Il documentario The Death of ‘Superman Lives’: What Happened?, dedicato al film di Superman mai realizzato da Tim Burton, è stato da poco distribuito in alcuni cinema statunitensi e nel circuito home video. Originato dalla comparsa in rete di concept art e video della strana tuta luminosa del protagonista, la pellicola racconta i tentativi di portare sullo schermo Superman Lives, un progetto che vedeva coinvolti Tim Burton e Nicolas Cage e con cui a fine anni Novanta Warner Bros. sperava di rilanciare al cinema l’eroe DC.
Di seguito le più bislacche trovate mai concepite per un cinecomic e i momenti topici del documentario.
Nel 1996 nessuno voleva sentir parlare di ‘fumetti’
A parte qualche rara menzione de La morte di Superman – l’arco narrativo da cui il film traeva l’idea della dipartita di Kal-El – e il coinvolgimento di Kerry Gammill come concept artist, per tutta la durata non c’era alcun riferimento ai fumetti dell’Azzurrone. Certo, nel film sarebbero dovuti comparire Doomsday, Lex Luthor e Brainiac, ma le idee infilate nella sceneggiatura ripensavano Superman come un solitario lunatico affiancato da K, entità tecnologica che faceva da baby-sitter/tutore/orsetto del cuore, addestrava l’eroe da giovane e ne diventava il nuovo costume dopo la resurrezione.
Solo Kevin Smith, sceneggiatore della prima bozza rinominata Superman Lives (una citazione alla commedia Fletch, cronista d’assalto, in originale Fletch Lives), inserì elementi fumettistici – come i cammei di Batman e Deadshot e una citazione al pianeta di Hawkman, Thanagar – salvo rinnegare il proprio lavoro, bollandolo come «una stupida fanfiction, roba da masturbazione se sei un nerd. A un certo punto, durante il funerale di Superman, Batman compare sugli schermi di Times Square per fare un discorso alla nazione. È quasi come se avessi accettato il lavoro solo per scrivere quella scena.» Kevin Smith ha parlato più a fondo del suo coinvolgimento in un segmento del suo An Evening with Kevin Smith.
Il produttore del film, Jon Peters, già produttore di Batman, non aveva alcuna nozione fumettistica, e tutte le sue influenze derivavano dal National Geographic: Superman doveva combattere un ragno gigante, poi degli orsi polari, e una copertina con il teschio di un ardipithecus ramidus divenne la fonte d’ispirazione per l’astronave di Brainiac.
Infine, nonostante avesse diretto due film di Batman, Tim Burton era tutto fuorché un appassionato di fumetti. Le sue idee per Superman comprendevano influenze cinematografiche e televisive. Gli artisti concettuali guardarono ad Alien, e Brainiac divenne una testa bionica su un corpo di ragno, mischiando Il cervello che non voleva morire e Le avventure di Johnny Quest.
Il produttore del film era un simpatico allucinato
Per descrivere con dovizia Jon Peters, ci vorrebbe un documentario a parte. The Death of ‘Superman Lives’ coglie solo in parte la grandezza di Peters. Di seguito alcune delle sue caratteristiche salienti:
– Ha iniziato come parrucchiere di Barbra Streisand. E poi è diventato produttore, perché, come ha dichiarato Kevin Smith, «a Hollywood si può solo salire di grado».
– Alle riunioni si portava dietro un nugolo di bambini per far decidere loro quali fossero i design più appetibili da far diventare giocattoli.
– Tiene molto alla sua street credibility: dice di essere uno che ha partecipato a più di cinquecento risse, di venire «dalla strada, dove c’è la vita vera», e di dover alzare il morale degli artisti (picchiandoli o baciandoli in bocca) perché lui è l’unico abbastanza motivato.
– Si fa leggere le sceneggiature da qualcuno mentre è sdraiato sul divano e disegna con le mani uno schermo su cui visualizza le scene.
– Quando Peters produsse Batman, Tim Burton scelse di girare in Inghilterra per non averlo vicino. Superman Lives sarebbe stato girato parzialmente nei teatri di posa Warner a Los Angeles, dove Peters risiedeva. «La cosa metteva in agitazione Tim perché Jon è una specie di furia della natura che non vuoi avere tra i piedi.»
