HomeFocusProfiliDiventare adulti nel Giappone rurale. Intervista a Jirô Taniguchi

Diventare adulti nel Giappone rurale. Intervista a Jirô Taniguchi

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Rizzoli Lizard ha pubblicato Si chiamava Tomoji, il nuovo fumetto di Jirô Taniguchi, tra i più apprezzati mangaka contemporanei. Ispirandosi all’esistenza di due personaggi reali, fondatori di un’importante branca religiosa del buddismo, Taniguchi traccia il ritratto di Tomoji Uchida, una ragazza adolescente che cresce nel Giappone rurale tra le due guerre, e del fotografo diciannovenne Fumiaki Ito. Dopo un incontro mancato, i due si ritrovano sette anni dopo per innamorarsi.

Di seguito presentiamo un’intervista a Taniguchi sulla genesi del volume, sul periodo storico trattato, sulle sue influenze e le particolarità dei personaggi.

Leggi l’anteprima di Si chiamava Tomoji

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Quali circostanze l’hanno spinta a concepire Si chiamava Tomoji?

L’origine della storia è legata a un tempio buddista nella regione di Tokyo. Mia moglie lo frequenta assiduamente da circa trent’anni, e anche io ogni tanto, anche se non sono un assiduo praticante. Col tempo, siamo diventati presenze familiari in questo luogo, e ciò ha spinto coloro che lo animano a propormi di disegnare qualcosa per il loro bollettino trimestrale. L’idea era semplice e chiara: dare valore a ciò che rende particolare questo tempio, e far conoscere meglio la personalità e il percorso della sua creatrice, Tomoji Uchida. Credo che chi mi ha proposto l’idea abbia pensato che, essendo in calo la pratica della sua lettura tradizionale, il fumetto potesse essere un buon supporto per il progetto. Ho accettato. Ma a patto che fosse a modo mio.

Cosa intende dire?

Lanciarmi in un lavoro agiografico non mi interessava, tanto meno restare nei limiti di una fedele biografia. Avevo avuto modo di farmi un’idea sommaria della vita di questa donna leggendo alcune pubblicazioni che il tempio le ha dedicato, e ciò che è emerso chiaramente da tali letture è che non potevo aspirare a realizzare un manga solido basandomi solo su semplici fatti biografici. Tutti gli episodi di una vita umana, anche se intensa e appassionata, non sono necessariamente accattivanti. Un’infanzia, per esempio, è un’infanzia, non è necessariamente interessante in sé. Per comporre una storia che funzioni, è necessario ricorrere alla fiction. È quello che ho proposto ai miei interlocutori prima di accettare la loro proposta: poter romanzare in maniera libera. Improvvisamente, ho cancellato quasi tutto ciò che riguarda il tempio e la sua creazione – la menziono solo di sfuggita nell’ultima pagina della storia – per concentrarmi sulla parte della vita di Tomoji che precede quell’avvenimento. Il punto di vista che ho scelto, se volete, è il percorso che ha modellato la personalità di Tomoji, e che alla fine l’ha spinta a scegliere la via della spiritualità.

E per concretizzare questo approccio, ha scelto di rivolgersi a uno sceneggiatore…

Questa scelta è il frutto di due limitazioni: da una parte la scarsità di tempo, essendo la mia agenda professionale molto fitta e dall’altra la mia insufficiente conoscenza del soggetto da trattare. Mi ero documentato abbastanza, ed ero stato nella regione di Yamanashi, dove si svolge il racconto, con lo scopo di rappresentarne correttamente la geografia e la storia, ma anche così, l’incertezza persisteva: mi chiedevo se sarei riuscito a costruire un racconto soddisfacente a partire da elementi che padroneggiavo solo in parte. Potermi appoggiare a uno sceneggiatore mi è sembrata, sotto tutti i punti di vista, una buona soluzione. È stato chiamato Miwako Ogihara, uno sceneggiatore esperto, che si è distinto lavorando per la televisione.

A eccezione dell’adattamento del romanzo di Hiromi Kawakami, Gli anni dolci, è una delle rare volte in cui si concentra su un’eroina e non su un personaggio maschile…

Proprio per questo ho pensato che focalizzarsi su un personaggio femminile potesse essere stimolante! Ne Gli anni dolci, si tratta di una donna adulta, di cui seguiamo le vicende in un breve periodo della sua vita. Il caso di Tomoji è molto diverso: il personaggio principale è una bambina che diventa adulta. La vediamo costruire passo dopo passo la sua identità, le sue espressioni, quelle che poi perdurano nel corso degli anni quando il suo corpo evolve e si trasforma… Non avevo mai affrontato questa modalità di rappresentazione del tempo, e ho scoperto che è molto difficile. Anche la messa in scena del racconto si è rivelata complessa: far muovere Tomoji in modo convincente nel contesto della sua epoca, con i suoi oggetti, il suo stile di vita, il suo ambiente… Credevo di essermi allenato abbastanza in questo tipo di lavoro con Ai tempi di Bocchan, ma in Si chiamava Tomoji, ho capito che era ancora una sfida.

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Perché questa minuziosa elaborazione dei personaggi è così importante per lei?

