Dieci anni fa usciva l’ultimo numero di Bone. La serie autoprodotta da Jeff Smith che mescola l’epica fantasy con l’umorismo delle strisce a fumetti era iniziata nel 1991 dopo un travaglio creativo che l’aveva trasformata da semplice strip a fumetto seriale ma con una forte progettualità («perché a me le tre vignette stavano strette. Volevo la libertà di scrivere una gag lunga una pagina o un numero intero. ‘Vedrete’, dicevo ‘Quando lo leggerete tutto insieme avrà senso’). Inizialmente prodotta dal solo Smith (che oltre a scrivere e disegnare, curava il lettering, la grafica, la rubrica della posta e si occupava di tutto l’iter distributive), Bone rischiò la chiusura a causa dei ritardi accumulati dal fumettista e venne salvata dalla moglie di Smith, Vijaya Iyer, che rifiutò un impiego lucrativo nella Silicon Valley per fondare con il marito la Cartoon Books e supervisionare gli aspetti burocratici. Da lì, il successo di Bone non ha fatto che aumentare.
Dopo la fine della serie, Smith ha fatto una breve capatina in casa DC per una miniserie su Capitan Marvel, per poi tornare ai suoi progetti personali, prima con il fantascientifico RASL e poi con il webcomic Tüki, sul primo uomo ad aver abbandonato l’Africa nel Pleistocene.
10 anni fa finiva Bone. Cosa hai provato quando hai completato l’ultima pagina?
Euforico, ma anche un po’ stanco… Ero stato alzato una settimana intera per finire l’ultima infornata di tavole! Ma ero troppo entusiasta per il traguardo che stavo rincorrendo da tredici anni.
Ora che hai un po’ di prospettiva sulla materia, qual è la cosa di cui sei più orgoglioso?
In effetti, il solo fatto che l’abbia finita mi lascia ancora di stucco.
L’hai più riletta?
Sì, l’ho riletta e mi piace ancora.
E non cambieresti niente?
No, non vedo ragioni per ripensarla in un altro modo.
C’è stato un momento in quegli anni in cui hai pensato che non saresti arrivato alla fine o che avevi perso la spinta creativa degli inizi?
In dodici anni di lavoro può succedere di tutto, e di solito succede. Ma non ho mai perso interesse nella storia o nel mio lavoro di fumettista. Ci sono stati periodi in cui l’industria stava cambiando o è addirittura collassata. L’autopubblicazione è per definizione un modello di business rischioso. Mi ricordo che quando le vendite cominciarono a scendere perché la saga I cerchi fantasma non stava riscuotendo molto successo. Un paio di volte Vijaya e io ci siamo chiesti se avremmo potuto andare avanti, ma abbiamo guadato il fiume. In realtà fu quel costante impulso creativo a farmi superare le difficoltà.
Non ti sei mai sottratto al dialogo con i tuoi lettori e hai perfino incorporato alcune delle loro idee nella serie. La critica, invece, conta qualcosa per te? Come fa un artista – se lo fa – a rapportarsi con il successo o l’insuccesso percepito rispetto alle proprie considerazioni sul lavoro?
Sto cominciando a notare una direzione nelle tue domande, amico! Comunque sì, io leggo tutte le recensioni. E, sì, contano. Ma ecco il trucco: un sacco di persone nel loro piccolo angolo di cultura popolare sanno bene cosa piace loro e non amano niente che minacci le loro convinzioni o i loro gusti in fatto di fumetti. Di certo non puoi credere a tutto quello che scrivono su di te, positivo o negativo che sia. Detto questo, non tutti i critici hanno una missione o uno scopo e quindi li leggo per vedere se qualcosa mi suona giusto – e a volte succede. Di solito è qualcosa che già immaginavo non andasse bene e magari un bravo critico l’ha colto. In quei casi, opero dei cambiamenti quando il fumetto viene ristampato.
Sei un fumettista completo, scrivi, disegni, editi. In un mezzo ibrido come il fumetto, cosa viene prima per te, la storia, le parole, o i disegni e le immagini?
Entrambi. La storia deve essere comunicata per forza con entrambi i mezzi. Altrimenti il fumetto non funziona, è una cosa morta.
Più volte hai citato le tue letture preferite come fonte d’ispirazione (l’Odissea, Moby Dick, Carl Barks, Don Rosa). Ma ora cos’è che ti piace leggere?
