HomeRecensioniNovitàUn'enorme adolescenza azzurra: le Ragazzine di Ratigher

Un’enorme adolescenza azzurra: le Ragazzine di Ratigher [Recensione]

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Molto spesso dietro la scelta di un titolo si nasconde una precisa dichiarazione di intenti. Da quelli trasparenti a quelli ermetici, tutti partecipano ad un’idea fondamentale di rendere un’opera (de)notabile a primo acchito. A tal proposito Alfred Knof suggeriva a Dashiell Hammett una maggiore cura nella scelta dei titoli perché «[…] quando una persona non riesce a pronunciare il titolo o il nome dell’autore, si intimidisce e non osa più entrare in libreria per chiedere di quel libro. Capita più spesso di quanto tu non creda.»

Il titolo deve strizzare l’occhio al lettore o al possibile acquirente. Ma spesso, il titolo è messo lì, come faceva Kundera, senza pensarci troppo su, perché poi in realtà si scrive sempre lo stesso libro. L’interdizione, invece, mi ha colto quando ho letto il titolo dell’ultimo lavoro di Ratigher: Le ragazzine stanno perdendo il controllo. La società le teme. La fine è azzurra. 

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Un titolo anti-commerciale – secondo i dettami del grande editore Knof – che in realtà Ratigher aveva già aggirato grazie all’autoproduzione, con un metodo di vendita mai visto prima e chiamato PRIMAOMAI (di cui abbiamo parlato qui). Un titolo così logorroico, quindi, rientrava forse in una precisa strategia commerciale: suggerire qualcosa, ma non troppo al lettore. Solleticare la sua fantasia, ma non svelare tutte le carte in gioco. Una sinossi ermetica, una promessa trattenuta in un apparente sillogismo sghembo.

Di cosa parla Le Ragazzine? [Spoiler] Essenzialmente, di un’amicizia “malata” e distorta (dal punto di vista degli adulti) di due ragazzine: l’impertinente Castracani e l’insicura Motta. Un’amicizia isolazionista e antagonista, intessuta sulla complicità e sulla dipendenza da esami clinici (sempre più estremi o apparentemente inutili). Un gioco che porterà ad un certo punto lontano le due amiche sino ad una risoluzione inaspettata, in cui tutto si tinge di azzurro. Un colore di fondamentale importanza nell’economia visuale del racconto, perché in realtà la palette cromatica di Ratigher è acida e moderna, a volte volutamente eccessiva come l’adolescenza di cui sta parlando, ma non fine a se stessa. Le scelte cromatiche sono intonate emotivamente. Le Ragazzine è un cromatismo emotivo in formato A4.

Goethe scriveva – nella sua Teoria dei Colori – che «l’esperienza insegna che ogni singolo colore dona un particolare stato d’animo. Di un francese ricco di spirito si racconta che egli sosteneva che il tono della sua conversazione con la signora era stato modificato dalla presenza dei nuovi mobili cremisi nello studio, che era azzurro [n.d.r. in francese nel testo originale].» Ratigher segue una precisa logica cromatica nella narrazione e, pur facendosi erede di una tradizione consolidata e sotto un certo punto di vista ovvia e fisiologica, il riferimento più prossimo è l’Asterios Polyp di David Mazzucchelli, in cui il cromatismo è teso a costruire uno sviluppo armonico ed emotivo del personaggio.

Potremmo dividere Le Ragazzine in tre grandi blocchi: il primo dominato dai colori caldi, cioè i gialli e i rossi, il secondo dal verde e l’ultimo – rivelatore – dall’azzurro.

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La quotidianità delle due ragazze è adrenalinica e violenta: fughe, ritardi, sospensioni, sotterfugi e continui litigi. Molto normale, oserei dire, per alcuni adolescenti di oggi. Il tutto è reso con un giallo acido e nervoso, che ben si sposa al segno marcato e grottesco di Ratigher (i volti ricordano, nella loro tara caricaturale, le maschere fisiognomiche di Chester Gould). A contrappunto, troviamo il rosso accesso e sanguigno delle divise di Castracani e Motta: una dichiarazioni di guerra al mondo scolastico; un militarismo urlato contro la mediocrità schiacciante dell’estetica giovanile e giovanilistica – le braghe larghe da rappers di periferia e/o gli abiti striminziti e l’eye-liner forse troppo, vistosamente adulto; un sodalizio che valica i confini del semplice rapporto amicale per diventare una morbosa attrazione. Il rosso, appunto, si trova all’apice del cerchio dei colori descritto dal pensatore romantico: è pura energia. L’energia di un’adolescenza che «la società teme» perché sfuggente e marginale.

