Si nasce soli. Si muore soli. In mezzo c’è la scuola media.
Che piacere poter dire, di questa nuova opera di Ratigher, che è semplicissima. Del resto lo afferma lo stesso autore in quarta di copertina: «Questo libro è semplice, come una fionda.»
Le fionde sono oggetti teneri quando restano nelle tasche di dietro di pantaloni troppo corti, indossati dai bambini nelle immagini pubblicitarie statunitensi degli anni Cinquanta, o poggiate sull’erba; ricordano l’innocenza che si associa all’infanzia e all’adolescenza. Ma quell’elastico, rilassato e molle nel momento di quiete, prima o dopo, sarà stato/sarà in tensione, il proiettile trattenuto dalle dita, puntato chissà contro quale obiettivo o solo verso il cielo, l’orizzonte. E’ in questo stato di tensione che la fionda diventa un oggetto probabilistico. Il proiettile può partire e non partire, colpire e non colpire, rimbalzare senza conseguenze contro il legno duro di un albero, o aprire un fiore rosso sulla fronte di un altro bambino, anche lui con una fionda in mano, anche lui sospeso nell’incertezza.
L’adolescenza, o quel limbo che immediatamente la precede, per come la racconta Ratigher e per come molti l’hanno vissuta, assomiglia molto a questa tensione, a questa sospensione. D’improvviso le nostre azioni hanno delle conseguenze, possiamo colpire o meno, essere colpiti o meno, ogni cosa è un nemico che per la prima volta può ferirci seriamente, si creano fazioni, l’antipatia si fa ferocia, l’amicizia si svela, più di prima, appartenenza diventa tribale. Lo smarrimento è la nuova norma, le regole vanno scritte da capo, e poi scritte di nuovo, il nostro corpo non ci appartiene più per come lo conoscevamo, diventa un oggetto sociale molto più di quanto lo fosse negli anni precedenti.
«Il mio corpo esiste. Io esisto. Il mondo esiste. Mi tocca sempre», fa dire l’autore a una delle sue due protagoniste. Ci si accorge improvvisamente di essere al mondo e non di essere il mondo, di essere connessi ad altro oltre che alla propria percezione. Anni di egocentrismo infantile non preparano certo alla tribalità, agli altri. Il nostro corpo ci diventa evidente nella misura in cui è visto da altri e non per come è funzionale ai nostri scopi, e spesso è qualcosa di mostruoso, che ci trasfigura, che ci sfigura e ci fa sfigurare. Il nemico è dappertutto e dappertutto lo vediamo: davanti a noi, vestito con la pelle di chi ci vuole bene, nemici sono i nostri genitori, i nostri insegnanti, anche quelli che provano a capirci, e il nemico è anche dentro di noi, nella nostra stessa carne, una carne che non ci assomiglia più e che si ribella, si trasforma, si tinge d’azzurro. Davvero un grande casino, insomma.
Le ragazzine è un libro che parla di tutto questo casino e lo fa con indicibile tenerezza. Una tenerezza che forse è percepibile solo a chi può guardare quegli anni con il giusto distacco. Castracani e Motta, le protagoniste di questo racconto, reagiscono ognuna a suo modo a questa confusione, rendendo evidente che l’adolescenza è soprattutto un gioco di equilibrismo fra affermazione di sé e mediazione con l’altro, una continua tensione, una continua scelta. E almeno una scelta, le due ragazzine la fanno. Scelgono di completarsi, di unirsi proprio perché differenti e simili al tempo stesso. Senza che ciò porti a delle contraddizioni. Questa è l’età in cui le contraddizioni vanno allegramente a braccetto fra loro, l’età in cui il dolore è piacevole, in cui l’amico è colui che non ti aspettavi che lo fosse, in cui trovi la bellezza in campi nuovi e quello che disgustava può diventare splendido solo perché nostro esclusivo dominio. E tutto questo Ratigher lo sa, e più che raccontarlo, lo esorcizza.
E’ un ibrido strano e difficile da analizzare, questo libro, perché è al tempo stesso un’opera profondamente personale e un patrimonio di tutti. E’ impossibile, anche per ragioni anagrafiche, non sentirsi vicini all’autore e al suo racconto perché affonda le mani nella nostra storia personale e, forse, cosa ancora più importante, nella nostra memoria culturale, forgiata (anche) dalla cultura popolare. Spesso è difficile separare il ricordo della nostra adolescenza dal racconto della nostra adolescenza. In Le ragazzine c’è più di un’eco, ma quella più forte è sicuramente quella dei lunghi pomeriggi televisivi o delle mattine febbricitanti passate davanti a un tubo catodico che, ancor prima che li vivessimo, ci raccontava come sarebbero stati gli anni a venire. Racconti ambientati oltreoceano, scritti e/o diretti molto spesso da John Hughes e che si affacciavano nelle nostre case con i volti di John Cusack , Eric Stoltz, Robert Downey Jr., Matthew Broderick, Kirk Cameron, e molti di quelli che vennero definiti i ragazzi del Brat Pack, insomma. Teen Movie e serie televisive che ci mostravano, sì, le nostre fragilità, a volte con ficcante precisione, ma senza vera ferocia, senza vera disperazione. C’era, in queste opere, la tenerezza paternalistica del dopo, del già trascorso, di chi è sopravvissuto alla tempesta e può goderne la devastante bellezza da lontano.
Il paragone con i teen movie degli anni Ottanta e Novanta non sembri dissacratorio. In Le ragazzine il dramma è raccontato sorprendentemente nel pieno del suo svolgimento. Si apre solo uno squarcio sul poi, sul futuro, e la breve testimonianza che ci arriva da una Motta ormai adulta non ha proprio nulla di consolatorio. Le sue battute, inquadrate in un bianco e nero che solitamente si associa al flashback retinato, sembrano la testimonianza di una sopravvissuta all’apocalisse, un video girato in un bunker; la maglia che le stringe il corpo assomiglia inquietantemente a una camicia di forza. La passione, sembra dire, è qualcosa che si associava a quella disperazione, a quella confusione: santo sia il dramma, santa sia l’incertezza, santo sia il dolore, santi siano i sentimenti contrastanti e strazianti ma profondi, santa sia la tenerezza, santa sia la semplicità.
Ratigher compie, rispetto a quell’immaginario, un’operazione simile a quella messa in atto da Lynch in film come Velluto Blu e Cuore Selvaggio. Altre opere hanno compiuto un simile tentativo di ribaltamento rispetto a un certo immaginario comune cinematografico e televisivo, e, non a caso, si tratta di prodotti statunitensi. Si pensi, ad esempio, a Fuga dalla scuola media (Welcome to the Dollhouse) e a Ghost Town. Ma, rispetto al film di Todd Solondz e al fumetto di Daniel Clowes – rispetto a cui Le ragazzine ha certamente dei debiti – l’operazione di riscrittura narrativa ed estetica è ancora più radicale e meno facilmente classificabile. Ancor di più, nel mondo di Ratigher, tutti sono soli, tutti sono a loro modo “mostruosi”, tutti sono crudeli, tutti sono alla ricerca, spesso vana, di un approdo, di una sicurezza, quantisticamente sospesi nella tensione dell’elastico.