Ricorre in questi giorni il trentennale della morte di Stefano Tamburini, una delle voci più deflagranti nell’intera storia del fumetto italiano. Sceneggiatore, grafico, illustratore, mente dietro alcune delle riviste più importanti della nostra storia editoriale. Vogliamo ricordarci di lui soprattutto per la sua innata capacità di muoversi in qualsiasi campo, nella maniera sottile e discreta di un treno merci lanciato a piena velocità contro un muro di mattoni.
Per raccontarne la storia si potrebbe tornare indietro con il pensiero fino a quel mesto aprile del 1986, per poi ricostruirne a ritroso la carriera. In questa maniera finiremmo però a raccontare un viaggio straordinario partendo dal suo momento più tragico e irreversibile, considerandolo come un’esperienza chiusa e protratta solo verso il passato. Meglio evitare luoghi comuni quindi, e saltare direttamente al dicembre del 2003. Una data forse meno significativa per i più, ma che invece risulta indispensabile per poter comprendere appieno il lascito di questo autore al mondo della narrazione mondiale.
In quei giorni il regista inglese Chris Cunningham rendeva pubblico, tramite il suo sito, di aver finalmente avuto il via libera da parte della Warpfilms per la produzione del suo primo lungometraggio. Basato, pensate un po’, sul secondo volume delle avventure di Ranxerox.
Tanto per capire l’importanza della cosa, vi basti ricordare che nel lustro precedente il giovane regista aveva diretto videoclip per Aphex Twin (Come to Daddy e Windowlicker), Portishead (Only You), Squarepusher (Come on My Selector) e Björk (All Is Full of Love). Spostando ogni volta in avanti la concezione di cosa si potesse fare con questo linguaggio. Aveva inoltre partecipato alla Biennale di Venezia con un pezzo di videoarte, diretto campagne pubblicitarie di culto per Levi’s e Playstation – forse la versione live-action di un manga più fedele di sempre – oltre che vinto tutto il possibile nel mondo della comunicazione.
Insomma, nel 2003 il passaggio di Cunningham dal videoclip al cinema tradizionale era atteso in maniera spasmodica. Dopo Spike Jonze e Michel Gondry – tra i registi più importanti degli ultimi due decenni, entrambi figli del videoclip – era arrivato il suo turno. Ma questa volta era diverso. Perché Chris non era un ricco autore di video skate diventato il genero di Francis Ford Coppola, e neppure uno stralunato francese cresciuto alla corte di Björk. In questo caso parliamo di un ragazzo che a ventidue anni collaborava con David Fincher sul set di Alien 3 e, al contempo, non rinunciava a disegnare a livello professionistico. Dalle copertine per 2000 AD a interi numeri di Judge Dredd, tanto per non allontanarsi troppo dal tipo di cinema che lo vezzeggiava sempre più. Questo a dimostrazione di come Chris Cunningham fosse – e penso lo sia tutt’ora – un grandissimo appassionato di fantascienza a fumetti.
Oltre a un CV imbarazzantemente splendido, Chris aveva dalla sua qualcosa che non dipendeva dalle collaborazioni o dai lavori precedenti, ma da anni di letture pregresse. Un’autentica ossessione per il post-umano, maturata in anni di frequentazioni fumettòfile. Nel suo mondo non esistevano persone normali, ma solo droidi alla Mamoru Oshii, mutanti o strani scherzi della natura. Gran parte del suo successo derivava proprio dalla capacità di immaginarsi queste derive umanoidi e di metterle in scena con una credibilità quasi impareggiabile. Per farvi capire di che livello si stia parlando: a soli venticinque anni Stanley Kubrick lo voleva come consulente sul set di A.I. – Intelligenza Artificiale proprio per la sua abilità nel tratteggiare automi impossibili.
