Alberto Pagliaro inizia presto a pubblicare per le maggiori riviste, Selen, Kaos, Shock Magazine, Baribal, Next Exit, Black, Blue e Maxim. Nel 1998, a 26 anni, è il vincitore del premio internazionale Kaos Art Contest. Dal 2000 collabora con la più importante editoria fumettistica internazionale. Nel 2006 fonda la Premiata Officina Pagliaro, attraverso la quale realizza e produce videoclip, musica, fumetti e illustrazioni. Collabora con il Vernacoliere e insegna alla Scuola Internazionale di Comics di Firenze.
Alberto, potresti raccontarci gli anni della tua formazione e quali sono stati i tuoi primi lavori?
Ho frequentato l’Istituto d’Arte di Porta Romana a Firenze, dove mi sono diplomato in moda e costume. Devo tutto alla mia scuola e a quei pochi insegnanti che hanno creduto in me. Sono stati anni complessi e a tratti dolorosi, anni che iniziai a raccontare e a vivere attraverso il fumetto, realizzando storie strampalate illuminate dall’arte di Pazienza, Moebius e Liberatore, una versione a fumetti del Tumulto dei Ciompi, fino a che non arrivai ad essere responsabile dell’inserto satirico del giornale dell’occupazione.
Finita la scuola presi parte al progetto “Maivista”, un collettivo che riuniva fumettisti, illustratori, fotografi e scrittori e che dette vita a tre numeri della rivista omonima. Parallelamente iniziai a collaborare con lo Shok studio e la rivista Kaos, illustrando storie a tema fantasy. Poco dopo arrivarono le mie prime storie erotiche per la rivista Selen. Poi il nulla. Mi presi una pausa di molti anni. Non smisi di disegnare, smisi soltanto di cercare la pubblicazione. Non amavo le mie opere, perché fondamentalmente non amavo me stesso. Compresi che dovevo vivere meglio, vivere il fumetto come unica ragione di vita, fare ricerca, disegnare tonnellate di tavole e studiare il francese…
Lavori spesso per la Francia. Quali sono le differenze più spiccate rispetto all’editoria italiana?
In Italia sono pochissime le case editrici in grado di pagare bene i loro autori, come per esempio fanno Bonelli e Disney. Per mia sfortuna, non avendo le capacità che mi permettessero di lavorare con loro, sono stato costretto a rivolgermi al mercato francese, riuscendo negli anni a pubblicare con tutte le più importanti case editrici, come Casterman, Delcourt, Dargaud, Kstr e Dupuis. Case editrici enormi, aperte ad ogni forma di stile e in grado di pagare i loro autori.
Aggiungo però che presto realizzerò anch’io qualcosa con Bonelli, ma non posso entrare nei dettagli. Ovviamente sono felicissimo.
Presto realizzerai un Alice in Inghilterra: è stata una tua proposta o si tratta di un incarico?
Si è trattato di un incarico arrivato tramite la mia agenzia, quindi totalmente inaspettato. E aggiungo che mi hanno fatto firmare il contratto senza vedere ancora niente di mio su Alice. Speriamo bene, perché si tratta di un fumetto di 40 pagine da realizzare in pochissimo tempo. Paura.
Tornando in Italia: che ruolo ha avuto la collaborazione con il Vernacoliere nella tua carriera?
Importantissimo. Pensa che a un certo punto mi sono ritrovato le mie Storie Partigiane in finale al Napoli Comicon nella categoria miglior serie italiana. I partigiani del Vernacoliere contro Tex Willer, una cosa assurda. Ovviamente vinse Tex, però me ne tornai a casa con la consapevolezza che, al di là dell’aspetto comico di quello scontro epico, ero riuscito a creare un legame con altre persone, attraverso qualcosa di intimo e personale, perché in fondo è questo che sono le mie storie partigiane.
Il fumetto storico-civile. Il primo, seriale, I figli della schifosa, nato sulle pagine del Vernacoliere. Come nasce il tuo interesse storico?
Era nell’aria, dopo anni passati a vedere il fumetto solo come una via di fuga dalla realtà, finalmente sentivo l’esigenza di raccontarmi. Poi un giorno, ritrovandomi davanti una lapide con scritta la lettera di Calamandrei al federmaresciallo Kesserling, quell’esigenza ha preso la forma e la forza delle mie storie partigiane.
Quale aspetto della storia partigiana ti premeva più trasmettere? E come credi di averlo risolto a livello narrativo?
Non ho ragionato su niente, ho scritto e disegnato quello che mi passava per la testa in quel momento, poi a freddo mi sono reso conto che avevo comunque fatto delle scelte. Ma in quel momento dovevo agire velocemente, perché la serie è partita all’improvviso e in modo totalmente inaspettato, e in quel periodo, dovevo realizzare altri fumetti, per circa 22 pagine al mese.
Quelle storie le ho fatte combattendo contro il tempo in treno tra Firenze e Livorno, ma era importante per me: diventare un autore completo era un mio obiettivo. Nelle mie storie non si vedono né scene di violenza, né – fatta eccezione per due storie – si vedono dei soldati. Nelle mie storie non esiste la guerra, ma esiste la sua ombra, quel senso di oppressione che rende gli uomini vittime ma allo stesso tempo ne sveglia l’istinto di sopravvivenza, la lotta, l’ironia, la voglia di vivere.
Parliamo de La Mano. Un libro sugli anni di piombo per il mercato francese, è un’idea di Thirault o tua?
Il mio editore francese cercava un tema che potesse riguardare e coinvolgere la storia di entrambi i paesi; io pensai subito alla legge Mitterand e ai tanti brigatisti scappati in Francia, quindi sì: è stata una mia idea, anche se poi mi sono confrontato con Thirault, il mio sceneggiatore. Il tema mi ha sempre interessato, un po’ perché, essendo del 1972, molti di quei fatti tragici li ho visti raccontati alla televisione e alla radio, un po’ perché negli anni mi ero letto alcuni libri e avevo approfondito così l’argomento.
Come si affronta un periodo così delicato e controverso della storia contemporanea, ben diverso dalle storie partigiane, almeno per uno della tua generazione?
Lo si fa in punta di piedi perché il tema è controverso ancora oggi. Noi abbiamo scelto da subito di romanzare quella storia dolorosa, perché l’aspetto che più ci interessava raccontare era quello umano, personale. Comprendere meglio il perché di quella scelta radicale e scellerata.
In Francia il primo volume è andato abbastanza bene, poi purtroppo, con il sopraggiungere della crisi economica, l’editore ha scelto di non investire più sul progetto, che si è poi concluso con un secondo volume.
*Questo articolo è un’estratto da un’intervista condotta da Laura Scarpa e pubblicata su Scuola di Fumetto 100.