Il modo migliore per descrivere Planetes di Makoto Yukimura è quello di immaginarsi una specie di Interstellar di Christopher Nolan dove alla grandeur da kolossal cinematografico viene sostituita un’attenzione struggente per le piccolezze della vita quotidiana. Si tratta di due opere in cui si può parlare senza problemi di hard sci-fi – narrazioni in cui l’elemento tecnico non è un banale abbellimento, ma una parte centrale del dipanarsi delle vicende – ma al cui centro di tutto rimane il concetto di amore ed empatia tra esseri umani.
La sovrapposizione è così perfetta che a un certo punto in entrambe si parla di esplorazioni spaziali indispensabili per evitare l’estinzione della razza umana e di cosa significhi per chi fa parte di queste spedizioni allontanarsi per anni dai propri affetti. Ma ripeto: la differenza sta tutto nell’approccio alla materia. Se per arrivare al punto il regista inglese aveva bisogno di complesse teorie scientifiche a base di buchi neri, piani interdimensionali e linee temporali sfasate, a Yukimura basta arrivare su Giove con una spedizione pianificata per durare sette anni. Semplice e lineare.
Al centro della serie – pubblicata originariamente in Giappone tra il 1999 e il 2004 – troviamo l’equipaggio della DS-12, un’astronave adibita al recupero di detriti spaziali. Nel 2075 la densità di rottami fluttuanti nello spazio è tale infatti da rendere la navigazione ancora meno sicura di quanto non lo sia in condizioni ottimali. Da questo presupposto nasce l’esigenza di una costante attività di pulizia del cosmo, tanto che l’impiego come spazzino orbitante diventa un’attività comune e necessaria.
E qui abbiamo la prima, grande differenza rispetto a quanto ci si aspetterebbe da una serie di fantascienza tradizionale: i protagonisti non sono esploratori dello spazio profondo, eroi senza macchia o avventurieri scavezzacollo, ma comuni lavoratori alle prese con la routine di un’occupazione che riesce a essere al contempo pericolosa e sempre uguale a se stessa. Eppure, grazie alla capacità di Yukimura di entrare in punta di piedi nel piccolo mondo di ognuno dei suoi personaggi, anche all’interno di una quotidianità simile ognuno di loro vivrà un arco narrativo significativo e ricco di eventi memorabili.
La capitana Fee Carmichael, tabagista incallita dal temperamento fumantino, passerà attraverso un tormentato processo di maturazione che la porterà a riflettere sul suo ruolo di madre, sul bisogno di tornare a casa e di vivere senza mai scendere a compromessi con le spinte individualiste e omologanti della società. Partiremo dalla sua infanzia, segnata dal razzismo nel sud degli Stati Uniti, e finiremo per vederla diventare un simbolo della resistenza pacifica alla violenza della guerra.
Il giovane Hachimaki – protagonista della serie – apparirà in prima battuta come il più banale degli stereotipi da manga – il classico stupidotto testardo determinato a seguire il suo sogno a ogni costo – e proseguirà seguendo il percorso di trasformazione più violento di tutto il gruppo, evolvendosi ben presto da spalla comica a freddo e anempatico carrierista determinato a tutto pur di imbarcarsi sulla prima spedizione per Giove. Prima della fine dell’ultimo episodio la sua prospettiva sul mondo cambierà ancora una volta, finendo per mettere davanti a tutto l’affetto e il calore delle persone.
Abbiamo poi Yuri Mihairokov, l’unico elemento dell’equipaggio la cui parabola è già chiusa nel momento in cui andiamo a leggere le prime pagine del manga. Questo non lo rende un personaggio più piatto o banale degli altri, semplicemente ci indica in anticipo il punto a cui arriveranno anche tutti gli altri. Compassionevole, in pace con se stesso, attento a chi gli sta accanto e ben conscio del suo ruolo nel microcosmo che contribuisce a popolare.
Per ultima abbiamo la giovane recluta Tanabe, inesperta sia del cosmo esterno che di quello dentro di sé. Rappresenta il classico cliché del personaggio completamente privo di zone d’ombra, altruista ed empatico fino allo sfinimento. La sua ingenuità sarà spesso vista come incomprensibile da chi gli sta accanto, anche in virtù di un passato più ricco di ombre di quello che ci si aspetterebbe. Attorno a questi quattro pilastri centrali orbiterà una serie di personaggi minori, tutti cesellati con uguale attenzione e affetto. Il padre di Hachimaki, celebre astronauta sospeso tra la voglia di rischiare tutto e la consapevolezza di dover tornare a casa dalla famiglia che ha contribuito a creare, il padre di Tanabe, ex-cantante punk dalla faccia tatuata che ha trovato la pace come manutentore di pale eoliche, il marito di Fee, casalingo e padre fin troppo permissivo.
