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I raminghi dell’autunno. Dylan Dog con un piede nel passato e uno nel futuro

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Sergio Bonelli Editore è un’azienda che, a me come a tanti altri, piace definire artigiana. Questa definizione, che porta con sé tutta una serie di significati e suggestioni nobili, legati al fare con le mani, al fare certosino, al cesello e al tornio, ad una gestione di stampo famigliare della produzione – anche quando ciò non è vero – sembra naturalmente inadeguata ad un piccolo colosso come quello milanese.

Eppure, la cura con cui questi fumetti vengono prodotti e l’impronta che Sergio Bonelli, anche attraverso i curatori, supervisori e coordinatori da lui scelti, ha voluto lasciare, sono elementi importanti ed evidenti. Orientati a preservare la riconoscibilità di un marchio che, con le debite distinzioni rispetto al pubblico (e ai portafogli) di riferimento, dal punto di vista della Storia (anche come merce) che porta con sé, non è poi molto differente da altre glorie del Made in Italy, incluse – perché no? – Prada o Gucci (ormai italiana solo di nome).

La sede della Sergio Bonelli Editore
La sede della Sergio Bonelli Editore

Naturalmente, questo rispetto assoluto del marchio ha portato, nel corso degli anni, la stessa SBE a subire tutta una serie di accuse – eccessiva rigidità, interventi a posteriori su sceneggiature e tavole finite, uso vetusto della lingua etc. – che sarebbero in parte anche giustificabili, se non si partisse dal presupposto che l’identità del contenitore – l’albo Bonelli – è superiore alla somma dei contenuti che veicola.  Questo può piacere o non piacere – e a molti non piace – ma è impossibile negare che è il marchio Bonelli, attraverso una serie di scelte che condizionano il disegno e la scrittura, a veicolare il successo della miriade di testate che affollano le edicole italiane. Questo al netto di alcuni autori che hanno impresso il loro riconoscibilissimo (e in parte indelebile) marchio su alcuni personaggi – Sclavi per Dylan Dog, Castelli per Martin Mystère, Berardi per Julia etc. – o di un pubblico che si è ormai fidelizzato da anni e che continua a seguire, per esempio, Tex, decretando il successo delle sue innumerevoli ristampe.

Questa modalità di gestione “artigiana” di un colosso editoriale come la SBE, che piega anche autori esterni alla propria area di influenza alla proprie regole – spesso con risultati sorprendenti, a dire il vero – porta anche ad alcuni paradossi.

In un’azienda in cui tutto cambia lentissimamente e in cui il pubblico fidelizzato ha un’importanza notevole sulle vendite, quelli che altrove sembrerebbero dettagli, come il passaggio dal “voi” al “lei” su Dylan Dog o l’introduzione del colore in una nuova testata come Orfani, possono apparire sconvolgenti. Forse per alcuni, fra i più puri dello zoccolo duro, persino destabilizzanti. Non stupisce che queste “novità” abbiano avuto risalto attraverso canali che raramente si occupano del fumetto, come tv e giornali.  Del resto non è un discorso riferibile solo alla Bonelli. Come reagirebbero i fan di Asterix se Hachette decidesse di pubblicare un albo delle avventure del loro beniamino totalmente in bianco e nero? O in mezzatinta?

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In un’azienda in cui i cambiamenti – radicali – si potrebbero definire dai tempi ‘geologici’, e in cui la tradizione è una merce a tutti gli effetti, l’annunciato rilancio di Dylan Dog, curato ora da Roberto Recchioni, ha inevitabilmente suscitato interesse e perplessità. Come cambiare senza rinunciare alla tradizione, come innovare senza stravolgere, come ricollegarsi al passato guardando al futuro? L’albo attualmente in edicola, il numero 333 – un numero profetico, direbbero alcuni – offre una parziale risposta a queste domande.

Di Celoni, autore completo dell’avventura I raminghi dell’autunno, avevo già parlato in occasione della pubblicazione del suo Dracula disneyano e l’ammirazione che provo per il suo lavoro mi ha portato a leggere questo albo con particolare curiosità.

Una curiosità che si è risolta nella soddisfazione? Parzialmente. Quello che però credo sia importante ne I raminghi dell’autunno è la possibilità che svolga il ruolo di boa sul fiume lungo cui Dylan Dog stava lentamente discendendo negli ultimi anni (e le sponde sembravano essere quelle di Un tranquillo week-end di paura).

