Che colore ha il futuro? Se ci dovessimo affidare alle visioni dei creativi che hanno plasmato le nostre visioni negli ultimi anni verrebbe da dire grigio, verde e marrone. Con al limite qualche tocco di azzurro freddo (o bianco latte), quando capitasse di voler rendere l’idea di ultima frontiera tecnologica.
Una paletta di possibilità piuttosto limitata, verrebbe da dire. Che si restringe ulteriormente quando la si vede applicata su modelli e idee sempre più ‘invisibili’ e poco incisivi. Pensiamo a film come il recente remake di Total Recall, a Riddick, alla serie tv Walking Dead o a una gamma di videogames fantascientifici che arrivano fino a Titanfall. L’intero impatto cromatico della nuova DC Comics sembra ridisegnata su toni freddi e inospitali.
Tutto questo è naturale. Come si è detto più volte, a meno che non consideriate il logo Supreme, i servizi fotografici di Vice e le cover di artisti alla Flying Lotus come paradigmi inamovibili, la nostra è un‘epoca senza estetica condivisa. Costruita sul continuo ripescaggio del passato e sulla cultura del richiamo. L’aspetto paradossale di questa faccenda è che ci si sarebbe potuti spostare in due direzioni, diversissime eppure figlie dello stesso ceppo nostalgico e rassicurante. La prima, quella di cui parla Simon Reynolds nel suo Retromania, è la frammentazione in micro nicchie sempre più eclettiche e invendibili al grande pubblico. La seconda, quella a cui siamo andati incontro noi, è l’eliminazione di ogni asperità. Niente balzi sulla sedia, grazie. Non vorrete mica farvi male.
Non è un caso se il film dotato dell’apparato visivo vendutoci (il che non implica lo sia veramente) come più affascinante e ricercato dello scorso anno sia stato Oblivion di Joseph Kosinski. Nel lungometraggio in questione la pioggia acida in corso dal 1982 viene abbandonata, a favore di un’estetica sospesa tra Apple e Muji. Il fatto che si riesca a riassumere la direzione artistica dell’intero progetto tirando in ballo due giganti del commercio fa capire come non ci sia assolutamente nulla di realmente eclatante. Ancora una volta ci si è indirizzati verso quello che il pubblico percepisce come futuristico. Oblivion sarebbe stato etichettabile come minimamente visionario se fosse uscito dieci anni fa. Oggi è stantio e confortante come la cinematica di un videogioco qualsiasi. Tanto ossessionato dalla sua concezione di stile e minimalismo, da dimenticare tutto il resto.
D’altra parte, ultimamente, nel mondo anglofono si fa un gran parlare di due serie a fumetti che non si fanno di questi problemi: lo straordinario The Private Eye di Vaughan e Marcos Martin, bizzarro noir ambientato in futuro post-Internet dove la trasparenza è proibita, e il divertente Judge Dredd – Mega City Two di Douglas Wolk e Ulises Farinas. Racconto di una trasferta nella controparte West Coast della già nota Mega City One da parte del nostro giudice preferito. A questi due esempi mi sentirei di aggiungere la nuova serie animata Space Dandy di Shinichiro Watanabe. Tre esempi non certo privi di difetti, tutti estremamente dipendenti a loro volta dal passato, ma che almeno cercano di muoversi in una direzione fresca e fuori rispetto ai parametri di quanto viene imposto dalla comune percezione di visione futurista.
Barocchi, coloratissimi, sovraccaricati di orpelli inutili. Le tecnologie spesso appaiono come più datate delle nostre e il problema della sovra popolazione non sembra minimamente ridotto. Prima che vi facciate qualche illusione: nonostante le apparenze da carnevale perenne in nessuno di questi futuri la gente è comunque felice. Abbiamo solo aggiunto i colori, da un momento all’altro la fantascienza non è tornata a essere un genere foriero di positività e fiducia nel domani. Non pensateci neppure. Almeno in questo casi il tutto è stato gestito in maniera magistrale, a differenza del pasticcio Hunger Games. Dove per far capire che i ricchi sono superficiali e disinteressati alla vita dei più deboli– e al contempo assicurarsi che tutti, ma proprio tutti, recepiscano il messaggio – li si è dovuti vestire da clown sotto mescalina.
Se proprio volessimo allargare ulteriormente lo spettro – tanto per far capire come il bisogno di nuove prospettive incominci a farsi impellente – potremmo includere in questa piccola cerchia anche Her di Spike Jonze, con i suoi colori accoglienti e la sua tecnologia (fin troppo) calda e piacevole. Naturalmente anche in questo caso si guarda un sacco al passato e sicuramente arriverà qualche genio a sfoderare la parola hipster per definire la visione del futuro del regista. Meno appariscente dei casi citati prima ma ancora più interessante (ne ha scritto anche lo studioso Matteo Bittanti sul suo blog). Alla stessa maniera bisognerebbe dare un’occhiata alla nuova serie dei fratelli Luna, Alex + Ada (Image Comics).
Tornando ai due fumetti in questione, è incredibile come un simile cambio di direzione artistica risulti rinfrescante e aiuti l’intera serie ad acquistare interesse. Siamo talmente assuefatti da desaturazione e grigiume assortito che anche una banalità come quella alla base della nuova serie di Dredd (west coast = Los Angeles, magari sospesa in un immaginario limbo temporale idealizzato, compreso tra fine anni ’80 e inizio dei ’90. Traducibile con kitsch e colori fluo a pioggia) ci fa saltare sulla sedia. Se non fosse per il mondo totalmente fuori controllo dipinto da Martin, The Private Eye di Vaughan sarebbe solo un ottimo noir distopico, con un sacco di idee interessanti. Grazie al talento dello spagnolo prende letteralmente vita e diventa qualcosa di nuovo e alieno. Avessimo avuto l’ennesima serie di tavole cupe e soffocanti molto probabilmente ora non ne staremmo neppure parlando. Alla luce di questi casi viene da riflettere su cosa possa aver permesso, nell’epoca dell’ironia a tutti i costi, l’affermarsi di un’estetica così seria e priva d’immaginazione? Il famigerato cinismo del post-moderno? Perché il pubblico premia sempre e comunque una sorta di finto realismo, affondando una pratica nobile come la stilizzazione?
Se ascoltassimo le bizzarre teorie di Grant Morrison circa il susseguirsi delle mode (basate sulla polarità delle Terra… trovate tutto nel suo fantastico saggio Supergods) ora dovremmo trovarci nel bel mezzo di una sarabanda colorata e sbarazzina. E invece, siamo fermi nello stesso punto da un numero di anni ormai preoccupante.
Di materiale irrinunciabile ne arriva sul mercato un sacco (in qualsiasi ambito, dal cinema al videogioco), non dobbiamo essere troppo pessimisti. Ma ancora aspettiamo la bomba che ci faccia voltare pagina definitivamente. Sono convinto che un cambiamento radicale dei contenuti possa partire proprio da come vengono presentati, dal loro aspetto più superficiale. Dopotutto – anche se troppo spesso lo si dimentica – stiamo parlando di linguaggi prevalentemente visivi. Se tratteggiamo un mondo fantastico nella misura in cui tutti si aspettano lo sia, difficilmente risulterà tale. E ancora di meno le storie che andrà a contenere (come faceva notare, un sacco di anni fa, il saggio Alan Moore nel suo manuale di scrittura).