HomeFocusOpinioniCattivo come adesso non sono stato mai. Burzum, black metal e fumetto

Cattivo come adesso non sono stato mai. Burzum, black metal e fumetto

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Quando, qualche tempo fa, venni a sapere che una casa editrice affermata come Edizioni BD aveva intenzione di presentare a Lucca un volume su Burzum, quasi non ci credetti. Troppo strano il personaggio, troppo facile incappare in incomprensioni o facilonerie da quattro soldi. Oggi, trovandomi a scrivere un articolo proprio su Figli delle Tenebre mi sono reso conto di come questa pubblicazione potesse apparire a esclusivo appannaggio di un certo tipo umanità, solita aggirarsi per le vie delle nostre città con chiodo, borchie e birra sgasata da 66 cl anche nella più torrida giornata estiva. Errore grave, visto quanto l’aspetto musicale sia – alla fine dei conti – abbastanza ininfluente rispetto all’idea dietro al volume. Perché per portare avanti un discorso serio e di un certo pregio – anche nella confezione – su di un personaggio così ci vuole prima di tutto coraggio. E capacità di andare aldilà del folklore. Due aspetti capaci di far soprassedere sulle diverse pecche di questo volume e di dare il via a qualche riflessione ben poco scontata.

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Se fate parte di quella larghissima fetta della popolazione terrestre che dalla musica pretende, come dire, una certa musicalità, allora i vostri punti di contatto con il metal estremo non possono essere stati più di un paio. Nella fattispecie, la comparsata dei Cannibal Corpse nel primo Ace Ventura e l’ormai leggendaria pubblicità di History Channel con i Suffocation come testimonial. Non c’è nulla di strano in questo. L’insana e depravata unione tra voci catacombali, chitarre a zanzara e ritmiche da telaio industriale che sta alla base della deriva più ferale del rock, non è certo roba per tutti. Stiamo parlando di un suono capace di tracciare un trait d’union tra le più basse forme di umanità e alcuni tra gli esponenti più in vista della cultura cosiddetta “alta”. Il videoartista multimilionario Matthew Barney è da sempre un fanatico amante del grind-core più putrescente (chissà come l’avrà presa la moglie Bjork…), mentre l’americano Banks Violette ha costruito tutta la sua prima parte della carriera sull’aura malvagia del black metal. E non dimentichiamoci il batterista dei Cryptopsy chiamato a esibirsi al Guggenheim di New York (in compagnia del cantante dei Mortician) o il tour nelle gallerie d’arte dell’urlatore ungherese Attila Csihar. L’influenza portata alle prime opere di Harmony Korinne o quella ancora al centro dei lavori del designer Seldon Hunt o del fotografo Peter Beste.

Insomma, pentacoli, urla ed esplosioni gore hanno finito per essere invitati in quei salotti da cui cercano di differenziarsi a ogni modo più volte di quanto vorrebbero ammettere. La rincorsa verso il basso come foga distruttiva e nichilista – si deve SEMPRE cercare di comporre un album più brutale di quello precedente – ha reso incorporea questa disciplina, trasformandola in qualcosa di intangibile e slegato dalla sua stessa matrice musicale di partenza. Non conta cosa producono questi signori lungocriniti, ma il fatto che esistano e passino centinaia di ore in sala prove con l’obbiettivo di apparire disgustosi all’uomo medio. Una missione che è un ingrediente perfetto per l’arte contemporanea (vi devo ricordare le copertine dei Cattle Decapitation firmate dal pagatissimo fotografo Andres Serrano?), proprio perché ancora incomprensibile al pubblico di massa. Figuriamoci quando a tutto questo colore – bene o male inoffensivo – aggiungiamo omicidi reali, torture e chiese bruciate.

