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Perché ‘Saga’ è la serie dell’anno

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Siamo ormai al diciottesimo numero e ancora l’entusiasmo per Saga non accenna a scemare. La critica non smette di tesserne le lodi e il pubblico regala a ogni singola uscita la cima alle classifiche di vendita (soprattutto i tpb, i singoli albi si limitano al tutto esaurito delle tirature Image). Quale è il segreto di un successo tanto travolgente e duraturo? Non ne abbiamo idea, ma qualche indizio siamo comunque riusciti a raccoglierlo.

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In primis Saga mescola i linguaggi con una naturalezza che lascia stupefatti, accontentando praticamente tutti. L’impalcatura è inscrivibile, senza alcun dubbio, al genere puro. A cadenza mensile siamo immersi in un mondo fatto di battaglie intergalattiche, cacciatori di taglie, cappe, spade, strani alieni e un sacco di altra roba davvero forte. Nulla di nuovo o per cui strapparsi i capelli, sia chiaro, ma perlomeno si ha la parvenza di un ritorno all’epicità dei fumetti cosmici e della grande narrativa fantastica. Aspetto che mancava dalle nostre letture da fin troppo tempo. A dare maggiore profondità al tutto abbiamo l’amore sconfinato di Vaughan per i suoi personaggi. Chiunque altro avrebbe sfruttato questo palcoscenico per chissà quale impresa eroica o marziale. Brian invece avvicina l’obbietto della macchina da presa a chi solitamente starebbe sullo sfondo e finisce per raccontarci la storia di una famiglia in fuga dalla guerra. Una famiglia che non dovrebbe esistere, tra le altre cose. Frutto di una concezione del nucleo genitoriale impossibile da accettare per chiunque – all’interno dell’universo narrativo di Saga – non sia di vedute più che ampie. Senza tante metafore anche la politica fa capolino in questa serie. Come se il legame empatico non fosse già abbastanza forte – il dramma di non poter amare è sicuramente più vicino a noi rispetto al dover salvare il mondo a ogni costo – Alana, Marko e tutti le strane personalità incontrate lungo questo bizzarro road-movie parlano per voce di quello che è probabilmente il miglior dialoghista di tutta l’industria a fumetti statunitense. Le linee di dialogo saranno sicuramente artefatte, lontanissimo dalle banalità con cui noi ci esprimiamo tutti i giorni, eppure funzionano benissimo. Hanno ritmo, spirito, eleganza e un sacco di stile. E, non si sa come facciano quei maledetti sceneggiatori statunitensi, credibilità. Mai una volta si percepisce il legnoso sapore dell’artificioso o del riciclo coatto da qualche film di seconda fascia.

A dare corpo a tutto questo le magnifiche tavole di Fiona Staples, in assoluto la porzione più autoriale di tutto il lavoro. Lontane anni luce dall’ipertrofismo di certo fumetto US sconfinano spesso e volentieri nell’illustrazione più pura, facendo convivere all’interno della stessa pagina parti volutamente spicce e soluzioni di eleganza e efficacia assoluta (il design dei due protagonisti su tutto). Anche qui, bisogna metterlo, abbiamo qualche limite (il Principe Robot con il televisore come testa è inguardabile) e spesso la visionarietà degli aspetti più sci-fi ha il freno a mano tirato. Cose che succedono quando si sceglie una disegnatrice di gusto rispetto a un nerd con l’inspiegabile convinzione che ogni donna stampata su carta debba essere una sorta di stripper vestita di due francobolli. Magari avremo le astronavi meno fighe di quelle viste nell’ultima serie di anime scaricata via torrent, ma per lo meno non ci vergogneremo di tutto il resto e il look generale della testata non invecchierà in maniera imbarazzante nell’arco di cinque anni.

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In secondo luogo – tornando ai motivi per cui Saga è la serie dell’anno – pare che tutti abbiano voglia di fantascienza. Tra i tanti progetti in ballo ricordiamo I Guardiani delle Galassia Marvel, i nuovi film di Star Trek, la prossima trilogia di Star Wars, la nuova serie di Shinichiro Watanabe (Space Dandy), Black Science di Remender e Scalera, il blockbuster videoludico Destiny (in cui compaiono anche cappe e spade).. Ognuno di questi singoli progetti ha il cuore ben piantato in un tipo di immaginario decisamente vecchia scuola. Quando futuro significava viaggi intergalattici, popoli improbabili, battaglie epiche e, perché no, romanticismo da romanzetto pulp. Ben diverso dall’abbuffata di hackerismo distopico degli ultimi vent’anni. Non vogliamo dare tutta la colpa a William Gibson – il suo lungo spettro influenza dal 1984 – o ai fratelli Wachowsky, però non se ne poteva veramente più di metropoli battute dalla pioggia, di mega-corporazioni e di post-umani. Era inevitabile che tutto il rimestare nel passato da parte dell’intrattenimento moderno ci portasse a questo. A un ritorno alla magnifica ingenuità – evitiamo di tirare in ballo Asimov – della space-opera. Senza contare che Saga è prima di tutto un lavoro pieno di speranza.