In quel dicembre 2003 scoprimmo quanto l’opera di Tamburini e Liberatore potesse aver ispirato quel mostro sacro. Non è mai bello celebrare la grandezza di un artista italiano cercandone la conferma nello sdoganamento all’estero. Si rischia sempre di fare la figura di quelli che ancora oggi chiedono a Tarantino cosa ne pensi dei polizieschi anni Settanta. Eppure, in quel caso, non si parlava di omaggi o di una dichiarazione di comodo durante un‘intervista promozionale. Uno dei più grandi registi di videoclip della storia voleva affidare il suo debutto nel mondo del cinema a un fumetto italiano. E non solo ispirandosi a quelle pagine così ricche di idee e picchi visionari, ma girandone proprio la versione live-action. Non poteva esserci dichiarazione d’amore più sincera.
Dopotutto in Ranxerox si parlava di un essere artificiale, un droide ultra-violento grottescamente derivato da una fotocopiatrice, a cui veniva data forma indimenticabile grazie alla tecnica sublime di uno dei più grandi disegnatori di fumetti sulla piazza. Concettualmente nulla di così diverso dal vedere il musicista Aphex Twin trasformarsi, grazie a un ottimo lavoro di make-up e post-produzione, in una mostruosità traslucente partorita da un televisore.
In ogni caso, il film alla fine non si fece più. Cunningham sparì dai radar se non per qualche sparuto esperimento, o per rari – e pagatissimi – lavori su commissione. In più, da lì a cinque anni, l’esplosione del primo Iron Man avrebbe reso completamente vano ogni tentativo di girare un cinecomic non completamente asservito al pubblico dei multisala. E se non ne siete convinti chiedete a Pete Travis di parlarvi del suo Dredd.
Eppure, almeno per un po’, è stato bello credere che qualcuno stesse per riuscire a imprimere sulla celluloide le convulse avventure di quel bestiale coatto sintetico. Un personaggio che, alla faccia di tante finezze narrative, debutta sul palcoscenico del fumetto italiano – Cannibale n.3 del 1978 – colpendo un infante con un pugno in pieno volto e sparando in bocca a un ricettatore per puro sollazzo.
«La vòi provà n’emozzione nòva pè 800 lire?» ammiccava minaccioso, ancora dotato di proboscide, dalla copertina di Cannibale n.4. Come se fosse conscio della sua essenza di alieno destinato a conquistare gli scaffali delle librerie a fumetti di mezzo mondo, nonostante la sua fosse una brutalità mai vista prima.
Una cosa del genere non si era vista neppure nel florido mercato italiano del decennio precedente, abituato agli eccessi del fumetto nero. Violenza, sesso, droga, nessuna voglia di giustificarsi o di dare al tutto una spiegazione consolatoria. Pensare che questo sarebbe stato portato al cinema da qualcuno arrivato a quel punto della sua carriera, proprio partendo da ispirazioni come Ranxerox, allontanava in modo definitivo la minaccia di una poverata alla Spawn di Mark A.Z. Dippé. Eravamo certi che si sarebbe trattato di qualcosa di enorme. Avremmo visitato la caotica Roma multilivello, brulicante di vita, così come appariva su quelle pagine. Avremmo conosciuto lolite tossicodipendenti, partecipato a risse disumane.
Ma se l’aspetto estetico era in ottime mani, il lavoro di adattamento degli sceneggiatori sarebbe stato tutto da vedere. Riuscire a stare dietro all’apporto di scorrettezza estrema e alla gestione del ritmo di Tamburini, è una fatica che non auguro a nessuno. Le sue storie erano convulse, piene, stipate di roba. Riusciva a far stare in un pugno di pagine quello con cui altri autori avrebbero riempito centinaia di tavole. In tutto il suo lavoro – dalle grafiche di Cannibale e Frigidaire ai suoi deliranti articoli musicali – l’impatto devastante era la priorità. L’ipotesi di perdere tempo circuendo il lettore, magari facendolo smarrire in raffinati labirinti di specchi, era impensabile.
La cosa meravigliosa è che non c’era differenza tra quello che raccontava e il suo approccio alla creatività. Rileggendo le testimonianze di chi gli è stato accanto, pare che nel suo taccuino dei progetti ancora da realizzare fossero rimaste linee di moda, musical rock e, naturalmente, un sacco di altri fumetti. La scelta di lavorare con un minuzioso come Liberatore l’avrà sicuramente premiato dal punto di vista artistico, ma penso l’abbia fatto soffrire come un cane da quello emotivo. Forse furono proprio le snervanti attese tra un tavola e l’altra del disegnatore abruzzese a spingerlo alla creazione di un fumetto come Snake Agent, passando dalle matite di quello che veniva definito come “il Michelangelo del fumetto” alla fredda esecuzione di una fotocopiatrice.
