Lo ammetto: non amo particolarmente le biografie, men che meno se su personaggi dello sport e dello spettacolo o, più in generale, contemporanei. Dei Beatles, inoltre, posso definirmi un fan talmente tiepido che la parola “fan” poco si adatta alla mia passione. Ne so talmente poco che quando ho sentito parlare per la prima volta di questo volume, caldamente consigliatomi da molti, il nome di Epstein non mi è passato neanche per la testa, scalzato, nel mio immaginario, da Pete Best (il batterista poi sostituito da Ringo Starr). Un personaggio, guarda caso, totalmente rimosso da questa biografia, se si escludono le prime immagini in cui compare la band.
Questo per dire che la mia diffidenza, al momento della prima lettura de Il Quinto Beatle era forte. Diffidenza rafforzata quando mi sono addentrato nelle primissime pagine del volume. Mi sembrava di avere fra le mani qualcosa di fin troppo famigliare, per approccio e tipologia di racconto. Anche ora che, conquistato dalla prosa dello sceneggiatore Vivek J. Tiwary e dai disegni di Andrew C. Robinson, la mia opinione è cambiata, un’eco di quella prima impressione è rimasta. Questo fumetto, che racconta la vita del manager/mentore/demiurgo dei Beatles, lascia una precisa sensazione: quella di volerti un po’ sedurre e un po’ fregare. E quando ci riesce, come nella coinvolgente – e patetica – sequenza conclusiva, ti viene anche da fargli i complimenti.
La storia di Epstein ci viene raccontata a partire da quando, amministratore del negozio di dischi di famiglia, e folgorato da un concerto del quartetto, si reinventa manager, fino al momento della sua morte prematura. In parallelo alla sua carriera nello spietato mondo dell’industria discografica, Tiwary analizza il rapporto di Epstein con la propria omosessualità, sullo sfondo dell’Inghilterra degli anni Sessanta – in cui l’omosessualità era punita con il carcere – fino al 1967, anno della scomparsa del produttore.
Il volume si apre proprio su questo tema. Epstein approccia, nella zona portuale di Liverpool, un marinaio, il quale però reagisce violentemente, massacrandolo a calci e pugni. Sarà solo l’inizio di una serie di drammi personali, conditi da tentativi di auto repressione, rinnovati entusiasmi – negli apparentemente più libertari Stati Uniti – e pesanti cure farmacologiche, ovvero una delle cause che lo porteranno alla morte. L'”eccentricità” di Epstein, insieme alla sua determinazione al limite della visionarietà, costituiscono infatti, il centro gravitazionale del racconto. L’amore sincero di Tiwary per il proprio personaggio e la sua storia è nettamente avvertibile e costituisce gran parte del fascino dell’opera. Al tempo stesso, ne definisce i suoi limiti.
Quando l’umanità di Epstein, raccontato come un personaggio tormentato e dalle sfumature quasi messianiche, emerge naturalmente attraverso il racconto della sua vicenda personale, il coinvolgimento è, in effetti, molto forte. L’immedesimazione va a scemare, invece, quando lo sceneggiatore cerca un punto di vista che potremmo dire più ‘autoriale’. Penso, in particolare, alla sequenza in cui vengono presentati, attraverso una serie di flashback e flashforward incrociati, tre fallimenti personali di Epstein: la sua cacciata dall’esercito, la stroncatura del proprio lavoro di stilista e il primo rifiuto, da parte della EMI, alla pubblicazione di un album dei Beatles.
Oppure, ancora, quando Tiwary ricerca soluzioni rappresentative antinaturalistiche e caricaturali – con l’esclusione della splendida “sequenza filippina”, grazie anche ai disegni di un sempre sutpefacente Kyle Baker – riuscendo solo a rivelare un immaginario povero e un po’ banale. Un esempio: l’incontro fra Epstein e il Colonnello Parker, in cui il rapace manager di Elvis viene rappresentato senza molta fantasia, come un obeso Mefistofele con tanto di corna e ombre tentacolari, dalla gestualità laida e dai più che voraci appetiti. O, ancora, uno dei leitmotiv del fumetto, quello delle corride – e in particolare dei toreador – grande passione di Epstein, ma che qui assume i toni di un parallelo costruito su distratte e serali letture freudiane.
Semplificazioni grafico psicologiche, queste, che più di una volta hanno il risultato di frenare l’immedesimazione con il protagonista, proprio perché questi è poco noto al grande pubblico e quindi non può avvantaggiarsi di un immaginario consolidato a cui riferirsi, ma che in altri casi risultano funzionali ed efficaci. Mi riferisco, per esempio, a come si è scelto di rappresentare i quattro di Liverpool. In un racconto che li lascia volontariamente al margine, appaiono comunque rappresentati lontano da ogni agiografia e spesso emergono come quattro bambocci arroganti e ingrati, completamente inconsapevoli della Storia che si agita – spesso inquietantamente – intorno a loro.
Peccato, però, che questa scelta, evidentemente ponderata, sembra essere orientata allo scopo di riscrivere l’uomo Epstein a favore del personaggio Epstein, cioè del ritratto – questo sì un po’ da fan – che ne fa lo sceneggiatore. Impressione rafforzata dalla presenza di varie citazioni dai brani dei Beatles nei dialoghi. E se l’amore sincero che Tiwary prova verso Epstein si trasmette prepotente attraverso le pagine, specialmente nelle sequenze meglio riuscite, suscitando coinvolgimento e non di rado commozione, l’impressione che il punto di vista dell’appassionato prevalichi spesso quello del narratore, resta forte; così come il sospetto che molte ombre e conflitti siano stati omessi o risolti con troppa fretta. Penso, per esempio, alla passione di Epstein per il gioco d’azzardo – taciuta – o all’incapacità di Epstein come amministratore delle finanza del gruppo – liquidata in tre tavole, o ai suoi tentativi di togliersi la vita.
Gli splendidi disegni di Robinson partecipano a questa ambiguità. Se, da un lato, sono perfetti nel rievocare l’atmosfera e lo spirito di quegli anni – grazie anche ad un efficace uso del colore – dall’altro, nell’approccio qua e là eccessivamente cartoonesco, tradiscono l’eccessiva semplificazione del testo, soprattutto nella resa della mimica dei protagonisti, rappresentati più come maschere che come uomini e donne.
Bisogna però dire che di fronte alla sincerità e alla passione di Tiwary queste discontinuità passano quasi sempre in secondo piano. Credo che il giudizio sul fumetto vada adeguato rispetto alle aspettative attraverso cui ci si avvicina a quest’opera. Se, infatti, come biografia può apparire sbrigativa e lacunosa – anche se gli va riconosciuto il merito di aver compiuto un primo, importante passo per far conoscere questo personaggio – come racconto d’invenzione risulta sincero e appassionante, nonostante alcuni stratagemmi narrativi risentano troppo delle “origini” televisive di Tiwary. Spicca, sopra tutto, il personaggio apparentemente secondario di Moxie, braccio destro di Epstein. Unica invenzione poetica dell’autore realmente riuscita, la cui vera natura è lasciata nell’incertezza – una versione femminile di Alistair Taylor? un demone tentatore? un angelo? Un contraltare di Epstein che il manager rievoca al momento della morte, e che ci mostra il suo lato più disturbato e più umano. Forse, infine, è proprio di lei che si esce dalla lettura un po’ innamorati.
Il Quinto Beatle
di Vivek J. Tiwary, Andrew C. Robinson e Kyle Baker
Panini 9L, 2013
144 pagine, € 9,90