Quando il fumettista Jules Feiffer sbarcò in Italia all’inizio degli anni Sessanta, grazie a due volumi (Il complesso facile, guida alla coscienza inquieta e Passionella e altre storie) curati da Umberto Eco e Cathy Berberian, aveva appena trentatré anni e già una carriera importante alle spalle. Aveva esordito diciassettenne nello studio di Will Eisner, il quale, pur non mostrando una grande ammirazione per le doti artistiche del ragazzo, ne lodava, invece, l’enorme entusiasmo e, soprattutto, la volontà di quest’ultimo di lavorare per una paga irrisoria.
L’iniziale diffidenza di Eisner si tramutò ben presto in ammirazione, rivolta soprattutto alla capacità del collega di tratteggiare personaggi umani e credibili, in particolar modo attraverso le sfumature dei dialoghi. Un “orecchio” particolarmente sensibile che avrebbe caratterizzato gran parte della sua produzione successiva. Dopo dieci anni al fianco dell’autore di The Spirit, serie a cui il nostro collaborò, Feiffer iniziò a lavorare (ancora una volta gratuitamente) per il settimanale newyorkese The Village Voice inaugurando, su quelle pagine, una lunghissima carriera di disegnatore con importanti e in parte inedite influenze derivanti soprattutto dalla danza, dalla letteratura e dal teatro contemporaneo, ambito quest’ultimo, come in molteplici altri, in cui Feiffer ha giocato un ruolo da protagonista. Se, infatti, i lettori nostrani avrebbero imparato a conoscere le sue strisce grazie ai libri poco sopra citati e, soprattutto, a Linus, già nel 1961 l’autore era stato in Italia in occasione del Festival dei Due Mondi di Spoleto, per la prima messa in scena di una sua pièce, Crawling Arnold.
Le disavventure del giovane fumettista ambizioso disposto a lavorare gratis per conquistarsi un proprio spazio non sarebbero continuate a lungo. Anche se non riuscì ad affermarsi immediatamente, la sua capacità di cogliere lo spirito e le contraddizioni dei nostri tempi (con il suo corredo di nevrosi e orrori quotidiani) da un punto di vista altro, spesso laterale, ne avrebbero fatto uno dei fumettisti e dei satiristi sociali e politici più letti di sempre, anticipando molte tematiche e intuizioni che avrebbero caratterizzato la poetica di un autore come Woody Allen e, al tempo stesso, per una questione non solo generazionale, di mantenere una propria originale espressione nel pieno degli anni della controcultura, distaccandosi ma non opponendosi al percorso di altri protagonisti di quel periodo come Robert Crumb.
Ecco dunque apparire Sick Sick Sick (da cui l’umorista Kubrick avrebbe voluto trarre un film), un feroce ma tenero compendio delle nostre nevrosi; Munro, satira antimilitarista in cui un bambino di cinque anni viene arruolato per errore nell’esercito, Tantrum, la storia di un uomo depresso e deluso dalla monotona banalità della propria vita che un giorno si trova trasformato in un bambino di due anni e tanti altri personaggi. Il segno di Feiffer è mutevole ma caratterizzato da un’estrema sintesi, tipica della tradizione del formato striscia, e da una profonda e umana conoscenza della natura e della mimica umane.
I personaggi di Feiffer sono continuamente tormentati e non di rado in movimento. Nelle sue strisce tutto è dinamico, anche in assenza di un’azione diretta. Il segno, che di volta in volta si fa sottile e bambinesco o sporco e stridente (come nel caso delle innumerevoli vignette ritraenti Richard Nixon – come sopra – rappresentato come esplicitamente inumano nella propria lucida malvagità), è molteplice come il suo autore, al punto tale che è difficile parlare al singolare del suo lavoro come fumettista… E non solo.