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Le oscure vicende dietro alla scena metal norvegese dei primi anni novanta riescono ancora ad affascinare per la loro capacità di non offrire appigli a una spiegazione logica. Basti vedere la quantità sproposita di documentari sull’argomento caricati su Youtube, con l’hipsterissimo Noisey in prima linea. Stiamo parlando di ragazzi neppure ventenni, provenienti da famiglie non certo disagiate e dalla nazione più ricca della Terra, che non contenti di aver inventato un genere musicale destinato a vendere un sacco di coppie in tutto il mondo – paradosso incredibile, se si pensa al loro obiettivo – hanno finito per uccidersi tra loro e bruciare edifici storici. L’unico altro esempio di scena musicale così efferata potrebbe essere tutta la faccenda legata alla scena hip-hop di Compton dei primi anni ’90, compresi i legami tra Death Row Records e Black Mafia. Ma qui si parla di malavita, povertà, droga e denaro. Non di ragazzetti già ricchi di loro, desiderosi di liberare la loro amata Norvegia dal giogo della religione cattolica. Esponenti di una malvagità così destabilizzata da essere incomprensibile. Gaahl dei Gorgoroth, eletto “Gay norvegese dell’anno” nel 2010 per la sua attività di sensibilizzazione, potrebbe passare per una brava persona, se non fosse per i mesi passati in carcere durante il 2004. Un tizio l’aveva importunato per il suo orientamento sessuale e il Nostro non l’aveva certo presa bene. Legato il molestatore a un calorifero, l’ha torturalo per circa sei ore e ha tentato di berne il sangue. A questa reazione fumantina vanno aggiunte diverse denunce da parte della polizia di mezzo mondo per l’ilare abitudine di irrorare il pubblico dei suoi concerti con decine di litri di sangue di animale e di crocefiggere – sempre sul palco – carcasse di pecora. Oggi pare che il Nostro lavori a Teatro con discreto successo, e che sia impegnato con il suo partner a lanciare il proprio brand mondo della moda. Cercate di spiegarmi tutto questo in maniera logica e coerente.

Nel suo ultimo lavoro – La vita umana sul pianeta Terra, incentrato sul massacro di 69 giovani norvegesi durante il luglio 2011 – Giuseppe Genna non descrive il carnefice di Utoya come il male assoluto che tutti si aspetterebbero. Bensì sceglie di narrarne le imprese come si trattasse di un vuoto destinato a destabilizzare l’umanità. Qualcosa di così increscioso da essere fuori dalle definizioni di bene-male, perché mosso da una forza distruttrice incapace di vedere l’orrore. Per riprendere un noto film di Oliver Stone, Anders Breivik non è come i protagonisti di Natural Born Killers, che «conoscono la differenza tra giusto e sbagliato, solo che non gliene frega un cazzo». Anders ha una sua personale definizione di giusto e ci si riconosce in pieno. Burzum e compagnia cantante invece no, hanno la nostra stessa moralità e non riescono a fregarsene. Anzi, gli importa talmente tanto da non riuscire a evitare di calpestarla con uno scarpone chiodato. Da qui la loro aurea di negatività assoluta e tutto il fascino perverso che ne deriva.

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Veniva da chiedersi perché nessuno avesse mai pensato di raccontare questa cosa (stiamo ancora aspettando la trasposizione cinematografica di Lord of Chaos a opera del nipponico Sion Sono), indifferentemente da quanto la cosa possa essere giusta o sbagliata. Questi non sono gli adolescenti viziati di Sofia Coppola, impegnati a introdursi nelle case di celebrità per appropriarsi di scarpe e vestiti. Questi sono adolescenti viziati che si ritrovavano nello scantinato di un negozio di dischi per inneggiare alla liberazione religiosa della loro nazione, oltre che a pianificare roghi e omicidi. Il male puro, nascosto dietro la noia da benessere sfrenato.

Così ecco arrivare questo coraggioso volume per Edizioni BD, che si pone come opera del tutto inaspettata. In epoca di celebrazione senza freni delle nobile graphic novel, questi pazzi se ne escono con un volume biografico sulla vita di Varg Vikenes (aka Burzum), il più noto esponente della black metal mafia. E lo fa prendendo il coraggio a due mani, adattando la propria forma alla concezione comunicativa tipica del black metal. Figli delle Tenebre è ostile, astratto, incomprensibile. Sfida il lettore con un montaggio tematico (i frammenti del racconto sono raccolti per tema, a dispetto dell’ordine logico e cronologico), introducendo mille personaggi senza spiegarne uno e procedendo con una velocità folle. Incurante di accompagnare il lettore per mano.

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Se il risultato risulta leggermente scentrato, è per via della breve esperienza dei due autori. Ma bisogna tenere conto di quanto hanno osato. Non esiste morale, non ci sono metafore o voglia di nobilitare una vicenda che è, prima di tutto, triste e priva di giustificazioni. Solo schegge – “dolore cristallizzato in decostruzione” direbbero gli stessi Mayhem del defunto Euronymous citando se stessi – ricucite alla meno peggio. Le tavole di Ragazzoni seguono lo stesso andazzo e ci arrivano in un bianco e nero non perfetto ma durissimo, miscelando riproduzioni di fotografie autentiche con parti inventate. Probabilmente poteva essere qualcosa di più, ma il fatto che sia deciso di portare avanti un progetto simile e di buttarlo sul mercato in epoca di populismi spinti merita tutta la nostra attenzione. Dopotutto, quando mai vi è successo di essere increduli sull’effettiva esistenza di un‘iniziativa editoriale?

Ultimo appunto, da nerd totale: nel caso di ristampa, qui pretendiamo una variant cover a cura del gran (e italianissimo) guru del logo metal, Viewfromthecoffin.

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