Il fumetto è stato spesso, se non sempre, considerato un medium nazionalpopolare. Certo per “fare gli italiani” ci è voluta, come sappiamo, la televisione più di altre istituzioni sociali. Ma anche Tex Willer, in fondo, ha fatto la sua parte. Come ho sostenuto diverse volte, e di recente nel nuovo numero della rivista Link, intitolato “Quel che resta del nazionalpopolare”, il fumetto è stato a lungo la più vivace riposta alle lamentele di Antonio Gramsci sulla storica carenza di autori autenticamente “nazionalpopolari” nel nostro paese. Il fumetto nostrano – dal Corriere dei Piccoli a L’Avventuroso, dalle testate Disney a Bonelli Editore – ha fatto, per lungo tempo, ciò che la letteratura nostrana non era stata in grado di fare un secolo fa: offrire storie “per tutti”, attingendo alla grande macchina dei generi, e declinando l’immaginario collettivo secondo un gusto tipicamente nazionale. Ma le cose cambiano.
La tesi che presenta Link Magazine, attraversando campi come la televisione, il cinema o la musica (e il fumetto), è che il nazionalpopolare stia vivendo una crisi profonda. Qua e là sopravvive ancora, in primis tra i palinsesti (logori) della tv generalista. In generale, tuttavia, arranca. Forse, non è più possibile nemmeno immaginarlo. E se il successo nazionalpopolare ai tempi di Gramsci poteva essere incarnato da un Pecos Bill o da un Tex Willer, ai tempi di Zerocalcare o Orfani o Jenus di Nazareth – tre fra i maggiori successi fumettistici dell’ultimo biennio – è evidente come la categoria di nazionalpopolare sia sempre meno pertinente per spiegare il successo fumettistico. Piaccia o non piaccia, il fumetto, anche (e soprattutto) di successo, oggi non è più nazionalpopolare.
Popolari, larghi, per tutti. Ma anche no.
I fumetti più “larghi” di target oggi, ovvero quelli che non guardano solo al pubblico più familiare e fedele al medium, bensì alla platea dei non-lettori, sono in realtà prodotti la cui ‘larghezza’ non ha molto a che vedere con un’idea nazionalpopolare di gusti o di immaginari. Se Carosello come La Piovra, o il Festivalbar come i cinepanettoni – con qualità pur abissalmente diverse – puntavano a genitori&figli, mescolavano Nord e Sud, e shakeravano esotismo e tradizione, il fumetto italiano “popolare” odierno è ben lontano non solo dal raggiungere simili risultati, ma dallo stesso porli come obiettivi.
Mentre su Link mi sono occupato di Orfani e di Zerocalcare, qui potremmo facilmente estendere l’osservazione citando Jenus o Drizzit, A Panda Piace o Lukas, con spolverate di Rat-Man, Don Zauker, Dragonero, Saguaro… Tutti fumetti senza dubbio “popolari”. Ma altrettanto chiaramente agli antipodi dell’idea di nazionalpopolare: progettati consapevolmente non “per tutti”, ma per una – diversa, specifica – parte del tutto che sarebbero i lettori. Taluni per ragioni di target generazionale contrapposto a quello (passatista?) transgenerazionale; talaltri perché pensati ‘verticali’ rispetto a specifiche sacche di gusti; altri ancora perché nati più come riapplicazioni di modelli ‘classici’ (alquanto idealtipici, visto i mezzi flop di Mytico o Saguaro) che non come nuove ricette a base di ingredienti tradizionali.
“L’estinzione progressiva del fumetto popolare” su cui mi interrogo da un po’ – e non da solo, anche se l’atteggiamento più diffuso in questa direzione è quello dell’affannosa caccia di bestseller ‘sicuri’ (magari perché confortati dalla diffusione online) da parte di editori sempre più prudenti e preoccupati – ha a che fare con trasformazioni sia interne che esterne al mondo del fumetto. Quantomeno un paio.
Non c’è più il nazionalpopolare di una volta.
La prima sono gli obiettivi che provano a perseguire gli editori nostrani. Con Panini Comics che innova, ma pur sempre nel solco dell’azienda che è sempre stata: un soggetto che investe su idee pre-esistenti, pre-testate (serie, brand, autori), puntando sul licensing più che sulla lenta, faticosa coltura di un proprio modo di fare storytelling. Con Disney/Panini che ha ritrovato energia e idee, ma continua a maneggiare iconografie ‘antiche’, più in difesa che all’attacco delle frontiere visive o dei nuovi immaginari (e quando lo fa, come con Real Life, sembra muoversi al passo del gambero). Con Bonelli che prova ma arranca, talvolta si accende e talaltra sonnecchia, come sospesa, in attesa di un futuro prossimo – l’autunno 2014 – però ancora incerto, avvolto nella nebbia (per i pessimisti) o coperto dal mistero (gli ottimisti).