Perché un personaggio possa realmente esistere in una storia è fondamentale che sia credibile, che sia giusto. Trattandosi di Tomoji, ci tenevo ancora di più perché questo genere di personaggi e la loro storia sono un po’ un archetipo, una figura universale per noi giapponesi. Ci sono molti percorsi di vita e storie di donne simili in Giappone, almeno in quell’epoca. Il nostro era un Paese povero, e i destini simili al suo – esistenze frugali e molto semplici spesso disseminate di insidie – abbondavano. Era la consueta vita della gente in quel periodo. Inoltre, la necessità di essere preciso mi sembrava ancora più importante perché, trattandosi di un contesto storico scarsamente documentato, rischiavamo spesso di incappare in errori anacronistici.

A proposito della scelta di trattare tale epoca. Nelle sue storie, fino ad ora, lei non ha mai raffigurato il periodo Taishô. Perché e come ha affrontato questo periodo particolare della storia giapponese?

Era proprio uno degli interessi più forti nel progetto. Mi documento su Taishô da molto tempo. È un “periodo-cerniera” molto breve tra il Meiji e lo Shôwa, altrettanto caotico, mi pare, ed è per questa ragione che lo trovo interessante. Forse ancor di più perché nel mezzo c’è questo grande evento che è il terremoto del 1923. In un primo istante, il mio punto di riferimento su Taishô era il pittore Takehisa Yumeji, un artista che con il proprio lavoro testimonia l’attualità di quel tempo, specialmente il terremoto e le sue conseguenze. Avevo iniziato a raccogliere materiale e documenti sul tema, forse per trarne una storia, prima o poi. Alla fine non è stato Yumeji ma Tomoji: il materiale era lì, mi è stato utile.

Quello del terremoto del 1923 è un buon esempio per illustrare il modo in cui ha cercato di romanzare la biografia di Tomoji Uchida. Lei ha insistito per aggiungere questo avvenimento che all’inizio non compariva.

Sì, è così, per me era un elemento di drammatizzazione del racconto. Detto ciò, non ho certo corso un grande rischio procedendo in questo modo: il ricordo di quella scossa del 1923 è ancora vivo nella memoria collettiva giapponese. A maggior ragione dopo gli avvenimenti più recenti del marzo 2011, che ci hanno ricordato fino a che punto viviamo in grembo a una natura aspra e pericolosa.

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In Si chiamava Tomoji lei dipinge, aspetto inconsueto nella sua opera, un Giappone rurale. È rimasta qualche traccia di quel Giappone ancora oggi, o è solo un ricordo?

Credo che esista, sì, anche se senza dubbio in una versione meno ruvida e meno povera. Ma d’altra parte, si percepisce che la popolazione di quel Giappone invecchia. Non è sicuro che possa perpetuarsi ancora a lungo.

Oltre a dipingere un’epoca e un particolare ambiente, Si chiamava Tomoji, non è forse, prima di tutto, la cronaca della nascita di un sentimento amoroso?

Sì, certo, lo è. È il racconto dell’incontro tra due persone che vedono le stesse cose, vivono gli stessi avvenimenti, e finiscono per avvicinarsi. Ai miei occhi, è molto romantico. Anche solo perché la loro storia d’amore si svolge in modo delicato e poco esplicito – come prevedeva l’etichetta: qualche scambio di lettere, un breve viaggio in auto… Era molto casto, ma per l’epoca era l’espressione di un amore forte. Col senno di poi mi dico che, in fondo, questo, escluso forse Gli Anni dolci, è il primo libro in cui affronto un tema simile.

Lei parla di un amore molto contenuto e, in effetti, in Si chiamava Tomoji, più ancora che nelle sue altre opere, è questo il tratto dominante: una costante parsimonia di mezzi e una grande sobrietà nell’espressione. È il punto di approdo della sua arte oggi?

Quando ho imbastito la trama di Si chiamava Tomoji, mi è stato subito chiaro che la vicenda dovesse svolgersi con ritmi pacati e in modo preciso, con grande attenzione verso i dettagli ed escludendo i picchi drammatici. Mi sembrava che fosse la storia stessa a richiederlo. Ma al di là del caso specifico, sono consapevole che, in effetti, questa sia l’espressione naturale dell’incedere del mio lavoro, ormai. Ciò è ben visibile, per esempio, in Saint Mary no ribon, una delle mie recenti creazioni, in cui l’argomento principale è ancor di più iscritto nel registro del movimento. Può darsi che i manga d’azione che realizzavo un tempo facciano davvero parte del mio passato. Retrospettivamente, direi che La vetta degli Dei è senza dubbio l’ultima tra le mie opere in cui le espressioni sono appassionate, e dove il lavoro grafico ne risente. I miei progetti futuri testimoniano questo stato d’animo: sono molto più vicini a Si chiamava Tomoji che a Blanca o a La vetta degli Dei. Diciamo che è una conseguenza dell’età e non parliamone più.


Intervista a cura di Thomas Hantson tratta dal libro Si chiamava Tomoji, di Jirô Taniguchi pubblicato da Rizzoli Lizard, qui riprodotta per gentile concessione dell’editore.

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