Per la maggior parte del tempo leggo le opera di fumettisti completi, che scrivono e disegnano i loro lavori. Quel tipo di fumetti che trovi alle piccole fiere editoriali come la Small Press Expo, il MoCCA Festival di New York o il Toronto Comic Arts Festival. Il genere non è granché importante. Nel 2013 sono stato l’editor di Best American Comics. Ecco, quella è una raccolta onesta dei miei gusti. Le uniche cose che mancano sono i classici, Topolino, Braccio di Ferro, Krazy Kat, Terry e i pirati, tutte cose che ho letto grazie alle splendide ristampe che stanno pubblicando in questo periodo. Per uno come me che ha ricevuto molte lodi, non sono geloso del successo altrui.
Quando hai finito Bone avevi già delle storie in testa per il tuo futuro lavorativo, ma come hai affrontato il periodo post-Bone? Io me lo immagino come qualcuno che è appena uscito da un matrimonio durato una vita e adesso si ritrova a uscire con una nuova ragazza.
È proprio un’analogia calzante. Ho iniziato a dilettarmi con RASL anni prima della fine di Bone. E a volte, specie nell’ultimo periodo di Bone, sentivo mordere il senso di colpa quando lavoravo su RASL – proprio come se avessi l’amante! Però è anche vero che, in casi simili, devi fare delle ricerche, una sorta di pre-produzione per l’opera. E l’opera, dopo la fine di Bone, non era ancora formata completamente, quindi ho accettato l’offerta della DC per fare la miniserie Shazam! La società dei mostri del male e preparare RASL nel tempo libero.
In tutti i tuoi lavori c’è l’idea della fuga, del viaggio, che anche uno dei grandi temi della narrativa che ti ha formato come lettore.
Sono attratto da quel genere di storie, da sempre. L’idea alla base di Bone fu proprio il mio desiderio, che avevo fin da bambino, di vedere tutte le storie di Zio Paperone come un’unica grande storia consequenziale, con un inizio, uno svolgimento e una fine. È venuto tutto naturalmente. Anche se l’artista che è in me conosce bene il valore del simbolismo e lo usa ogni volta che può.
Bone è uno dei fumetti più censurati nelle biblioteche e nelle scuole. Accusato di violenza, razzismo. Secondo te, perché la tua opera è osteggiata in maniera così forte? Forse perché non è propriamente per bambini, non è incasellabile con facilità?
Penso di sì. In parte anche perché la natura visiva del fumetto lo porta a essere decontestualizzato con facilità, basta un’occhiata. E in parte perché, grazie alla Scholastic [la casa editrice che ha pubblicato la versione a colori di Bone], il fumetto è nel radar di scuole, famiglie e biblioteche.
Tu hai studiato anche animazione, avevi un studio e la tua carriera è iniziata grazie a questo. In altre occasioni hai parlato di alcuni tentativi come sceneggiatore andati a vuoto, durante l’anno di pausa da Bone. Mai pensato di cimentarti come regista?
Sì, avevo uno studio d’animazione con un paio di miei amici e, all’epoca dei primi interessamenti da parte di Hollywood verso Bone, mi sarei goduto ogni singolo aspetto della sua realizzazione. Ma dopo tutti questi anni, oltre a non avere più lo studio, ho imparato che non sono fatto per Hollywood. Sono troppo abituato all’idea di contare solo su me stesso, farmi venire un’idea ed eseguirla e basta.
Fin dai tuoi inizi hai sempre optato per modalità alternative di pubblicazione. Bone e RASL sono fumetti indipendenti, autopubblicati. Tüki appare su internet. Credi che i webcomic siano quello che per te è stato negli anni novanta l’autopubblicazione?
Sì, solo che il pubblico potenziale è esponenzialmente più grande. Tutti, dovunque, possono leggere Tüki nel momento esatto in cui è caricato sul sito. Gratis. Sfortunatamente, questo è lo svantaggio. Io e Vijaya dipendiamo ancora dalle vendite delle copie cartacea per pagare le bollette.
Ecco, il fumetto sul web, quando hai iniziato tu non esisteva. Vedi altri cambiamenti nell’industria del fumetto?
Ho visto un sacco di cambiamenti, quasi tutti positivi. Ci sono molte più donne che scrivono, disegnano e leggono fumetti, per esempio. Ci sono bambini, adolescenti e famiglie che passano il fine settimana ai festival fumettistici. Sempre più fumetterie sono parte di un dialogo costante con i clienti e i loro vicini. Queste sono cose che mi sarebbe sembrate scioccanti, venticinque anni fa. I graphic novel sono accettati come letteratura sia dai critici sia dai commercianti. Quando guardo all’industria vedo questo: una forma d’arte che esce allo scoperto dopo decadi passate nell’ombre. A meno che tu non intenda cosa ne pensi di The New 52.
Perché, cosa ne pensi?
Ah, non ne ho idea. Non ne ho mai letto un numero.
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