e dei social network (una delle protagoniste ci lavora anche). Detta così potrebbe essere di una noia terrorizzante – giovane per il gusto di essere giovane, tipo certe imbarazzanti commedie teen degli anni ’80 – ma il fatto che un autore riesca a ficcare tutti questi piccoli frammenti di vita quotidiana in una serie a fumetti, senza per forza farci la morale o costruirci chissà quali infrastrutture, è del tutto inedito.
L’ultima storia memorabile in cui il protagonista litigava con il suo cellulare è lo speciale natalizio di Hitman di Ennis & McCrea, anno domini 1997. Li i personaggi si scrivono in continuazione perché lo si fa anche nella realtà, non per descrivere chissà quale distopia dove non ci si parla più di persona.
In Batgirl non siamo dalle parti dell’ironia caustica dell’Eggers di The Circle, con le sue metafore della Silicon Valley al di sopra di ogni legge. Tutto è terribilmente normale. I personaggi appartenenti a qualche alterità non sono inseriti nella vicenda per farci vedere come vengono vessati o trattati peggio degli altri, per parlare del razzismo imperante di questi anni. Ci sono e basta. Prendiamo l’uscita numero numero 37: si racconta di un artista disposto a tutto per la visibilità, che vuole riuscire a realizzare finalmente un video con Kanye West. Nonostante le apparenze paternalistiche finisce per rivelarsi un arguto omaggio al Female Trouble di John Waters piuttosto che la solita stopposa critica alla società moderna. Stewart non analizza, racconta semplicemente il mondo di una giovane supereroina ventenne. Anche l’ambiente giovanile e artistoide è semplicemente fotografato come dato di fatto, non demolito alla maniera della web serie Dalston Superstar. Leggerezza, banalità e nessuna voglia di sovvertire nulla. Pare di essere dalle parti dell’Her di Spike Jonze, con un futuro così prevedibile e banale da essere la rappresentazione più memorabile del domani da dieci anni a questa parte. Colorini pastello, consumatori che vogliono prodotti fatti a mano senza volersele sporcare, continui simulacri di un mondo che non esiste più (gli smartphone nascosti dentro custodie da piccoli diari segreti).
La serie è studiata con lo scopo esplicito di allargare lo spettro di lettori, andando a pescare in categorie solitamente trascurate dal fumetto statunitense come gli adolescenti dotati di vita sociale e le ragazze. Vedremo se l’occhio lungo degli autori avrà ragione e se questo adagiarsi sui luoghi comuni della contemporaneità verrà premiato rispetto a tanti giochi al rialzo tipici della produzione di massa di questi anni. Per ora quello che abbiamo tra le mani è uno dei pochi autentici tentativi di collegarsi alle nuove generazioni, fatto con consapevolezza e polso della situazione. Vedremo se i destinatari ne saranno altrettanto convinti.