Sia chiaro, quello di Celoni non è un albo di rottura. Anzi. A partire dal titolo si ricollega perfettamente alla tradizione (immaginatevi quella pura, quella più pura ancora, per dirla con Elio) citazionista dylandoghiana. I raminghi dell’autunno è infatti un dichiarato omaggio al romanzo dello scrittore americano Ray Bradbury Il popolo dell’autunno (Something Wicked This Way Comes) senza, naturalmente, esserne un adattamento.

Richiamarsi, nel titolo, nelle trame e nelle tematiche a note (e meno note) opere cinematografiche e letterarie, è una caratteristica del fumetto popolare, certo, così come di tutta – o quasi la produzione Bonelli – ma per Dylan Dog è un qualcosa di più. E’ parte della sua ossatura, un pezzo fondamentale del gioco che Sclavi e gli altri autori della testata hanno proposto ai loro lettori, un intreccio di citazioni e rimandi da cogliere, in maniera più o meno cosciente e che riverbera nella memoria dei più affezionati per anni. Solo grazie ad un recente acquisto in una bancarella, ad esempio, ho scoperto il calco che Gianfranco Manfredi fece su di un poco noto ma splendido romanzo di Jacques Spitz,  L’occhio del purgatorio (L’oeil du purgatoire – Urania 987, 6/01/1985, con uno dei più bei “tondi” di Karel Thole in copertina) per realizzare il suo I giorni dell’incubo (DD n°95 – 1995).

I raminghi dell’autunno e Il popolo dell’autunno condividono lo stesso incipit: l’arrivo in città di un inquietante circo popolato da mostruosi fenomeni da baraccone. Nel caso della Londra di Dylan si tratta, però, di un ritorno. In occasione della precedente visita, infatti, Groucho, lo storico assistente dell’investigatore dell’incubo, ha lasciato il proprio capo per seguire una vagabonda vita d’artista. A DD non resta altro che vincere l’istintiva repulsione per quel marcescente tendone – che solo lui sembra percepire come tale – e mettersi sulle tracce dell’amico scomparso, fosse anche solo per un ultimo saluto. Un viaggio che farà scoprire all’investigatore che quelle della galleria degli specchi non sono le uniche superfici deformanti attraverso cui vediamo la realtà.

Da qui in poi si sviluppa la più classica delle avventure di Dylan Dog. Così classica che di simili non se ne vedevano da tempo. Ci sono tutti gli elementi del caso. La travagliata avventura sentimentale, il tema del diverso, quello del doppio, lo scetticismo di Bloch, la distruzione del galeone. Un ritorno alle origini che si esprime anche in un recupero degli aspetti più gore e sanguinolenti del DD dei primi anni, lato, questo, ultimamente fin troppo sacrificato e qui glorificato dallo splendido tratto dell’autore. Il lettore più affezionato, insomma, può respirare “aria di casa” senza che il tutto si risolva in un’operazione nostalgia che rischierebbe di allontanare nuovo pubblico. Ci sono, naturalmente, anche alcuni vizi, il ripetersi dei quali ha ingolfato il motore della testata negli ultimi anni. Primo fra tutti lo “spiegone”  che tenta di riallacciare i molti fili della vicenda raccontata in chiusura dell’albo. Anche se Celoni sembra voler giocare con questo elemento della struttura narrativa di Dylan Dog (l’equivalente di un macigno nel fiume di cui sopra), trattandolo alla stregua degli altri, ingannevoli riflessi attraverso cui imbastisce la sua trama, non sfugge al rallentamento che l’ingorgo di parole e di spiegazioni inevitabilmente impone ad una storia altrimenti intelligentemente frammentata, anche dal punto di vista visivo.

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Lo “spiegone”, insomma, così come l’accumulo di finali, risponde a quell’eccessiva esigenza di chiarezza che troppo spesso tarpa le ali a questo come ad altri prodotti bonelliani. Nel caso specifico, difficile dire se ciò sia dovuto a diktat editoriali, alla volontà dell’autore o ad una sua mimetica adesione allo stile narrativo della testata.