Sia dal punto di vista grafico che da quello narrativo (come se fosse davvero possibile distinguere i due ambiti), l’approccio in un certo qual modo avanguardista al fumetto di Feiffer avrebbe influenzato in modo incontrovertibile più di una generazione di artisti, creando una schiera infinita di epigoni. Si veda, solo per fare qualche esempio, il debito evidente del suo lavoro nelle opere di autori più o meno a lui coetanei come Tullio Pericoli (in particolar modo in Fulvia), Quentin Blake, Claire Bretécher o Tomi Ungerer, ma anche altri più insospettabili, come il britannico Eddie Campbell e, per altri motivi, il Garry Trudeau di Doonesbury. Il parallelo con l’opera di un illustratore apparentemente molto più solare come Blake potrebbe sembrare campato in aria, ma Feiffer è stato un uomo, come già accennato, dalle molte vite e dai molti successi. Fumettista, certo, ma anche illustratore, romanziere prolifico autore di libri per l’infanzia (disegnati e non), autore teatrale e scrittore cinematografico. Sue, ad esempio, le sceneggiature di Conoscenza carnale (1971) di Mike Nichols, uno dei maggiori successi cinematografici degli anni Settanta, di Piccoli Omicidi (regia di Alan Arkin), ancora del 1971, poi Popeye (1980) di Robert Altman (uno dei film americani meno compresi degli ultimi decenni) e di Voglio tornare a casa (1989) di Alain Resnais, regista particolarmente sensibile al fascino dei fumetti. Feiffer non si è lasciato sfuggire l’occasione neanche di vincere un Oscar per Munro, cortometraggio animato tratto dal suo fumetto, così come le sue attività di autore teatrale e di vignettista sono state ricompensate, oltre che da un largo e ultradecennale successo, rispettivamente da un Obie Award e da un Pulitzer. Inoltre, tornando all’ambito del fumetto, con Passionella, Munro e, soprattutto, Tantrum e altre opere, Feiffer contribuì a rilanciare il meccanismo della comic strip seriale a narrazione continuativo-evolutiva, espediente che permise alle sue opere di essere raccolte in libri – cosa non scontata alla fine degli anni Cinquanta – riservandogli un posto nella storia del fumetto in forma lunga o forma libro.
Alla luce di ciò, l’enfasi con cui alcuni commentatori hanno sottolineato l’approdo, con Kill my mother di cui ci apprestiamo a parlare, di questo storico autore alle coste problematiche del graphich novel sembra per lo meno in parte immotivato. Non lo è, naturalmente, l’astuzia dei signori del marketing, è evidente, ma non ci soffermeremo ulteriormente su questo punto, del resto secondario.
Meglio esser chiari fin da subito: lo stesso Feiffer racconta con coinvolgente entusiasmo questa nuova esperienza e Kill my mother rappresenta qualcosa di sostanzialmente nuovo nella sua produzione. Innanzitutto, per le tematiche affrontate: Feiffer si è sempre mosso nei territori dell’umorismo e della satira (se si escludono i lavori giovanili e in particolar modo la sua collaborazione a Spirit di Eisner) e i suoi libri a fumetti non si offrono come un’eccezione a questa regola. Kill my mother rappresenta certo un punto di svolta nella carriera dell’85enne americano. È, dichiaratamente, un noir per certi aspetti classico, il fumetto che avrebbe potuto essere Il falcone maltese (il film), se fosse stato girato oggi e non negli anni, davvero poco soffocati da preoccupazioni puritane, precedenti all’adozione del codice Hays. Ed è, soprattutto, uno dei libri a fumetti più freschi e sorprendenti mai pubblicati negli ultimi periodi. Nonostante sia pieno di difetti che, coerentemente con il gioco di specchi che contraddistingue la trama, potrebbero non sempre essere tali.
Kill my mother è principalmente, per entrare più approfonditamente nel merito, una storia di donne. Donne come Hannie Hannigan, che incontriamo appena adolescente e in pieno conflitto con la madre Elsie, vedova di un poliziotto che rifiutava di farsi corrompere e al momento della sua presentazione segretaria nell’ufficio di un detective privato, un Marlowe male invecchiato e ancora più disilluso. E, di nuovo, donne rapaci, virago, donne nascoste sotto mentite spoglie e gigantesse dal passato oscuro. Non si vuole dire di più per non svelare la trama di quello che è pur sempre un giallo articolato e pieno di colpi di scena, ma gli elementi che ci si può aspettare di trovare in una narrazione di genere come questa ci sono tutti: omicidi, ricatti, capovolgimenti, inseguimenti, pestaggi, duri da film, travestimenti, drink, bellissime donne e una lenta immersione nel torbido sottosuolo metropolitano e umano al tempo stesso. Inoltre, l’approccio liberale, paritario e in sintesi estremamente moderno dell’autore non mancheranno di suscitare domande e forse persino sdegno nei lettori più conservatori, senza che la visione ideologica sottometta o appesantisca mai la narrazione con eccessi didascalici o intenti pedagogici.
Kill my mother è anche una summa e una sorta di discreto auto-omaggio alla carriera dello stesso Feiffer. Si veda solo l’apertura del volume: la piccola Annie sta ballando al suono di una radio, accompagnata da un suo coetaneo. Il povero ragazzo è completamente sottomesso alle volontà autoritarie dell’amica, già tanto donna quanto lui è ancora bambino. La danza è uno dei leitmotiv grafici di Feiffer, spessissimo è rappresentata esplicitamente (le sue strisce sono piene di personaggi, frequentemente esili donne, che ballano), ma un respiro di tipo coreografico attraversa sotterraneamente gran parte del suo lavoro.