Eppure, nessuno di questi produttori, così come (quasi) nessuno degli autori che li alimentano, sembra porsi obiettivi nazionalpopolari. Al massimo, popolari. Con esiti paradossali: fumetti ritenuti e comunicati come “popolari”, ma venduti poi in poche migliaia (persino centinaia) di copie. Dal “fare gli italiani”, all’accontentarsi di ‘servire’ tanti consumatori quanto gli abitanti di un isolato. Perché progettare pensando a un pubblico nazionalpopolare sembra impossibile: chi guarda Ballando sotto le stelle e chi gioca a GTA, o chi ride di Checco Zalone e chi legge Julia non possono essere fatti incontrare. Meglio ridurre lo spettro e produrre per i “propri” consumatori, che inevitabilmente sono diversi, se non opposti, dai “loro”. In fondo quel che capita a Orfani accade anche altrove (per esempio nel caso cinetelevisivo de I soliti Idioti, ben raccontato su Link da Gabriele Niola), riassumibile nell’adagio – spesso usato consapevolmente dagli autori – “il pubblico si è diviso in chi lo ama e chi lo odia”. La rappresentazione plastica di un’idea di “popolare” sempre più legata a nicchie in costante conflitto.
Un Tex (o un Pecos Bill, o un Monello, o un Topolino) dei nostri tempi è quindi impossibile. E va anche bene così. La frammentazione dell’offerta e del pubblico nell’“età dell’abbondanza” – in tv come nella musica come nel fumetto, eccetera – porta con sé questa mutazione genetica, ed è il momento di farsene una ragione. La crisi del nazionalpopolare è la fine di un ciclo storico, e porsi obiettivi novecenteschi, tranne rare condizioni eccezionali, sarebbe ormai privo di senso. Benvenuta coda lunga, addio nazionalpop. Una consapevolezza utile, se si vuol puntare a un’offerta chiara, che eviti illusioni e quindi liberi energie per soddisfare i bisogni diversi e incompatibili di pubblici sempre più plurali.
C’era una volta il medium nazionalpopolare
La seconda trasformazione, poi, riguarda il fatto che il fumetto possa ancora essere considerato, di per sé, come un mezzo nazionalpopolare. Certo, Diabolik e Tex e Zagor e Topolino sono ancora fra noi – peraltro in discreta forma, creativamente parlando – e la progressiva erosione del loro ruolo che la Storia gli sta riservando manterrà un ritmo comunque blando. La loro fine arriverà, ma sarà lenta, ben più di quella di superstar d’altri tempi come Ally Sloper o Buster Brown (o il Signor Bonaventura). Come sempre, il nuovo convive con il vecchio.
Nell’epoca di graphic novel, webcomics, graphic journalism e altre formule, ciò che è in discussione non è la sopravvivenza del fumetto come forma, ma il suo statuto sociale come mezzo “per antonomasia” nazionalpopolare. Sempre meno vero non solo per ragioni numeriche, ma perché nel grande corpo del consumo esso è ormai presente con significati sempre più differenziati. Contenuto visivo ‘snack’ per il consumo online; linguaggio dei visual data (o visual journalism); letteratura pertinente a editori (e premi) letterari; arte da galleria. Nell’epoca della post-televisione e del post-cinema – che la digitalizzazione ha portato ovunque, e da nessuna parte – anche il post-fumetto ci offre nuove opportunità, e insieme ci costringe ad abbandonare vecchie certezze. La progressiva perdita della sua condizione nazionalpopolare conduce a ben altro rispetto ai timori ‘passatisti’ di un Benoit Peeters, che ne preconizzava un futuro solo come linguaggio sofisticato per lettori specializzati: il fumetto non è più dove è stato a lungo, ma per certi versi è dappertutto. Solo, per fare la sua strada oggi non ci arriva con una flotta di corazzate transgenerazionali e transculturali, ma con piccole flotte di imbarcazioni dalle fogge più diverse (magari persino anfibie, talvolta assurde), navigando nel nuovo spazio fatto di una complessa quanto fertile convivenza fra cellulosa e bit.
La stessa parola *fumetto*, come sappiamo, ha subito in questi anni un processo di progressivo svuotamento, a favore delle etichette che ricordavo (e di altre). Il nome italiano del medium, portatore esso stesso di un retrogusto linguistico nazionalpopolare, è parso talvolta inadeguato a descriverne la sua vita odierna. Dal lato opposto della medaglia, però – un aspetto molto meno sottolineato – il suo uso sinonimico per indicare approssimazione e scarsa qualità si è altrettanto ridotto, così come la parola “fumettone” sembra essere (quasi) sparita dal linguaggio del giornalismo culturale più tranchant. Qualcosa abbiamo perso; qualcos’altro, però, abbiamo guadagnato.
Per fortuna, domani Fabio Fazio – tra i pochi simboli di “quel che resta del nazionalpopolare” – ospiterà in tv Gipi. Che di questa condizione contraddittoria del post-fumetto è un esempio felice, consapevole tanto del retaggio nazionalpopolare quanto del suo orizzonte più liquido e libero (e senza paturnie sull’uso dei termini, incluso l’antico e un po’ consunto *fumetto* – che statesereni, gli sentirete pronunciare di fronte a Fazio). Il fumetto assai poco nazionalpopolare di Gipi può dialogare con il contenitore ancora -debolmente- nazionalpop di Che Tempo Che Fa. Forse anche per raccontarci che anche a un diluvio (del digitale; della fine del fumetto nazionalpop come lo abbiamo conosciuto) segue sempre qualche raggio di sole. Senza nemmeno doverci dire romantici.