Quando hanno cominciato a circolare in rete i primi rumors relativi alla pubblicazione di un fumetto sulle notti di Arcore, i commenti degli operatori del settore sui vari social network non sono stati esattamente “entusiastici”.
La sentenza pregiudiziale di condanna, espressa quasi all’unanimità, mi ha sorpreso. Si discute tanto delle possibilità di questo medium, della sua poco sfruttata versatilità, della sua storia, che affonda le proprie radici nella caricatura e nella satira politica, così come anche nel reportage grafico cronachistico… ma quando lo si vede accostato all’attualità molti storcono il naso, e il coro dei commenti canta imperioso: “questo matrimonio non s’ha da fare”.
La definizione “graphic journalism”, spesso utilizzata a sproposito per definire opere di tutt’altra natura, il più delle volte diaristiche (Persepolis, La seconda volta che ho visto Roma) o di pura fiction (No pasarán) sembrava, nel caso di Ruby, calzare a pennello. Un fatto di cronaca così importante per la storia recente del nostro paese, poteva essere sviscerato, con il fumetto, da un nuovo punto di vista.
Del resto anche trasmissioni televisive come Servizio Pubblico, con cui il libro della Round Robin (qua un’anteprima) si pone in ideale continuità per tramite della testata Il Fatto Quotidiano, di cui lo sceneggiatore Barbacetto è collaboratore (oltre ad aver lavorato anche con lo stesso Santoro) hanno cercato di sfruttare il disegno o il fumetto per visualizzare ciò che il video non aveva potuto documentare, ricostruendo talvolta le carte delle indagini, talaltra le intercettazioni telefoniche.
Servizio Pubblico ha anche lanciato qualche tempo fa, sul proprio sito web, una serie di inchieste grafiche, chiamate Le inchieste a fumetti.
Appare chiaro, nei casi qui citati, che l’associazione con il fumetto è impropria e pretestuosa. Del fumetto in queste operazioni restano solo il nome. E un tratto grafico che ricorda, alla lontana, quello usato nelle illustrazioni di opuscoli religiosi. Del resto di visibile, nelle vicende relative all’inchiesta cosiddetta “Ruby” (e sue correlate), c’era ben poco. Non stupisce quindi che un mezzo come la televisione, che si nutre delle e si riproduce attraverso le immagini, abbia cercato l’appoggio della matita di un disegnatore per raccontarle.
Eppure, se anche il triplice flirt fra televisione, fumetto e giornalismo può essere intrigante, queste sue recenti esperienze sembrano lasciarlo ancora del tutto irrisolto.
Ruby, pubblicato da Round Robin, tanto bistrattato ancor prima della sua uscita, accusato principalmente di essere un’operazione meramente commerciale – come se i fumetti non fossero un mercato – possedeva elementi da buona ‘promessa’: la competenza giornalistica di Barbacetto, un disegnatore con una certa esperienza nel “genere” come Luca Ferrara, e la curiosità di vedere il fumetto riappropriarsi della cronaca politica. Specialmente di una cronaca così attuale, capace di creare profonde ripercussioni sulla vita del paese.
Peccato che questa promessa non sia stata mantenuta.
Che dire, infatti, di un fumetto che non basta a se stesso? Un fumetto che non riscrive la cronaca, non la interpreta, ma la parassita? Del resto, sulle 162 pagine del libro meno di una novantina sono di fumetto. Le restanti sono occupate da ricostruzioni giornalistiche verbali, atti processuali, intercettazioni telefoniche. Non è solo una questione di numeri, di mettere sulla bilancia parole e immagini, ma della mancanza di una direzione e di un intento chiari.
Ruby – che, a onor del vero, non viene esplicitamente ascritto dall’editore al genere graphic journalism – galleggia in mezzo al volume senza che se ne capisca bene lo scopo. Le vicende “fumettate” vanno dall’arresto della giovane marocchina a Milano fino alla sentenza di condanna in primo grado di Berlusconi. Purtroppo, ciò che le immagini mostrano è già stato raccontato, anche più ampiamente, non solo dalla cronaca degli ultimi anni, ma anche dal testo che apre il volume nei cui confronti, di fatto, il fumetto si configura come un’illustrazione differita e poco interessante. Quello che c’era da dire è stato già detto: a cosa serve ripeterlo in immagini, se non a dare nuova vita – esclusivamente editoriale – ad una vicenda che giornali, libri e televisione hanno già sviscerato? Qual è l’urgenza di questo fumetto, la sua necessità, se non è capace di fornire un punto di vista nuovo sui fatti? In cosa differisce Ruby dalle illustrative ricostruzioni telefoniche e dalle inchieste a “fumetti” di trasmissioni come Servizio Pubblico, da cui si distingue solo per l’uso della “gabbia”? Cosa lo configura come un’inchiesta?