Kill my mother non fa eccezione: questa attitudine è presente non solo in sequenze come quella ricordata o nel capitolo-sequenza (bellissimo) intitolato, appunto, Il ballerino, in cui l’autore mette in scena un combattimento di boxe, ma in un certo qual modo ritorna molto spesso anche nelle pose dei personaggi e nella disposizione delle vignette, finendo per creare persino qualche iniziale difficoltà di fruizione. Le novità dal punto di vista grafico, rispetto alla precedente produzione di Feiffer, sono principalmente due: la presenza degli sfondi e l’utilizzo di una gabbia non regolare.
Più abile a comprendere e quindi a disegnare la figura umana, raramente Feiffer ha disegnato oggetti o tantomeno fondali con i quali i suoi eroi potessero interagire. Qui, anche se i personaggi si muovono spesso ritagliati sul bianco del foglio o contro appena accennati, le tavole sono insolitamente piene e affollate – quasi sinesteticamente rumorose nelle scene di massa –, anche se non sono certo le scenografie a farla da padrone e la poca confidenza dell’autore con questo tipo di rappresentazioni è evidente ma non mascherata.
Se non può o non vuole reinventarsi come un virtuoso della messa in scena scenografica, Feiffer decide di uniformare il suo tratto, deformando vorticosamente le figure umane, rendendole spesso indistinguibili dal contesto con cui si intersecano e dal quale in alcuni casi sembrano generarsi. Non è solo una questione di convenienza, forse. Il nesso di casualità che lega l’ambiente alle azioni compiute dagli uomini che lo abitano è evidente e ancora una volta coerente con la tradizione deterministica e fatalista tipica del noir. Una tradizione, sia chiaro, nei confronti della quale Feiffer da suo pari si ribella. Nell’universo narrativo di Kill my mother pochi oggetti richiamano un ambiente e i personaggi opprimono la tavola a volte fino a soffocarla.
Per quanto riguarda la gabbia, Feiffer sembra in parte recuperare la lezione del vecchio maestro Will Eisner (mentre invece l’amato e personale amico Caniff sembra non avere qui un ruolo preciso). Se Eisner però lavorava nella direzione dell’abbattimento di ogni ambiguità, all’inseguimento di una perfetta leggibilità a cui collaboravano la pulizia del segno, l’equilibrio studiato e armonico dei pieni e dei vuoti, dei bianchi e dei neri e della disposizione delle vignette, con il risultato di una messa in scena per certi aspetti quasi teatrale, tutto in quest’ultimo lavoro di Feiffer pare complottare per ottenere un risultato diametralmente opposto. La struttura delle tavole di Kill my mother è estremamente varia e libera: vignette scontornate, vignette diagonali, personaggi che strabordano da una all’altra, sequenze maggiormente regolari, grandi splash page, creano un flusso di immagini e testo – quest’ultimo a volte espresso in canzoni o in brevi o in brevi blocchi di prosa – apparentemente aritmico e di difficile digeribilità. A ciò va aggiunta l’influenza di un tratto mobilissimo e mutevole che deforma, a volte fino ai limiti dell’irriconoscibilità, i personaggi da una vignetta all’altra.
Il primo approccio è in un certo qual modo disturbante e sicuramente faticoso. La ricerca di una corretta sequenza di lettura richiede una certa pazienza fino a quando, con una naturalezza che inizialmente non si sarebbe creduta possibile, si finisce per capire – una comprensione di natura sensibile prima che intellettuale – che non esiste una sola direzione lungo la quale far muovere lo sguardo, piuttosto una pluralità che costringe a una mobilità di lettura, se non del tutto innovativa, di grande riuscita e su cui l’autore esercita un controllo che desta ammirazione. Alcune delle tavole di Feiffer sono dei veri e propri gorghi per gli occhi, costretti prima a muoversi da sinistra a destra per convenzione, poi, poniamo il caso, diagonalmente per inseguire la sequenzialità dei dialoghi e poi, ancora, su e giù lungo le linee dei corpi longilinei e taglienti delle sue protagoniste femminili, e di nuovo verso il centro, e via, da capo. La concezione eisneriana (e naturalmente non solo) della tavola come un tutto armonico è di certo presente, ma naturalmente – e fortunatamente – sottomessa a questa sorta di percezione turbinosa che perfettamente si accorda con la sovrabbondanza di emozioni, situazioni, stravolgimenti e inganni che la storia racconta.
Un terzo atto un po’ frettoloso e un finale riconciliante (ma ancora una volta orgogliosamente e provocatoriamente in aperta polemica con la tradizione del genere) non rovinano la gioia di un’esperienza che per essere pienamente apprezzata e sensibilmente compresa avrà forse bisogno di più di una lettura.
Kill My Mother
Jules Feiffer
Rizzoli Lizard
155 pagine, colore – 25€