Intellettuale scomodo e «mosso dal gusto aristocratico di dispiacere», nonché strenuo difensore dell’identità nazionale e vicino per questo alle posizioni del Front National, il filosofo Alain Finkielkraut ha nuovamente mosso i suoi strali critici contro la bande dessinée.
Già nel 2008, in un’intervista rilasciata al quotidiano Libération a ridosso del Festival de la Bande Dessinée di Angouleme, Finkielkraut aveva infatti affermato che «Quando qualcuno mi racconta una storia, desidero che me la suggerisca, che mi faccia venir voglia di interrompere la lettura e di alzare la testa […] La bellezza dei libri è che sono privi di immagini e che offrono quindi libero corso all’immaginazione. Ci sono così tanti libri da leggere, tele da ammirare, che non ho tempo da perdere con quelli che una volta si chiamavano periodici illustrati». La risposta del giornalista Jean-Christophe Ogier, oggi come allora presidente della Association des Critiques et journalistes de Bande Dessinée, era stata abbastanza dura, evidenziando la cecità del filosofo nella complessità di un fenomeno che era ormai abbastanza distante dall’immagine infantile e oleografica che ne aveva.
Nominato da poco accademico di Francia, Finkielkraut non ha messo certo da parte la sua crociata contro il fumetto – che pare fare un po’ pendant con la sua riflessione sull’integrità e l’identità della lingua francese – ed ha voluto evidenziare come fosse sconveniente, da parte di intellettuali e accademici come Louis Schweitzer e Michel-Edouard Leclerc, parlare della loro passione per la “bédé”. Soprattutto la dichiarazione di Schweitzer, presidente della Halde, cioé la Haute Autorité de lutte contre les discriminations, ha attirato la sua attenzione, tanto da lasciarsi andare a riflessioni molto dure durante la trasmissione Repliqués, diffusa il 5 Maggio su France Culture:
Mi sembra che le asimmetrie e le gerarchie in materia culturale siano sempre meno ammesse a causa dello spirito democratico dei nostri tempi […] Penso ad un servizio pubblicato su un quotidiano, in cui l’allora presidente della Renault, Louis Schweitzer, confessava la sua passione per il fumetto, dicendo di possedere oltre 3000 albi e di condividere il suo amore con Michel-Edouard Leclerc […] Quello che mi ha colpito è che lo stesso Schweitzer è diventato il primo presidente della Halde. Non sottovaluto la necessità di lottare contro le discriminazioni razziali…ma ho l’impressione che è lo stesso diritto di discriminare che è rifiutato in nome di una presunta eguaglianza. Ed è così che ci si può vantare di amare i fumetti. Perché non dico che non si possano amare i fumetti, ma vantarsene è un’altra cosa. Sotto banco, è come dire che non esistono le arti minori. E quando si afferma che non esistono arti minori, non solo le si riabilitano, ma soprattutto si svuotano le altre.
Le affermazioni di Finkielkraut hanno subito destato reazioni. Infatti, il 21 Maggio scorso il redattore capo della storica rivista Fluide Gacial, Yan Lindingre, ha lanciato su Twitter l’operazione Une Bd pour Finkie: una raccolta di suggerimenti di lettura (fumettistica) di grande qualità, per aiutare Finkie a conoscere meglio il campo. Nonostante i vari consigli da parte di redattori, autori e semplici lettori, il filosofo e accademico francese è sembrato alquanto restio a ritrattare la sua posizione.
In realtà, come accennato, le argomentazioni di Finkielkraut fanno leva su una strenua difesa dell’identità (perlopiù francese) contro ogni forma democratica di riconoscimento e di parificazione dei diritti. In questo quadro, quanto detto sul fumetto acquista subito – in un paese come la Francia, dove da tempo il fumetto è parte integrante del circuito culturale e museale – un aspetto “sacrilego”, che fa intuire quanto poca consapevolezza e quanto pregiudizio vi sia nella parole di Finkielkraut. Il sito del quotidiano conservatore Le Figaro, per esempio, ha contrapposto alla visione anti-democratica del filosofo francese quella del teologo domenicano François Boespflug, attento studioso dell’iconografia del divino nell’arte, che ha risposto dicendo:
Amo quando l’arte apre le frontiere. Amo quando il valore dell’arte si arricchisce, si libera da certi a priori. La storia dell’arte mi appassiona nella misura in cui è capace di evolversi, di abolire delle distinzioni tra l’arte stricto sensu e le “sotto-arti” definite come tali per ragioni contestabili.
Senza dubbio, ragionevolmente tutti potrebbero essere d’accordo con quanto detto da Boespflug, perché tratteggia una visione dinamica e organica dell’arte, senza distinzioni preliminari tra un alto e un basso. Ma, nel contempo, non mi sembra però peregrina la richiesta di distinzione avanzata invece da Finkielkraut. Il filosofo certo mostra una certa cecità verso gli studi di genere, e sembra non capire cosa sia e come funzioni un fumetto. Tuttavia, si basa su un’idea che si può ritrovare sia in Benjamin – restio ad accettare cinema e fotografia come nuove arti – o in Adorno, restio ad accettare la fecondità e la centralità del jazz. Un’idea che vede nella gerarchizzazione una difesa della “verità” e delle forme entro cui questa verità si manifesta. Tesi difficili da sostenere, oggi, in un contesto storico che ha ormai sfondato i limiti del post-moderno.
Eppure, è ragionevole forse scindere l’atto del discriminare – positivo, in quanto facoltà con cui discerniamo il semplice dal complesso e comprendiamo il diverso – dalla gerarchizzazione. Vi è una differenza sostanziale tra letteratura, pittura e fumetto, e senza dubbio la “minorità” del fumetto non deve far gridare subito allo scandalo. Discussioni del genere hanno movimentato la Rete nell’ultimo periodo anche qui in Italia, intorno al caso dell’inclusione nella selezione per il premio Strega dell’ultimo lavoro di Gipi, unastoria.
Così Gipi al riguardo in un’intervista pubblica: «Le molte discussioni sulla candidatura di unastoria riguardavano soprattutto se fosse giusto o no che un fumetto rientrasse in un premio che fino a ora è stato appannaggio solo della narrativa. In quei momenti, mentre si moltiplicavano le discussioni e le polemiche, soprattutto nel web, io me ne stavo in silenzio […] Credo che se dovessi rispondere veramente alla domanda se sia giusto o no, ti risponderei di “no”…probabilmente avevano ragione quelli che non mi volevano in lizza, perché il mezzo espressivo del fumetto è un altro, ha una diversa logica»
Chi scrive sosteneva questa tesi dai primi momenti, e non per spirito antagonista, ma per “discernimento” e “fedeltà” ad un mezzo espressivo che potrebbe anche in maniera fiera dichiararsi minore, in virtù dei suoi natali e della sua genetica, ma che nel contempo non ha bisogno di giustificazioni extra-fumettistiche per uscire dal suo stato di presunta minorità.