Nonostante Makoto Yukimura spesso faccia di tutto per farsi passare come un conservatore ossessivamente legato all’idea di famiglia e di focolare domestico come faro luminoso, il senso che emerge dalle pagine è tutt’altro che reazionario. Leggendo tra le righe si capisce che non ha importanza dove e in quale maniera, ma è lo stare accanto a qualcuno l’unica cosa davvero importante. Sia che si tratti di nuclei più tradizionali o di sgangherati equipaggi in viaggio attraverso il sistema solare. Se i personaggi secondari paiono premiare solo la componente maschile – lasciando madri e mogli in secondo piano o relegandole a ruoli bidimensionali – gli snodi più interessanti delle vicende in primo piano vertono tutti su Fee, Tanabe e sulla loro forza di volontà incontenibile.
La prima sventerà un piano terroristico globale, ripudierà lo spazio, tornerà ad amarlo e finirà per salvarlo una seconda volta. La seconda non si piegherà mai all’aridità del mondo adulto, si butterà in una storia d’amore impossibile e cambierà per sempre la vita di chi gli sta accanto, compresa quella del protagonista Hachimaki. Questi aspetti esistenziali, inoltre, sono calati in un ambiente realistico e attento ai particolari tecnici.
In Planetes la tecnologia è sempre presente, ma non si ha mai l’idea di leggere un’opera di fantascienza. Ci pare di essere più nella cronaca, tanto le apparecchiature e i mezzi appaiono realistici e poco romantici. Siamo lontani dal feticismo per la tecnologia dei manga dei primi anni Novanta, dove era tutto un affastellarsi di rivetti, tubi, carter e così via. Il disegno è puntuale e preciso nel restituirci un ambiente che è prima di tutto un luogo di lavoro vero, non di battaglie stellari o di chissà quali esplorazioni verso dimensioni impossibili. Per farci sognare bastano le frequenti splash page sulla vastità dello spazio, autentico motore di gran parte dei personaggi. In questi momenti il tratto si svuota e a farla da padrone è la vastità della pagina – spesso doppia – rispetto alla cura con cui vengono tratteggiati gli interni.
Quando si parla di astronavi l’autore scende abbondantemente nei particolari, evitando le classiche sbrodolate nonsense dai toni vagamente parascientifici e concentrandosi su aspetti concreti. Così si parla delle malattie provocate dallo stare troppo in orbita, della difficoltà di raccogliere un detrito, di quanto si debba studiare e della preparazione fisica necessaria per diventare astronauta, di quanti mesi o anni siano lunghi i turni di lavoro una volta lasciata la Terra. Gli studi per un nuovo tipo di motore – necessario a spingersi ancora più lontano nel campo delle esplorazioni – non vanno come dovrebbero e causano centinaia di morti. Poi c’è il carburante da fare, la manutenzione dei mezzi, i compagni e le compagne lasciati a casa da sentire ogni giorno per evitare che gli affetti svaniscano con il tempo. Il tutto inserito in un contesto grafico sempre pulito e discreto, lontano dai voli pindarici che un genere così speculativo avrebbe potuto richiedere.
Planetes ha due movimenti, paralleli ma con direzioni ben diverse. Se le astronavi vanno sempre più lontano, i personaggi scoprono di volersi muovere sempre di meno. E qui torniano al parallelo con Interstellar. Se nel film di Nolan l’amore diventa una forza astratta e complessa, capace di viaggiare attraverso il tempo e lo spazio, Yukimura li tratteggia come una spinta attrattiva tra i singoli elementi della società umana.
Il protagonista passa gran parte della serie ad allenarsi per essere parte dell’equipaggio che per primo sbarcherà su Giove, con il solo desiderio di guadagnare abbastanza denaro da comprarsi un’astronave e muoversi ancora di più in solitudine. Una volta raggiunto il suo obiettivo l’unica cosa che si sentirà di fare sarà chiedere al suo vecchio equipaggio – quello della DS-12 – di riprenderlo a lavorare con loro. Si tratta dell’episodio più esplicito e didascalico di tutta la serie, messo in chiusura a una cavalcata di oltre mille pagine divise tra i pericoli mortali di un lavoro impossibile e la noia degli spostamenti di decine di migliaia di chilometri.
Non occorre rileggersi tutto Planetes per rendersi conto che quelle stesse cose le pensa ogni personaggio, nonostante il fascino irresistibile dell’ignoto e la pulsione primordiale di arrivare dove nessuno è mai arrivato prima. Yukimura è abbastanza intelligente da non negare il fatto che questi ultimi aspetti siano la chiave dell’intera evoluzione umana, ma alla stessa maniera non sceglie neppure un approccio sopra le parti. Senza pensarci troppo si sbilancia e dice la sua, mettendo davanti a tutto il bisogno di ogni essere vivente di calore ed empatia. Come se fossimo tutti parte di un universo sconfinato, in cui per non perdersi è meglio stringere forte la mano di chi ci sta accanto.
Planetes – Complete Edition
di Makoto Yukimura
Panini Comics, luglio 2019
cartonato, 1040 pp., b/n
45,00 €
Leggi anche:
• 15 fumetti sulla Luna
• 20 fumetti da ricordare usciti nel 1999
Entra nel canale Telegram di Fumettologica, clicca qui.