di Luigi Bicco
Saguaro, la serie creata da Bruno Enna per Bonelli Editore, ha cominciato la sua avventura nelle edicole italiane un paio di anni fa. All’epoca del suo debutto, al pari di altri commentatori e lettori (qui o qui), mi ero permesso di essere scettico. Saguaro sembrava nato già vecchio nella forma. Sulle intenzioni, invece, non avrei comunque potuto dire molto: un episodio, come sappiamo bene, è ben poca cosa per cominciare a sentenziare.
Tuttavia, all’epoca del lancio certi cliché sembravano tanto evidenti che mi promisi di lasciare la serie non appena sarebbero comparsi i motociclisti messicani con le bandana e le catene. Sono qui a raccontarlo perché i desperados su due ruote non sono mai arrivati (la strada per Window Rock è impervia: si saranno persi), mentre io sono rimasto lì a leggere Saguaro. E non ho ancora smesso.
Thorn Kitcheyan potrebbe sembrare un protagonista come ce ne sono tanti: granitico, silenzioso, muso duro, pistola in pugno. Il classico “raddrizzatorti”. E lo è per davvero. Ma che piaccia o meno, la cosa passa in secondo piano: il punto sembrava ridursi all’eredità caratteriale del Tex tutto-d’un-pezzo, e invece no. Perché le storie e le sceneggiature di Bruno Enna sono sottili. Perché i suoi personaggi secondari sono dipinti come tali solo a margine. Perché si diverte a ribaltare numerose situazioni, e ciò che appare chiaro fin dall’inizio, alla fine, invece, non lo è mai. Prima il ritorno dal Vietnam, poi l’agenzia indiana, poi l’FBI.
Le sottotrame legate al piccolo Miguel e al cartello della mala guidato da Noah Folsom, a Howi e al Buen Retiro, al vecchio amico d’infanzia Nastas Begay e allo spietato ex compagno d’armi Cobra Ray, al mistero del padre di Thorn e alla tragica morte della madre. Una sequela di ribaltamenti che per un verso offre ottima suspence, ma per un altro fa persino qualcosa di più: inietta nella scrittura bonelliana una sottile inquietudine contemporanea, che trasferisce nel trito canovaccio western il senso di una realtà sempre instabile, coperta da un velo fatto di compromessi, approssimazioni e risoluzioni sempre temporanee.
Esiste quindi una strana alchimia, in Saguaro, che lega il gusto classico dell’avventura a fumetti, spesso tradizionale, della serialità all’italiana (e non solo, naturalmente), e un certo modo di scrivere fumetti. Che è sì puramente d’intrattenimento, ma cerca a tutti i costi di spingersi un pochino più in là, riuscendo nell’intento senza tuttavia esporsi troppo alla luce dei riflettori (leggi: delle mode nell’immaginario).
Dopo la prima annata, a partire più o meno dal numero 14, comincia poi un arco di storie davvero felici che mostrano tutto l’estro di Enna per certe tematiche: una spietata caccia all’uomo al confine con il Messico, la fuga dalle forze dell’ordine che accusano Thorn di aver assassinato chi da oltre un anno cercava di assassinare lui, l’indagine sul marciume che si nasconde all’interno del Bureau, quella da infiltrato come operaio tra i grattacieli di New York, il salvataggio di una casa famiglia che si occupa dei reduci del Vietnam, il compito di istruttore presso l’Accademia Federale di Quantico e tanta altra roba che non sto nemmeno a raccontare.
Ma quel che mi premeva nello scrivere di Saguaro, accanto a tutto ciò, è anche quanto accaduto intorno al suo successo. Un successo assai relativo, a giudicare dai dati da noi recentemente pubblicati, che ha mostrato come si tratti della serie meno venduta di casa Bonelli, e per questo destinata alla chiusura. Per ‘successo’ non intendo quindi solo quello numerico: nel momento in cui mi sono reso conto che la serie decollava verso luoghi felici, allo stesso tempo mi sono chiesto perché, nel bene o nel male, nessuno ne parlasse.
La serie invisibile, e la serialità dell’incompiutezza
La comunità lettrice e critica del web, a parte una pagina Facebook e un forum (l’Ombra del Falco) che conta uno sparuto gruppetto di iscritti, sembra infatti ignorare quasi del tutto il personaggio. Un esito tutt’altro che scontato, rispetto a quella – certo ingombrante – eredità texiana che avrebbe dovuto raccogliere nelle intenzioni dell’editore.