Sappiamo com’era il resto del cast (più o meno)
Nicolas Cage era l’unico ad aver firmato un contratto – un contratto pay-or-play da 20 milioni, tra l’altro, che significava che, a prescindere dall’effettiva realizzazione del film, sarebbe stato pagato (anche se il Wall Street Journal riportò che Cage chiese solo il 10% del pattuito). Ma le direttive sui comprimari erano abbastanza chiare: Sandra Bullock era in trattative per interpretare Lois Lane (a insaputa di Burton, che nel documentario esclama «forse non ero presente alla riunione in cui hanno fatto il suo nome»), mentre Chris Rock era a un passo dal ruolo di Jimmy Olsen; per i cattivi, tutti erano d’accordo sull’affidare il ruolo di Lex Luthor a Kevin Spacey. E Burton aveva scelto Christopher Walken per vestire i panni di Brainiac.
Non c’era una sola sceneggiatura, ma tre
Durante il periodo di sviluppo, si avvicendarono tre sceneggiatori: Kevin Smith, Wesley Strick – che Burton chiamò perché non voleva lavorare sul copione di Smith – e Dan Gilroy, lo stesso che ha avuto opinioni tutt’altro che positive sul genere dei cinecomic. Gilroy fu chiamato perché Tom Lassally, responsabile della sezione sviluppo cinematografico, aveva letto il copione di Strick soltanto mesi dopo la consegna e lo aveva trovato «rivoltante». Di conseguenza la sceneggiatura continuava a cambiare, e solo alcuni punti rimasero intatti nelle riscritture e, dunque, questi furono gli unici sviluppati dagli artisti concettuali.
La tuta rigenerativa di Superman, utilizzata per far resuscitare l’eroe, fu l’elemento più sviscerato, insieme agli altri due costumi di Kal-El. Molti disegni vennero prodotti per l’astronave-teschio di Brainiac e per i mostri in essa contenuti. «Producevamo centinaia di disegni senza una vera meta» racconta lo storyboardista Michael Anthony Jackson. «Ci obbligarono a inserire perfino una sequenza in cui Superman combatteva un gruppo di ninja, senza un vero motivo.» Il gruppo non andò altrettanto a fondo con il mondo di Krypton, appena abbozzato nei disegni di Colleen Atwood e Sylvain Despretz. Spiega Burton: «Non portavamo mai nulla allo stadio finale perché la storia e il resto degli elementi erano nel caos più totale.»
Burton e Cage avevano idee strane per Clark Kent
Con una giacca più grande di due misure, pantaloni kaki e una maglietta di Topolino, il Clark Kent di Nicolas Cage sarebbe stato «un essere che nessuno avrebbe potuto scambiare per Superman, uno vestito da fan di convention fantascientifiche». Nella concezione di Cage, Superman era un alieno tanto kryptoniano quanto terrestre. Nella bozza di Dan Gilroy, Clark non era consapevole della sua natura aliena e credeva di essere affetto da una malattia rara. Solo quando Lex Luthor esibiva l’astronave che aveva portato Kal-El sulla Terra, lui comprendeva la sua vera identità. «È disperato, non sa che fare. Questo sentimento è uno dei motivi prevalenti che alimentavano le conversazioni con Tim.» Altro aspetto che il film avrebbe preso in considerazione era quello relativo a Lois Lane: estrapolando alcuni dei temi del saggio Man of Steel, Woman of Kleenex (in cui Larry Niven trattava la fisiologia del kryptoniano), Clark temeva di poter uccidere Lois durante l’amplesso o che la sua progenie potesse ammazzare la madre durante la gravidanza.
Nessuno aveva idea di come realizzare il costume
Nel film, Superman avrebbe indossato diversi costumi, tra cui una tuta rigenerativa, in grado di ricostituire il sistema circolatorio e quello linfatico, e un abito che sarebbe stato in realtà K, il tutore robotico di Kal-El, che lo riportava in vita dopo lo scontro con Doomsday.
