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Falsi antichi e veri moderni

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Rispetto alla Francia o agli Stati Uniti, l’Italia sembra meno colpita da una delle più solide mode editoriali dell’ultimo decennio: le riedizioni di fumetti ‘classici’. Una questione che mi pare interessante non tanto sul piano della quantità, quanto su quello dell’immaginario. Perché negli ultimi tempi, alcuni volumi sembrano indicare nel nostro paese non una minore penetrazione, ma una diversa stratificazione della memoria – e della nostalgia – per il Passato del fumetto.

Solo pochi anni fa, infatti, la differenza tra Italia e altri paesi intorno a questo reprint boom pareva più nel baricentro storico: gli anni Venti/Quaranta altrove, i Sessanta/Settanta da noi. Lo stadio di evoluzione del fenomeno mi sembrava analogo, sintomo di una consapevolezza diffusa là come qua:

La memoria culturale del fumetto pare in movimento. […] Dopo gli USA e la Francia, anche in Italia è evidente uno slittamento che potremmo sintetizzare così: dalla Nostalgia alla Storia. Al feticismo ‘affettivo’ di matrice generazionale, si affianca un recupero del passato più complesso e ‘razionale’. Una spia della crescente consapevolezza – sia sul versante dei lettori che su quello dei produttori – che la memoria storica del mezzo è un fattore fortemente presente all’interno della cultura fumettistica di oggi.

Tutto questo rimane oggi confermato, sia dalle serie di collaterali uscite in edicola negli ultimi mesi come Michel Vaillant, Lucky Luke, Bob Morane, Tutto Pratt, Diabolik, sia da operazioni come la collana Valvoline di Coconino Press, o il ritorno dei classici belgi Spirou e Poldino Spaccaferro per RW/Lineachiara. Eccetera. Tuttavia, dopo questa estate di letture all’apparenza ‘secondarie’ – in realtà perfette per una sorta di “metodo Morelli” – credo che oggi sia utile rileggere il fenomeno aggiungendo una nuova, importante sfumatura. Perché rispetto all’Italia, Francia e Stati Uniti stanno dimostrando un diverso e più complesso atteggiamento nei confronti della memoria fumettistica. Si tratta del piccolo, ma ormai evidente filone dei falsi classici.

Per falsi classici mi riferisco a fumetti inediti, creati da autori contemporanei, ma che si presentano con l’aspetto di fumetti d’antan; di più, non un aspetto genericamente old-school, ma progetti concepiti e presentati come veri e propri “recuperi” – più o meno fortuiti – che dissimulano nella veste di riedizioni ‘complete’ la loro identità di creazioni ex novo.

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Nel contesto nordamericano, i precedenti non mancano. Ormai oltre venti anni fa, Chris Ware realizzò con Quimby the Mouse il suo omaggio in stile a Topolino, Felix the Cat, ai film animati dei fratelli Fleischer e al Superman delle origini. Tony Millionaire, con i suoi Maakies e Sock Monkey, si è specializzato a partire più o meno dagli stessi anni in un approccio che mescola stilemi da newspaper strip primonovecentesca (incluso un ‘campionamento’ di Wilhelm Busch) e illustrazione vittoriana. Il canadese Seth in La Vita è bella, malgrado tutto è arrivato a immaginare un disegnatore degli anni Quaranta e Cinquanta mai esistito, per poi proseguire, in uno stile memore dei grandi cartoonist del New Yorker, narrando le vicende di altri fumettisti immaginari in Wimbledon Green e The Great Northern Brotherhood of Canadian Cartoonists. Anche uno dei webcomics più strambi degli anni Duemila, il Wondermark di David Malki, si è presentato con l’aspetto di una striscia quotidiana di due secoli fa, in cui ogni episodio riprende – con integrazioni e ritocchi per creare una gag – disegni estratti da periodici autenticamente ottocenteschi.

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Nel contesto francese, va citato quantomeno Olivier Schrauwen, che nel suo Il mio bimbo (Mon Fiston) ha ripreso i colori e la pennellata di Winsor McCay, ma anche i contrasti di R.F. Outcault o di certa illustrazione Art Nouveau.

Ma torniamo ai falsi classici. Uno anglofono e uno francofono.

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Il primo è Little Tommy Lost. In formato orizzontale o “all’italiana”, si tratta di una raccolta di strisce e tavole domenicali di una serie che ha per protagonista un bambino, in viaggio dal Missouri a una grande città con la famiglia, ma che nel caos urbano si perde, finendo in un orrendo orfanatrofio da cui cercherà di fuggire. L’autore è un giovane canadese di talento, Cole Closser, diplomato al Center for Cartoon Studies, che ha conquistato una nomination proprio quest’anno come Miglior design agli Eisner Awards. La sua opera è un esercizio di stile nel solco della Little Orphan Annie di Harold Gray, ma anche – per le pagine domenicali – del Gasoline Alley di Frank King. L’editore è una piccola etichetta di pregio, Koyama Press, che presenta il volume proprio sottolineando il suo radicamento in un mondo grafico e narrativo passato, osservato però da una prospettiva odierna:

Reminiscent of the newspaper strips and lushly illustrated Sunday comics of the early 20th century, Cole Closser’s work is steeped in cartooning history, but filled with an unparalleled sense of the new.