Per dare forma al suo nuovo eroe, Tamburini prese delle vecchie strisce dell’Agente Segreto X-9 di Alex Raymond e Dashiell Hammet e ne svuotò i balloon. Incominciò a fotocopiarle, strisciandole sul vetro della macchina e ottenendo un risultato strepitoso. Si trattava, con tutta probabilità, del fumetto dalla lavorazione grafica più rapida della storia – il tempo di premere un bottone. In più, al suo interno, riuscì a ottenere effetti di movimento sia funzionali alla narrazione sia legati ai meccanismi produttivi di questo suo lavoro.
Non c’è da meravigliarsi se tra gli autori del fumetto veniva inclusa anche la stessa Xerox 3017 su cui aveva lavorato. Il risultato di tale unione sacrilega veniva spacciato come “il primo tentativo di fumetto dove la figura del disegnatore risultasse completamente obsoleta”. Il tutto, naturalmente, non era fine a se stesso. Era un ottimo modo di eludere le sue lacune di disegnatore, ma si intrecciava in maniera indivisibile con quello che le pagine andavano a raccontare.
Prendiamo l’episodio di debutto. Nella prima pagina Snake Agent lascia la moglie – «Betty, sei la solita cagna in calore» è il suo romantico commiato – e “in tre decimi di secondo” raggiunge l’aeroporto. Un minuto dopo il suo aereo decolla, trovando comunque il tempo per una riunione con un generale della Difesa, e da lì avrà solo tre ore per sventare una cospirazione mondiale. Due pagine dopo il suo volo sarà stato abbattuto, il Nostro eroe scamperà alla tragedia, avrà svelato il piano malvagio del dittatore Junkie Bocchi, sarà tornato a New York e in pochi decimi di secondo avrà dichiarato il suo amore per la fedele Betty. Tre secondi dopo sarà di ritorno dallo ‘stato canaglia’, intenzionato a mettere definitivamente la parola fine alla minaccia globale. La guerra scoppierà lo stesso, e ci sarà anche il tempo per una morale finale (molto sui generis). Fine. Cinque tavole totali. Questo sarà il ritmo di tutte le avventure di Snake Agent, da Complotto Nazista all’allucinato prologo a colori di 1984 fino all’ultimo episodio Rap-pa-loo a sangue Mix.
Per un fumetto realizzato in fretta occorrono sceneggiature che reggano adeguatamente il ritmo, portando il discorso iniziato con Ranxerox a un punto di non ritorno. Siamo nel campo della pura avanguardia, seppure lo spirito iconoclasta di Stefano Tamburini non riesca a fare a meno di riferimenti a droghe di ogni tipo, insulti sessisti e offese assortite.
L’eredità di un tale esperimento è stata enorme. Ha posto fondamenta indispensabili per l’avvio di tutto il filone dei “fumetti disegnati male”, che ancora oggi si dimostra tanto vitale. L’apparenza naïve e quasi puerile delle tavole e le trame scombiccherate vanno a schiantarsi contro dialoghi brutali, generando un cortocircuito esilarante. Si tratta di un’esperienza fulminante che, nuovamente, punta tutto sul far mancare la terra sotto ai piedi del lettore. La sfida al consueto da parte di Stefano Tamburini era una ragione di vita, come se la continua battaglia con le aspettative del pubblico non potesse mai rallentare.