La ditta di Steve Johnson (Ghostbusters, The Abyss, Spider-Man 2) vinse l’appalto per realizzare dei prototipi della tuta rigenerativa che doveva avere l’effetto di «un’insegna luminosa di Las Vegas». I mesi di lavoro si tradussero in molti tentativi e risultati timidi. «Quando chiusero la produzione», disse la costumista, «eravamo molto distanti da dove saremmo voluti arrivare.» Burton disegnò una versione del costume nero che gli artisti soprannominarono Superman Mani di Forbici data la spiccata somiglianza con Edward Mani di Forbici. «Il costume finale, quello che porta quando torna in vita, è scuro e organico, sembra più esposto al pericolo», spiega la Atwood, che si è detta dispiaciuta di non essere riuscita a portare sullo schermo il costume (si è comunque rifatta quest’anno, elaborando il costume per la serie tv Supergirl).
Peters avrebbe anche voluto rendere il mantello un personaggio dotato di vita propria, in grado di indurirsi e rispondere ai comandi di Superman, alla maniera del costume di Spawn.
Ci sarebbe stato un nuovo cattivo, Lexiac
Durante la pre-produzione, Burton esplorò l’idea di unire Brainiac e Lex Luthor in un corpo a due teste, stile Zaphod Beeblebrox, soprannominandolo Lexiac. «Avremmo potuto far fare tutto a Kevin Spacey, che sapeva imitare bene Walken.» L’idea, poi concretizzatasi nella serie a cartoni Justice League Unlimited, era alle prime fasi di ricerca e il regista la abbandonò per paura che l’esito finale somigliasse al film The Thing with Two Heads. A quel punto Brainiac divenne un essere senza corpo con otto zampe di ragno e nascosto sotto un lungo mantello che gli dava l’aspetto di un cobra. Come contrappunto, il disegnatore Derek Thompson dette al robot K l’aspetto di un gufo.
Anche Doomsday attraversò diverse iterazioni, da alcune più ancorate al fumetto ad altre più libere. Burton disegnò un bozzetto, poi sviluppato dai disegnatori, in cui il cattivo era un insieme di teste che, durante la battaglia finale, mutavano nelle facce degli amici di Clark.
Superman=Kobe Bryant=Principessa Diana
Con l’intento di rimuovere i mutandoni di Superman, il reparto costumi si sbizzarrì con varie proposte. «In un meeting qualcuno tirò fuori l’idea di fargli indossare i pantaloncini dei Lakers» ricorda la costumista Colleen Atwood. «Iniziarono a citare Shaquille O’Neal e Kobe Bryant, dicendo che poteva vestire come un cestista, una cosa molto stupida», ribatte Burton.
Bryant non fu il solo metro di paragone; la seconda riscrittura del copione, a opera di Dan Gilroy, coincise con la morte di Diana Spencer. Peters convocò lo sceneggiatore nella sua magione e gli disse di inserire le reazioni della gente e il senso di lutto che stavano trasmettendo i media. «Doveva avere lo stesso senso di grandiosità di un mondo che piange un’icona. La cronaca del funerale di Lady D dettò in pratica il modo in cui approcciammo la morte di Superman.»
Come è realmente morto il film
«In casi del genere, non c’è una sola ragione», afferma Lorenzo DiBonaventura, a capo dello sviluppo dei film Warner negli anni Novanta. «Ci sono diverse ragioni per cui Superman si ritrovò invischiato in un brutto periodo per la Warner.» Il budget del film era schizzato alle stelle: i dati sono incerti, ma il film avrebbe richiesto non meno di 140 milioni di dollari (Peters parla di 300 milioni), di cui 30 già stati spesi senza nulla di concreto in mano.
In quel periodo, inoltre, la Warner Bros stava inanellando una serie di insuccessi (Sfera, L’uomo del giorno dopo, Mad City – Assalto alla notizia), tra cui il cinecomic Batman & Robin, che addensò i dubbi ai piani alti. «Ogni volta che andavo a un meeting», rammenta Dan Gilroy, «il dirigente che c’era prima era stato licenziato, eravamo tutti su un terreno incerto. E la sicurezza divenne la loro preoccupazione principale». A Gilroy fu chiesto di tagliare molte delle scene d’azione per abbassare il budget. Peters tentò di convincere lo studio a non chiudere i rubinetti ma, dopo due anni di sviluppo, Superman Lives fu accantonato definitivamente. Lo stesso Peters ammette che «il film sarebbe stato qualcosa di diverso e unico. Non credo però che avrebbe ripagato gli investimenti della Warner».