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Il caso francobelga, invece, chiama in causa una della massime star della bande dessinée: Spirou. Un bel volume, uscito un anno fa sull’onda delle tante iniziative per celebrare il 75° della serie belga, presentava una serie di copertine di un’edizione ‘speciale’ del settimanale Spirou: quella negli anni dell’occupazione del Terzo Reich, quando si trovò ad essere pubblicato clandestinamente, in forma di singoli fogli monopagina, dopo il rifiuto da parte dell’editore di accogliere un tedesco nella compagine azionaria. Peccato che la bella ricostruzione di Spirou, sous le manteau, così come il nome del suo autore AL, siano inventati di sana pianta: il fumettista non è il che il belga Alec Severin, e la vicenda dello Spirou clandestino una trovata da mockumentary.

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La logica su cui si regge questo falso è quella della verosimiglianza, e non a caso la tecnica retorica utilizzata dalla comunicazione ufficiale è quella del “manoscritto ritrovato”:

Introuvables depuis des décennies, ces tracts ont été confié par un des descendants du dessinateur aux Éditions Dupuis, qui les ont réunis dans cet ouvrage, témoin émouvant de la vie sous l’Occupation.

Diversamente da Little Tommy Lost, qui la mimesi storica è esplicita. Niente fa pensare a un pastiche, se non (forse) lo stile che, per quanto memore della lezione di Jijé, offre una freschezza cromatica e una fluidità della linea che fondono il calco estetico con la mano felice di un fumettista eccentrico nostro contemporaneo. Come ha scritto il giornalista Didier Pasamonik, al centro di questa bizzarra operazione voluta da Dupuis c’è una nuova consapevolezza: «La presa di coscienza che un patrimonio è prezioso, che costituisce una ricchezza, un insieme di marchi e universi sui quali si può costruire una strategia che non è in opposizione alla ricerca di nuovi talenti.»

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Per tornare alla comparazione iniziale, in Italia non solo è rarissimo vedersi esprimere autori nella vena di lavori citati di Millionaire, Seth, Ware, Malki, Schrauwen. Forse solo Igort ha battuto con convinzione questa strada, cedendo alle inclinazioni della propria poetica nostalgica in lavori come Fats Waller (e, in parte, 5 è il numero perfetto e Baobab). Ancor più difficile è che sia l’editore di una grande serie a generare riletture consapevolmente retro’. Alla ricerca di una rinnovata ipermodernità, Bonelli Editore e Disney sembrano per ora concentrati nella creazione di nuove properties, più che nel mostrare quanto si possa “distillare” dai vecchi classici. Diabolik, con la nuova serie DK, sta invece tentando – a suo modo, con coraggio – la strada opposta: dimenticare il passato, tuffando l’arcaico nel mare dell’ipermoderno. Dylan Dog, con la imminente collana Old Boy, pare avere scelto di ‘fissare’ il proprio modello tradizionale – la propria ‘classicità’.

In tutti questi casi, editori e autori nostrani concentrano sì i propri sforzi sul passato della serialità classica. Tuttavia sembrano farlo più allo scopo di ipostatizzarlo che non per spremerne l’essenza, magari assoggettando (in parte) quella arcaicità ai talenti più consapevoli del paradosso plastico della memoria: il passato come materia sempre viva, da ri-scrivere, ovvero da ri-disegnare. In fondo, proprio Spirou ne ha dato forse il più brillante esempio in Europa, attraverso il trattamento operato da Emile Bravo e dalla coppia Yann e Schwartz nei loro volumi, coronati da un successo insieme critico e commerciale. Il solo caso italiano che si potrebbe accostare a questa dinamica è Martin Mystère, come dimostra l’ultimo Speciale estivo, sia per l’incontro – paradosso emblematico – fra Giovane e Vecchio Martin, sia per le brevi riletture di Little Nemo immaginate da Castelli in appendice all’avventura principale. Ma per un archeologo dell’immaginario, il gioco è un po’ più semplice; per gli altri protagonisti del Patrimonio fumettistico nostrano, la sfida resta aperta.

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Questi lavori di Closser e Severin ci indicano quali sono le premesse culturali che hanno reso possibili simili esercizi di stile, in grado di incontrare un mercato, che sia esso dell’ipercontemporaneo (Koyama) o del classico evergreen (Dupuis): una nostalgia viva, che intende il vintage come un gioco consapevolmente ambiguo. Nostalgia sì, ma anche piacere della distanza; gioco, certamente, ma preso “sul serio”; mero esercizio virtuosistico, eppure accompagnato da un’evidente cura rispettosa; un po’ culto e, al contempo, un po’ desacralizzazione.

In definitiva, i falsi classici fumettistici – segnali deboli di un mercato della memoria fumettistica in evoluzione – sembrano mettere bene in luce le piccole (grandi) differenze di maturità culturale fra il nostro e altri contesti editoriali. Perché nel rapporto con il proprio retroterra culturale, un segnale di maturità è la presenza di uno sguardo che consideri la tradizione né come un nucleo immutabile né come un set di regole da distruggere o rinnegare. Più laicamente, il patrimonio storico (qui, del Fumetto) non è un territorio dai rigidi confini. Il passato, filtrato dalla Storia e dalla memoria, esiste e non esiste: si reinventa senza sosta. Una condizione paradossale, ma in grado di mostrarci come dietro a falsi classici si nascondano le consapevolezze dei veri moderni.

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