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Il ritorno alla natura nel nuovo libro di Michele Petrucci [Intervista]

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I pesci non hanno sentimenti (QUI potete leggerne un’anteprima) uscito per Coconino Press in occasione di Napoli Comicon, il nuovo libro di Michele Petrucci – già autore di MetauroA caccia di raneFactory: 1Il brigante Grossi – è un racconto che ragiona sulla vita moderna e la sua schiacciante frenesia. Lo fa con immaginando la possibilità di vivere di nuovo a contatto con la natura, scappando dalla città e dalla monotonia odierna.

Ne abbiamo discusso con l’autore, scoprendo le ispirazioni (fumetto, musica e vita quotidiana) da cui è nato un libro tanto attuale quanto introspettivo e ricco di occasioni di riflessione.

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Come nasce questa storia, che è priva di specifici riferimenti esterni o storici?

Dopo due libri che avevano un legame con la Storia, avevo voglia di lavorare a un racconto di fiction. Qualche anno fa, nel 2009, lessi un articolo che parlava del “rewild”, un fenomeno che riguarda molti giovani americani che decidono di vivere in stretto legame con il mondo selvaggio. Si tratta di un ritorno alla vita pre-agricola, una vita basata sulla pesca, la caccia e la raccolta.

Quel seme, quello spunto, germogliò e poco dopo cominciai a leggere libri sull’argomento e a cercare di capire cosa spingesse un ragazzo ad abbandonare il benessere e i vantaggi della civiltà per vivere in quella maniera. In quello stesso periodo stavo anche pensando a una biografia, ero appassionato da Cesare Lombroso e dalla sua fascinazione, direi ossessione per il male e per la lettura dei suoi segni sui corpi e sui volti delle persone. Abbandonai l’idea della biografia, ma questi elementi si sono sovrapposti alla personalità del protagonista del mio libro.

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Ci sono anche elementi personali tratti da persone e situazioni che conosci direttamente?

Lavoro per strati quindi ci sono sempre elementi diversi che si sommano sui miei personaggi. Per esempio, il protagonista fa lo stesso lavoro di un mio amico, che ritocca digitalmente foto per lapidi. Nella vita di tutti i giorni ci sono sempre cose che ti rimangono attaccate, riflessi di persone che conosci o cose che leggi o vedi che finiscono nella stesura di un romanzo.

Noto un’ottima indagine della dimensione familiare. Come hai lavorato intorno a questo argomento?

Tutto è nato dalla necessità di osservare e studiare il meccanismo per cui dei giovani che hanno tutto possano desiderare un ritorno completo alla natura e alla vita primitiva. Portando avanti questa indagine ho conosciuto un ragazzo che ogni anno per un periodo va in Giappone, si unisce a una comunità che mangia solo ciò che coltiva e vive su palafitte. Ho parlato con lui, cercando di capire i suoi motivi ed è emerso un rapporto conflittuale con la propria famiglia, con il padre in particolare.

Si tratta di una vera e propria fuga alla ricerca di se stesso e di un proprio posto nel mondo. Sono partito da lì per Rino. Poi ho pensato che il cibo rappresentasse una metafora perfetta per raccontare questo conflitto tra natura e civiltà. Gli ingredienti sono natura ma la cucina è civiltà. I contrasti nati da questi elementi sono interessanti. Il padre di Rino è raccontato solo con il suo rapporto malato con il cibo dal ritorno della guerra del Golfo. Jonathan, l’amico di Rino invece è un freegan, mangia il cibo buttato dai negozi. Alla fine della storia il cibo sarà il primo indicatore inconscio dei problemi di Rino.

Dal punto di vista grafico ho notato chiari riferimenti a Chester Brown, soprattutto Non mi sei mai piaciuto, ma anche tematico (per la questione familiare, che dicevamo). Qual è stata la ricerca grafica che c’è dietro a questo libro?

Chester Brown è da sempre uno dei miei riferimenti, assieme a Seth. Ho trovato particolarmente adatto per il mio Rino il modo che ha di disegnarsi, con quel mento gigantesco. Sicuramente era un libro che non volevo fare a colori, sentivo di dover usare la bicromia, come nei miei primi libri, che si ispiravano proprio a quegli autori canadesi. Anche perché Rino e Jonathan hanno una visione del mondo e della natura limitata, con posto spazio per le sfumature.

Il titolo è molto suggestivo, è una citazione, vero?

Le suggestioni credo siano la cosa più importante quando racconti, almeno per quanto mi riguarda. Nello specifico, il titolo è tratto da un brano dei Nirvana, “Something in the way”. La storia è ambientata alla fine degli anni Zero e quel sentimento di smarrimento e di nichilismo era molto sentito in quella generazione che si nutriva di musica grunge.

Quando i personaggi fanno quella scelta. Tu ti sei posto il problema se lo faresti?

Mi sono reso conto che la sottile linea che unisce i miei libri più recenti, a partire da Metauro, riguarda la natura in rapporto all’uomo. Per certi versi questo allontanamento dalla terra ha reso l’uomo più fragile, più insicuro. Io sono nato e cresciuto in campagna, ho trascorso l’infanzia nei boschi, quindi ho sempre pensato che una vita del genere fosse effettivamente possibile e anche affascinante. Ma attenzione a non fare l’errore di considerare le difficoltà e la complessità di una scelta del genere. Mai semplificare.

Senti di aver preso una posizione rispetto a questo conflitto?

Sì, ovviamente ho una mia idea riguardo queste scelte e le teorie primitiviste . Ma penso che il mio punto di vista non sia importante. A me interessa il racconto e, come sempre, far nascere domande è più importante del dare risposte. Per questo motivo il finale è aperto. Se il lettore si fa prendere dalla storia e prende una sua posizione per me è una vittoria. Ho sentito interpretazioni differenti e interessanti e questo mi ha fatto piacere. Cechov disse che l’uomo diventerà migliore quando gli verrà mostrata la sua vera natura. Io condivido questa idea.

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