Solitudine della tedesca Josephine Ritschel è un racconto che si insinua nei meandri più urbani della solitudine. Sin dalle prime pagine, mostra l’asfissiante normalità della vita di una giovane donna, tra casa, lavoro, casa, lavoro, e farmacia, in un circolo vizioso spietato e inesorabile, che alimenta apatia e visioni surreali.
La città descritta dalla Ritschel ha geometrie nette e fredde, all’interno di tavole dalla griglia altrettanto netta e rigida; i chiaro-scuri dei suoi carboncini non fanno che assecondare lo spirito cupo del racconto, rispecchiando l’agitazione dell’animo della protagonista. Le pagine sono una continua discesa nel disagio quotidiano di una solitudine imposta dall’ambiente e dalla società; la città è grigia e crudele, ma anche uscirne vuol dire rischiare di trovare un paesaggio altrettanto cupo, dove gli alberi sono spogli e le case sono un riparo dai mostri generati dall’anima. Eppure la speranza c’è, e la si trova in piccole cose e in piccoli gesti, sembra dire la Ritschel con metafore e piuttosto chiare (la fuga, il cane dal volto umano) e con l’epilogo, che ovviamente non stiamo qui a citare.
Josephine Ritschel (classe 1986) è originaria di Potsdam e vive a Berlino. Fa parte del collettivo The Treasure Fleet; ha prodotto gli albi The X-Files (2011), Solitude (2012), Oasis (2013), e Grandma Moses in Doses (2014) pubblicato in Italia sull’antologico Canicola Germania. Ha pubblicato su antologie internazionali, come Nobrow e Strapazin, o su riviste come The New York Times.
L’autrice sarà presente come ospite alla prossima edizione del festival BiBOlbul.
Di seguito, in anteprima, alcune pagine da Solitudine.