Dove sono finiti gli appassionati lettori di Tex? Che fine ha fatto l’attrazione del western? E perché mai, in due anni, né la critica né la blogosfera o il fandom hanno riconosciuto quanto fatto da questa serie? Lavorando in campo pubblicitario (“perdonami o Signore, non sono degno della tua chiesa…”) dovrei credere a quell’assurda legge mai scritta che recita “bene o male, basta che se ne parli”. E invece non è mai stato così. Soprattutto se la cosa parte dal web.
Ci sarebbe quindi da capire perché Saguaro continui a raccogliere l’indifferenza del pubblico e della critica nonostante sia oggi una (LA?) serie tra le meglio scritte in casa Bonelli. Non è certo la prima volta che accade, e non sarà l’ultima. E beninteso, se avete creduto che la cosa potessi spiegarla io, e in un sintetico intervento online, mi sono espresso male: non è mia intenzione approfondire più di tanto. Tranne un aspetto che vorrei sottolineare.
A ben vedere, i vari episodi di Saguaro vivono sì di una meravigliosa indipendenza, ma si intersecano attraverso quelle sottotrame che citavo. In ogni storia è presente quell’ampio respiro di certe serie televisive americane che portano avanti, senza sosta, il ferreo volere di infondere nello spettatore la sensazione di un cerchio che si chiude (si, ho detto CERTE serie tv americane). Niente di nuovo, peraltro.
Tuttavia, a mio modo di vedere il fumetto seriale, di genere e non, si è sempre ossessivamente nutrito di (o ha trovato la sua consacrazione) in quella che lo sceneggiatore americano Syd Field (scomparso lo scorso novembre, pace all’anima sua) chiamò “divisione in tre atti”. Recuperando nozioni già chiare ai tempi di Omero, Syd Field suddivide una sceneggiatura in tre momenti fondamentali: la presentazione dei protagonisti e della situazione (l’ambiente e il tema); lo sviluppo (conflitti e difficoltà); lo scioglimento (compimento delle premesse implicite e chiusura).
Nonostante questo, sul lungo percorso, spesso la serialità fa male al seriale proprio per via dell’assenza di elementi che spacchino le regole, lasciando il lettore con un senso di incompiutezza, a chiedersi se davvero le cose sarebbero potute andare diversamente da come le aveva già immaginate (da come gli erano già state “suggerite”) trenta pagine prima.
Tutto questo per dire che anche Enna, con il suo Saguaro, rientra alla perfezione nell’articolazione in tre atti di Field; ma nel 100% dei casi (o quasi), alla fine quel senso di incompiutezza non c’è.
A parte questo, negli ultimissimi albi della serie sembra che Enna voglia chiudere quei buchi lasciati in sospeso. Quasi volesse giungere davvero a concludere un ciclo (un importante personaggio della serie è ridotto in fin di vita, e il mistero sui genitori di Thorn viene a galla). Ma senza fretta, sempre con una squisita eleganza dettata da tempi narrativi moderati e messi giù a modino, e con una naturale predilezione per uno stile di sceneggiatura spiccio, privo di fronzoli.
In ogni caso, sarà perché il protagonista è un indiano (e di indiani e dei loro inesistenti diritti si è già parlato parecchio, nella serie) o perché siamo negli anni ’70 o perché lo stesso protagonista non è esente da difetti.
Sarà anche perché Kai Walken è una degna spalla (nonché collega, amica e amante) del protagonista, una donna fatta e finita dal grilletto facile ma con debolezze più autentiche e contemporanee di tanti personaggi bonelliani. Sarà perché semplicemente è un western dallo squisito sapore seventies ma allo stesso tempo amabilmente “moderno”; sarà perché proprio negli ultimi numeri il personaggio cerca di mutare la sua stessa condizione di personaggio roccioso (addirittura prende a sorridere, ci crederesti?); o sarà per tutta un’altra serie di motivi, non so, ma la questione è che quando leggo una storia di Saguaro, nonostante non mi prenda la febbre da lettura, non riesco a chiudere l’albo prima di averlo finito tutto.
E per quanto mi riguarda, mentre cerco di spiegarmi come la pensino quei circa 22.000 lettori particolarmente ‘silenziosi’, direi proprio che basta.