«Ci sono delle regole precise che vanno rispettate se si vuole sopravvivere in un horror, va bene? E vado a cominciare: numero uno, mai fare sesso […]. Numero due: mai ubriacarsi o drogarsi […]. Numero tre: mai, mai e poi mai, in nessun caso, dire “Torno subito”, perché non si torna più!».
Le parole di Randy in Scream, il film che ha rilanciato e riscritto le regole del genere horror per mano del futuro creatore di Dawson’s Creek e The Vampire Diaries Kevin Williamson, sono il punto di partenza di tutti i racconti horror che si rispettino. Al cinema e in tv. Le serie adottano linguaggi codificati. Prendono dei parametri standard, li rielaborano e se ne servono per lasciare il segno. Lo hanno fatto Joss Whedon con Buffy e Angel, Chris Carter con X-Files e Millennium e, molto tempo prima, lo aveva fatto Gene Roddenberry con Star Trek.
Le regole funzionano solo quando si conoscono così bene da poterle riscrivere, rimaneggiare, magari infrangere. Joss Whedon, Chris Carter e Kevin Williamson – tanto per citare tre fra gli autori cine-televisivi contemporanei più importanti – sono profondi conoscitori delle regole dei generi che hanno deciso di rilanciare, mescolare e riscrivere. Dall’unione di generi diversi volutamente costruiti su cliché, che da un lato omaggiano il genere e dall’altro forniscono un prezioso strumento di linguaggio universale (sono cliché proprio perché tutti li conoscono e li riconoscono), nasce il prodotto di culto. Dal mix di generi diversi, conditi da citazioni e riferimenti alla cultura pop della quale, si noti bene, i fumetti sono una delle colonne portanti, nasce il mito. Star Trek, Buffy, X-Files, Breaking Bad, Il trono di spade. E, naturalmente, The Walking Dead.
Robert Kirkman si è dimostrato un profondo conoscitore del genere horror e del sottogenere zombie. Con il suo fumetto ha raccontato una storia avvincente, piena di colpi di scena e già ricca di quell’approfondimento psicologico che la serie tv ha scelto come marchio di fabbrica. Frank Darabont, Glen Mazzara e Scott Gimple si sono avvicendati dietro le quinte della trasposizione tv di The Walking Dead, che ha inevitabilmente sofferto i cambiamenti al timone della serie. Senza mai lasciare, però, che cambiasse registro: la storia è quella di un gruppo di uomini costretti a confrontarsi con loro stessi, sullo sfondo di un mondo dominato dagli zombie. The Walking Dead narra le vicende di uomini e donne messi continuamente alla prova, nel tentativo di ricostruire una morale, quando tutto ciò che conoscevano e in cui credevano è stato cancellato. Il fulcro della storia sono loro, i personaggi, che appassionano per un solo, semplicissimo fattore: la loro disarmante umanità, contrapposta alla disumanità della “macchina” zombie. Lo zombie è l’essere che si muove spinto solo dall’istinto, l’essere implacabile di cui parlavamo prima: non ragiona, ma soprattutto non deve fare i conti con la propria coscienza.
I protagonisti di The Walking Dead non sono gli zombie, bensì gli uomini e le donne costretti a confrontarsi con la parte più oscura della propria anima. Per questo l’adattamento dei fumetti ha conquistato un pubblico così vasto e inusuale per una zombie story. Il target di The Walking Dead si è allargato a dismisura, includendo porzioni di pubblico inusuali per il genere principale a cui fa riferimento. I dati d’ascolto ci dicono che a seguire la serie tv ci sono molte donne (che, con le dovute eccezioni, spesso disdegnano lo zombie movie o l’horror in generale), persone di una certa età (una coppia di ultrasessantenni mi ha scritto per raccontarmi la passione per The Walking Dead) e insospettabili amanti dei film in costume (l’eclettismo è tutto, culturalmente parlando: ne sono convinta da sempre), che si sono ritrovati incollati al piccolo schermo, a una “storia di zombie”, dopo aver disprezzato il genere per decenni.