Forse quest’urgenza, semplicemente, non c’è. Alcune scelte editoriali della casa editrice potrebbero rappresentare un’involontaria ammissione di questo fatto. In tutto il volume, così come nella relativa scheda sul sito dell’editore, infatti, la parola fumetto – o un suo omologo – non compare mai. La definizione scelta per definire il lavoro di Ferrara è un laconico “disegni di”, come a voler sottolineare, appunto, la loro funzione secondaria e illustrativa. Del resto non è possibile capire quale sia, per quanto riguarda il fumetto, la funzione e l’apporto di Barbacetto e della cronista giudiziaria Manuela D’Alessandro. Hanno scritto il fumetto, hanno fornito un soggetto, una traccia o in quel “disegni di” va compreso un apporto più ampio di Ferrara? Questo tipo di scelta, legittimamente, fa sospettare che l’operazione sia solo un modo per rinverdire e commercializzare ancora una volta il lavoro di Barbacetto – il cui nome è scritto per primo e in corpo più grande in copertina – che fu il primo ad occuparsi giornalisticamente del caso.
Il sospetto ne esce rafforzato se si va ad analizzare “cosa” si è scelto di raccontare in immagini. Della novantina di pagine a fumetti più di un terzo riguardano le serate piccanti dell’ex premier, serate che chiudono sostanzialmente il racconto delle vicende di Ruby, a cui il volume è pur intitolato. Ancora un sospetto, quindi, quello di voler stimolare la curiosità morbosa del lettore, “mostrando” quello che per tanto tempo è stato solo raccontato o alluso, mascherando quest’intenzione dietro il velo nobilitante della cronaca.
Anche il livello grafico è deludente, e nello stile si riconferma la scelta ‘illustrativa’ del fumetto. Non solo sembra un lavoro disegnato frettolosamente (tanto da rendere difficile, in alcuni casi, distinguere i diversi personaggi femminili), ma denota anche una mancanza di “scelta di campo” visiva che lo rende piuttosto anonimo. L’unica caratterizzazione sopra le righe è quella che il disegnatore riserva a Silvio Berlusconi, rappresentato caricaturalmente come un mefistofelico priapo.
Peccato che il personaggio (il Berlusconi reale) superi, in ferocia dissimulata e dissolutezza, la maschera grafica creata da Ferrara, monocorde e semplicistica, che non si distingue da quella di molte (troppe) vignette già prodotte sul personaggio. La caricatura della realtà supera quella del pennello, come sempre più spesso accade. Per il resto, a parte un uso fin troppo insistito di inquadrature angolate e primissimi piani, che servono a esprimere un facile giudizio morale sui “turpi” avvenimenti, non resta molto altro da sottolineare. Le feste diventano, attraverso il segno di Ferrara, l’equivalente moderno di una bolgia dantesca (si guardi alla tavola relativa all’orgia del bunga bunga in cui i visi trasfigurati delle partecipanti rimandano esplicitamente a Devilman di Go Nagai) mentre, forse, sarebbe stato più efficace e sorprendente mostrarle nel loro quotidiano squallore di balera per anziani troppo ricchi e troppo potenti. Invece, consapevolmente o meno, Ferrara, accentuandone il lato oscuro e inquietante, corre quasi il rischio di aumentarne il fascino perverso.
L’unico intervento “autoriale” del disegnatore si manifesta quando, nella tavola che chiude la sequenza del bunga bunga, mostra Berlusconi con le fattezze di un gigantesco e fumante demone sommerso dai corpi delle sue infernali concubine. Troppo poco, però, davvero troppo poco. La realtà del nostro paese, spesso martoriato, merita ben altre narrazioni.