Il primo numero di Frigidaire ne è una chiara testimonianza. Dare forma a una nuova rivista potendo contare su disegnatori straordinari come Liberatore, Pazienza, Scòzzari o Mattioli e decidere poi di affidare la primisisma copertina a un collage di cartoncini colorati, sembrerebbe una cosa da pazzi. Eppure quell’illustrazione, a opera dello stesso Tamburini e inserita in una gabbia grafica da lui sviluppata, è ancora oggi una delle più iconiche della storia del fumetto italiano. Così potente da fare scuola e generare un intero filone di imitazioni, secondo quanto riportato da Gianfranco Grieco nel volume Banana meccanica. Un anno dopo, il poliedrico artista Sylvano Bussotti deciderà di omaggiarla facendosi fotografare in una versione in carne e ossa della stessa, con tanto di sfondo giallo e pittoreschi occhiali da sole. A conti fatti, una serie di risultati di tutto rispetto per essere l’unico del gruppo a non saper disegnare.
Tutta la grandezza di Tamburini stava lì, nell’insinuarsi in quegli interstizi dove nessuno sarebbe andato a cercare. Se le sue abilità con la matita scomparivano rispetto alla tecnica dei suoi compagni di viaggio, allora tanto valeva sfruttare ogni altro appiglio gli si offrisse. Aspetti poco considerati dai non addetti ai lavori diventavano, nelle sue mani di febbrile autodidatta, strumenti di comunicazione da piegare, distruggere e riprogettare a proprio piacimento. Rimanendo sempre fedeli – nonostante Tamburini non fosse proprio sordo al richiamo dei soldi – a un’etica incapace di adagiarsi sui richiami del mercato generalista.
Nel 1980 in Inghilterra il designer e art-director di Vogue, Terry Jones, fondava la bibbia dello stile giovanile i-D, cambiando per sempre la concezione visiva di magazine. La sua intuizione, ancora oggi autentica gallina delle uova d’oro sfruttata allo sfinimento in ogni ambito, fu quella di impregnare qualcosa di banalmente “ben fatto” con una ruvida attitudine do-it-yourself. «Volevo realizzare l’idea di un magazine che prendesse ispirazione dalla strada e dalle frivolezze multiformi che ci bombardano ogni giorno» diceva nel 2006 ai microfoni di Bloomberg, in occasione della retrospettiva dedicatogli presso il Chelsea Art Museum di New York. Nel 2013 gli verrà riconosciuto, sempre per gli stessi motivi legati all’enorme contributo dato all’industria da i-D, l’Outstanding Achievement Award della settimana della moda londinese.
Da parte sua Tamburini, che se ne fregava altamente di pagine patinate e velleità da rivoluzionari ben pasciuti, applicava già da qualche anno le stesse, identiche intuizioni tipografiche in campi ben più antagonisti. Dalla numerazione ballerina di Cannibale – che parte dal numero 3, scavalcando direttamente 1 e 2, per poi racchiudere 4, 5, 6 e 7 nella stessa uscita – all’impaginazione destrutturata dei sommari, passando alla potenza della testata di Frigidaire a gabbie tipografiche rotanti. Perfino gli inserti pubblicitari sul Il Male venivano travolti dalla sua foga. Chissà cosa avrebbe pensato nel vedere le sue idee di impaginazione diventare, ancora oggi, la prassi nei costosi magazine da concept-store.
In questi giorni cade il trentennale della sua morte. Un periodo di tempo tre volte più ampio di quanto Stefano Tamburini sia stato effettivamente attivo. In questo articolo abbiamo parlato pochissimo della persona, concentrandoci piuttosto su tre dei suoi lavori più riusciti – Ranxerox, Snake Agent e il disegno grafico –, dimostrando quanto non siano invecchiati neppure di un giorno. Ancora oggi tutti sogniamo di vedere Ranxerox al cinema, ridiamo della brutalità di fumetti estemporanei e privi della nobiltà del bel disegno, e prendiamo a esempio di modernità certe sue impaginazioni sviluppate quando ancora i software per il desktop publishing erano allo stato embrionale.
Quando un autore è stato in grado di lasciare dietro di sé un bagaglio di idee così vivido è inutile appellarsi alle solite agiografie romanzate. Piuttosto, è meglio ricordarsi quanto sia importante cercare di spostare un po’ più in là l’asticella del consueto ogni volta se ne abbia la possibilità. Stefano Tamburini non ne ha mai perso l’occasione. E i risultati li vediamo ancora oggi.
*Si ringrazia Michele Mordente per le fotografie di Stefano Tamburini