Se guardiamo agli ultimi anni, dalle commedie come The World’s End ai blockbuster estivi, pare che la Terra sia stata posta nell’Universo solo per essere distrutta. Da alieni o da visitatori di altre dimensioni poco importa. Aldilà di questa insana tendenza al martirio mi piacerebbe vedere un film dove il domani sia messo meglio di come stiamo oggi. Come se ci volesse un grande sforzo di fantasia, tra le altre cose. Eppure pare siano richieste ridicole, lontane da quello che il pubblico – intorpidito dal realismo “magico” dello stupido Nolan – vuole. Il Capitano Kirk era il simbolo della costante voglia di allargare i propri orizzonti, sicuri di trovarci qualcosa di stupefacente. Guerre Stellari faceva la stessa cosa, ma verso l’interno. Perfino le primissime serie di Battlestar Galactica avevano al centro di tutto una civiltà che puntava alla perfezione tramite la ragione. A sentire i produttori pare che oggi sperare in qualcosa di bello e piacevole – un po’ come non imperniare ogni singolo aspetto di ogni singola uscita sul cinismo più mortifero – sia un peccato mortale. E infatti Saga – dove ci sono sì battaglie e bordelli minorili, ma dove tutto ruota attorno all’amore di una copia che più normale non si può – piace a tutti e vende un sacco.

L’ennesima dimostrazione che il pubblico e i suoi moderni demiurghi sono gli ultimi a cui chiedere di cosa hanno bisogno. A questo punto spezziamo una lancia a favore dei già bistrattati fratelli Matrix, che con Cloud Atlas forse sono stati i primi a capire un sacco di cose (e vuoi vedere che anche Speed Racer…).

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Il punto potrebbe stare tutto lì. Sono anni che ci fanno credere che adulto sia sinonimo di cupo, volgare e violento. Ma in realtà la grande maggioranza di proposte d’intrattenimento etichettate come tali non danno che l’idea di un ragazzino non troppo sveglio impegnato nello sputare più parolacce possibili mentre cerca di non rendersi ridicolo fumando la sua prima sigaretta. Vorrebbe passare per grande ma in realtà è solo patetico. Non esiste che uno di questi prodotti tratti temi davvero difficili – la morte, la malattia, la solitudine – con piglio da persona navigata. Se trattata con la giusta sensibilità fa molto più male la dipartita di un solo personaggio che l’ennesima legione di figuranti falciati da qualche minaccia ridicola e pretestuosa. In questo Saga non fallisce. La gente muore, ma lo fa in maniera dolorosa e anti-spettacolare. Esiste il turpiloquio, ma a un livello talmente tangibile da mettere occasionalmente in imbarazzo (non empatico). La sessualità è vista in maniera libera e spontanea. E la vita ha un sacco di alti e bassi, che si sia eroi infallibili o banali comparse sullo sfondo. Sono queste le cose che lo rendono adulto. Non il fatto che i colori debbano per forza di cose essere desaturati e ogni pagina la scusa per un’esplosione di frattaglie.

E in quest’ottica Vaughan ha il coraggio di essere comunque idealista. Siamo sinceri, quando in un film vediamo un personaggio fare qualcosa semplicemente perché è giusto farlo e non per meri motivi utilitaristici – lo storico “A man’s got to do what a man’s got to dodi John Wayne – non riusiamo a trattenerci nel fare la solita battuta acida da persone che ne hanno viste – pensano di averne viste – di tutti i colori. Vogliamo fare i disincantati ma in realtà stiamo solo morendo un poco dentro. Colpa di una costante erosione del nostro immaginario – fondamento di come vorremmo vedere la nostra realtà – portata avanti da vent’anni a questa parte. Marko e Alana rischiano tutto e decidono di lottare per il loro piccolo sogno di una vita tranquilla, incuranti di quanto avrebbero potuto apparire ridicoli ai nostri aridi occhi. E probabilmente proprio di questo avevamo bisogno. Non dell’ennesimo personaggio sospeso tra bene e male, psicopatico e dalle presunte sfaccettature oscure.  Di persone normali alle prese con situazioni straordinarie, che per quanto sembrino enormi non sono poi così diverse dai nostri problemi di tutti i giorni.

Sempre che Alana non sia davvero un agente sotto copertura. Cosa rappresenterebbe in quel caso Hazel, la bambina protagonista? Solo il frutto dell’amore tra i suoi improbabili genitori o qualcosa di più? Ci arriveremo prima noi o i due giornalisti Uphser e Doff? Quale è il ruolo della piccola prostituta liberata da Il Volere all’interno di questo delicato intreccio politico? Ma, soprattutto, perché Principe Robot IV ha visioni gay sempre più frequenti? Riuscirà Brian Vaughan a chiudere la sua serie dall’impianto più tradizionale senza le ambiguità a cui ci ha abituati? Anche in questo caso tutte le vocazioni progressiste crolleranno sotto il peso della dura e cinica realtà? Oppure si andrà in direzione esattamente opposta, con la riscoperta di un eroismo d’altri tempi e la conclusione della guerra tra Landfaal e Wreath? Scopritelo con noi, mese dopo mese.

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