La rottura del sodalizio, dovuta ad un’azione disciplinare da parte dei genitori preoccupati per la dipendenza verso gli ospedali, porta la narrazione a concentrarsi sulla “nuova” vita di Motta. Ratigher usa un verde che copre in maniera indistinta tutto e tutti, come una patina che appiattisce l’eccentricità di Motta, conformandola alla mediocrità dell’«altra adolescenza». Finalmente dimagrisce, scompaiono i segni deteriori della frustrazione legata all’insufficienza fisica: eczemi, brufoli e quell’enorme culone. Motta diventa “figa”. Ma, certo non dimentica il colore della divisa: quel rosso che si oppone come eccesso e vitalità alla tranquillità del verde. Un colore lievemente accennato in Asterios Polyp, perché risolutivo e accomodante.

E poi, ad un certo punto, la pantomima di Motta frana e tutto ritorna in technicolor. Tutto ritorna a scorrere, riacquista vita e antagonismo. Gli opposti si scontrano e la vita rivela il suo volto più sarcastico. La dipendenza quasi cronica da esami – con effetti lisergici come nel caso della Tomografia Assiale Computerizzata che manda Motta in un iperuranio estetico (non a caso l’estasi è resa con un rosso eccessivo e totale) – vissuta come esorcizzazione di una società (adulta) che medicalizza sin dall’infanzia l’individuo come forma di controllo – si pensi a Michel Foucault e alle sue riflessioni sulla biopolitica – schiude una “volta” felliniana: un colpo di scena improvviso che apre il proscenio all’ingresso dell’azzurro. E’ una conclusione apparente che destabilizza la narrazione, l’accartoccia, la fa collassare nel grottesco: in un grottesco azzurro che appaga – nonostante la prossimità al nulla e al lato più ostile della vita – le due ragazze, che finalmente si ritrovano cambiate, ma solidali nel loro antagonismo contro il mondo-adulto.

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In questo breve affresco narrativo, che lascia il lettore in preda a sentimenti contrastanti – dall’incredulità sino alla commozione empatica – ci sono due frammenti che illuminano il tutto. Il primo è il flash forward, stratagemma già utilizzato in Trama – il peso di una testa mozzata, collocato prima della scena cardine della TAC, dove Motta fa esperienza della «stimolità» del mondo (il termine esiste, basta sfogliare le opere di Xavier Zubiri). Il secondo è la doppia splash page che chiude il libro e che occupa la terza di copertina e, in maniera ectoplasmatica, la quarta. Nel primo frammento, Ratigher gioca con il tempo, così come ci ha abituato nelle sue opere. Sfonda il limite del testo e ci mostra un frammento nero e animato da una texture che ne enfatizza la spettralità: Motta si confessa e parla in primis della morte di Castracani. Ma, quello che ci stupisce è proprio la  voce della Motta adulta. Possiamo intuire che è diventata un medico – ha messo quindi a frutto la sua ossessione – ma sembra disinteressata ad ogni concetto umanitaristico e filantropico della professione. L’impatto con il male sembra averla svuotata: «[…] la passione per la medicina non aveva altri scopi se non ludici e immaginifici, come quelle ragazze che idolatrano un cantante ma se dovessero finirci a letto percepirebbero solo squallore.» La medicina come escapismo è l’antitesi di quello che la medicalizzazione come tecnica del controllo: potere pastorale e freudianamente rappresentato da Ratigher nella figura assente e distante del padre primario di Castracani. Motta è, ormai, adulta: ha dimenticato l’eccesso e esercita vistosamente la medicina meccanicamente senza alcune interesse: l’azzurro – abbandonato, disconosciuto, fuori controllo e spettacolarizzato, come si addice ad ogni forma di dolore – l’ha attraversata, svuotandola.

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Di fronte alla complessità di questa adolescenza che può durare tutta la vita (come ricordava in un’intervista Charles Burns parlando di Black Hole), Ratigher sceglie di chiudere il romanzo mostrandoci le sorti di Bugatti, la ragazza dell’hula hoop. Bugatti attende inebetita che Castracani si presenti alla sfida che la stessa le ha lanciato prima di sparire. Attende in short e canotta, immagine di un’adolescenza piatta, decerebrata e – volutamente – stereotipata.

Un’adolescenza solo all’apparenza critica, ma che, parafrasando il titolo del fumetto, «la società non teme»: poiché queste ragazzine svampite e lobotomizzate le produce e le controlla.

Le ragazzine stanno perdendo il controllo. La società le teme. La fine è azzurra.
di Ratigher
Autoproduzione, acquistabile presso Saldapress
64 pagine, 16€

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