Al di là di ciò I raminghi dell’autunno è un albo che riesce a sorprendere. Il fatto che sia sceneggiato e disegnato da un solo autore – un caso non unico ma infrequente, si veda il recente Una nuova vita – ha di certo il suo peso nel far avvertire come perfettamente organica e particolarmente personale una storia che, finale a parte, si muove per accenni, dettagli, sottrazioni visive e testuali. Le tavole di Celoni, realizzate attraverso una netta preferenza per primi e primissimi piani, dettagli e inquadrature angolate, sono fisicamente oppressive e sensibilmente materiche. La paura, le risate quasi folli degli spettatori dello spettacolo circense, la pioggia costante, il fango, la paglia dei carrozzoni, hanno odori e sapori, per lo più repellenti. I visi trasudano follia, in senso quasi fisico.  Tutti elementi, questi, che rendono la lettura un’esperienza quasi tattile, olfattiva, di certo tutt’altro che distaccata.

E’ una storia che il lettore abita, non una storia che il lettore sfoglia. La trama, come suggerisce il termine un intreccio da costruire o da ri-costruire, passa spesso in secondo piano rispetto a quello esperenziale. Già dalla prima vignetta, avvertibile come una soggettiva senza altro soggetto che non sia chi legge, con quei visi sorridenti, il dettaglio delle pieghe dei vestiti, sospeso fra espressionismo e iperrealismo, la fuga verso il nulla, non rappresenta un invito, una soglia. Siamo già dentro, bruscamente spinti più che invitati. Anche se tutta la vicenda, in un certo modo, può essere riassunta come una visione allucinata dello stesso Dylan, intorno al quale la trama è fortemente incentrata – altro aspetto che la testata dovrebbe tenere in maggiore considerazione, invece di utilizzarlo come orpello collaterale alla risoluzione del mistero di turno – il lettore è portato a viverla al tempo stesso sia immedesimandosi nell’incubo dell’investigatore, sia come un fantasma silente che lo segue passo passo. Lo sguardo, però, divaga, si ferma su quei dettagli che, soprattutto nei campi più lunghi, prendono con prepotenza possesso del primo piano, e costruisce geometrie proprie che rendono lo spazio visivo del racconto vivo, parzialmente autonomo e non esclusivamente funzionale all’azione.

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Il tratto di Celoni, poi, qui vario come non mai, non si limita a deformare solo ciò che deforme è già – i mostri – ma rende il mondo intero una follia grottesca, oscuramente barocca e purolenta. Avendo il lettore accettato queste premesse per via della forza con cui è stato tirato dentro questa visione, quando arriva alla sequenza più interessante dell’albo, quella della fuga di Dylan (pp. 56/59)  non troverà poco congruente il salto estetico preparato dall’autore. In queste splendide tavole Celoni, che non spezza la rigida gabbia bonelliana ma la piega fino quasi ad incrinarla, dà libero sfogo a tutto il suo controllato eclettismo. Torna il citazionismo, torna l’ossatura di Dylan Dog, ma stavolta attraverso la china. Il segno materico del Breccia adattatore di Lovecraft – ma a questo gioco si può giocare anche citando i nomi di Dino Battaglia e Albín Brunovský – dà forma qui al terrorizzante incubo di Dylan. Se nelle tavole precedenti, per illustrare le mostruosità che Dylan si trovava a combattere, l’autore aveva giocato d’accumulo, qui riduce, semplifica, toglie, graffia, gratta via, creando un tratto che assomiglia ad un urlo.

Così, dopo tanti anni, e almeno per un momento, l’incubo, l’oppressione, sulle pagine di Dylan Dog hanno vinto di nuovo sulle parole, e su un’idea di trama ben ordinata. La paura del buio ha vinto su quella di apparire troppo poco chiari, e la fisicità del racconto ha surclassato la sua schematicità.

Ho detto come poi tutte queste ottime qualità andranno un po’ a perdersi nel finale, graficamente anche meno coeso e interessante, ma che comunque conserva una sua dignitosa ambiguità. Se devo però pensare ad un segnale per ricostruire l’idea di un fumetto popolare come Dylan Dog che vada nella direzione non di uno strumento educativo e “ben scritto”, ma di un prodotto di intrattenimento violentemente viscerale, quasi primitivo, in cui la comprensione paghi il suo giusto tributo alla suggestione, I raminghi dell’Autunno sembra essere davvero un ottimo punto di partenza.

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