L’horror, fin dagli albori del cinema, ha vissuto una doppia vita, diviso fra l’attrazione esercitata sul pubblico e l’ostruzionismo da parte degli esponenti della cultura. La critica ufficiale, i premi prestigiosi e le testate più autorevoli l’hanno tacciato per decenni di essere osceno, diseducativo e immorale. In una parola, “sbagliato”. Avete forse visto le serie horror più amate e seguite vincere un Emmy per la migliore serie tv? No. Non senza stratagemmi, come l’inserimento nella categoria delle miniserie o i premi agli interpreti, nel caso di American Horror Story. Tanto per dare un “contentino” a prodotti di grande successo (e valore) senza intaccare lo scetticismo nei confronti di un genere. Un genere che The Walking Dead ha contribuito a celebrare in tv come pochi altri suoi predecessori.
Le serie televisive più riuscite hanno un elemento in comune: costruiscono un universo “nuovo”, con le sue regole e le sue leggi, relazionandosi al tempo stesso con il mondo reale, quello che tutti conosciamo. Le differenze fra le tecniche investigative usate dai personaggi nelle serie poliziesche e quelle realmente adottate dalla polizia sono l’esplicita dichiarazione del bisogno di drammatizzare la realtà per renderla più appetibile agli occhi del pubblico. Quante volte abbiamo visto un film che affermava di raccontare una vicenda “tratta da una storia vera”, ma “modificata per necessità drammatiche”? La realtà, per quanto fantasiosa, spaventosa, tragica o divertente – a seconda del tipo di storia raccontata – non è mai sufficiente. La realtà è noiosa, anche quando parla della caccia a un criminale incallito o di una rapina in banca. Ecco perché le tecniche investigative in tv sono diverse da quelle reali: sono più veloci, più immediate, più adattabili alle necessità narrative. Esattamente come le emozioni tanto criticate che scaturiscono dai film horror. Perché di questo si tratta: di emozioni.
Turbamento, scandalo, provocazione, sfide alla morale. L’horror si nutre di questo, da sempre. Soprattutto, però, si nutre della più forte fra le emozioni che uno spettatore possa provare: la paura. E, se la paura più grande è quella della morte, allora sì che cominciano i guai. La feroce critica sociale dei film di George A. Romero, all’epoca della loro uscita, ha fatto gridare allo scandalo, ma anche al capolavoro. Proprio come accade con The Walking Dead.
Molti si chiedono come facciamo a guardare “quella schifezza lì”. Moltissimi altri hanno visto oltre la superficie e hanno capito: tutte le tematiche più importanti passano attraverso la voce o le azioni dei protagonisti. Si parla di religione, di scienza, di soprannaturale, di moralità e di un mondo che deve reinventarsi. Ci sono la rilettura della storia (vedremo più avanti come Terminus ricordi la macchina dello sterminio nazista, per esempio), l’adattamento delle strategie militari alla vita quotidiana, la necessità di mantenersi in forma senza i beni primari e quella di confrontarsi con la scomparsa della cultura, dell’arte e di ogni forma d’intrattenimento.
Come il mix di generi diversi crea un prodotto di culto, il mix di esperienze e competenze diverse crea la “famiglia allargata” perfetta per raccontarci l’agonia di un mondo che non c’è più, ma che ha qualcosa in comune con quello che prende il suo posto: gli esseri umani. Cambiano i tempi, la tecnologia e gli stili di vita, ma l’animo umano è sempre lo stesso. Eppure, non ci annoia mai. Ha ancora qualcosa da dirci. Ha ancora limiti da superare e possibilità da esplorare.
Gli uomini sono sempre uguali, creature mortali e imperfette. La morte li accomuna. La morte è democratica, perché riguarda tutti. The Walking Dead, di conseguenza, è una serie democratica: si rivolge a tutti perché, in un certo senso, riguarda tutti, proprio come la morte e la natura profonda dell’uomo. Che ci piaccia oppure no.
*Articolo di Chiara Poli, pubblicato nel saggio C’è un solo leader, in libreria dal 25 settembre per Saldapress.