Il Futurismo è stata la prima avanguardia del Novecento. Una corrente artistica che, nella sua istintiva radicalità, avrebbe influenzato tutti i movimenti artistici del Secolo, dal Cubismo al Surrealismo. Uno sfrontato inno alla velocità, al vertiginoso fluire del progresso tecnologico che in pochi anni aveva prodotto innovazioni quali il telegrafo, la radio, l’aeroplano, proiettando l’umanità verso un ottimistico futuro.
Filippo Tommaso Marinetti col suo Manifesto Futurista del 1909 aveva un’idea ben precisa di come l’arte dovesse rispondere a quel presente rapido e tumultuoso: elogiando la tecnica, l’industria, la velocità, il nazionalismo, la guerra come caratteri imprescindibili del mondo a venire. Nella sua anarchica vitalità, il Futurismo anticipò gli umori dei totalitarismi novecenteschi e della società industriale e fu ispiratore del Fascismo.
La Dottrina, graphic novel distopico di Alessandro Bilotta (ai testi) e Carmine Di Giandomenico (ai disegni), pubblicato originariamente in quattro parti da Magic Press dal 2003 al 2010 e recentemente ristampato in un unico volume per Feltrinelli, è stato spesso associato al Futurismo, sia per le numerose citazioni di Marinetti, Palazzeschi, Cavacchioli, d’Albisola, Folgore, Soffici, che introducono i capitoli del racconto, sia per una generale atmosfera da fantascienza retrò, con un evidente richiamo ai totalitarismi di casa nostra.
La distopia di Bilotta e Di Giandomenico infatti, se inizialmente cita senza dubbio i classici del genere (V for Vendetta di Alan Moore e David Lloyd), in realtà si distacca subito dai modelli: l’ambientazione distopica e i riferimenti futuristici sono piccoli tasselli di una riflessione più ampia sul potere dell’immaginazione e del linguaggio.
«Le cose non sono come sembrano» recita la prima didascalia del libro, e nel corso della storia sono numerose le sentenze che riecheggiano a tenerci in allarme, a ricordarci che è meglio non fidarsi di quello che ci viene mostrato. Le norme cui tutti i cittadini sono sottoposti rimandano alla struttura scolastica: i bambini sono perfettamente allineati al volere del Nocchiere, il tiranno e inventore di questa società, mentre i loro genitori e gli adulti più irrequieti vengono tenuti rigidamente distanti da eventuali “crimini di immaginazione” da Professori incappucciati e armati di manganello.
L’ambientazione scolastica non è casuale. L’apparato sociale de La Dottrina è una costruzione linguistica, un sistema simbolico chiuso dove ogni elemento deve essere interpretato secondo le indicazioni date dal Nocchiere. Nella lotta infinita tra l’Interno, che cerca di mantenere lo status quo, e L’Esterno che preme ai confini per entrare, si muovono personaggi impauriti, innamorati, irrequieti, tutti in qualche modo incapaci di tenere a freno il proprio desiderio, la propria esigenza di immaginazione.
Nel complesso sistema simbolico elaborato dal Nocchiere non è permesso immaginare, o meglio l’immaginazione va guidata, incanalata lungo binari prevedibili per poter essere eliminata. Tutto è rigidamente sotto controllo come si conviene in un regime totalitario che si rispetti, finché non interviene l’Eroe, il Matto dei tarocchi, a sparigliare le carte. Nel nostro caso si chiama La Smorfia, una maschera capace di essere sempre al posto giusto nel momento giusto, con in più il potere del Fuoco, che era finora riservato al solo Nocchiere.
Ed è qui che qualcosa si spezza: le cose non sono più come sembrano. Le regole del linguaggio vengono riscritte: per esempio le onomatopee, di solito usate per rappresentare dei rumori, sono qui sostituite da numeri. Come intuisce Anco, il personaggio artista, formalmente anticonformista ma in sostanza allineato al regime, la struttura perfetta inventata dal Nocchiere per tenere sotto controllo i cittadini è a sua volta parte di una invenzione più grande. Come nel mito della caverna di Platone, chi scopre la verità delle ombre fuori dalla caverna ha il dilemma di dover tornare indietro per raccontarla a chi è rimasto indietro.
La Dottrina non è un fumetto distopico, ma è la storia di come si realizza una distopia usando il linguaggio del fumetto: è una riflessione su come il linguaggio può essere usato per manipolare, per ingannare come anche alimentare una nuova speranza per una società migliore.
Come spiegano gli autori stessi, che nel corso del racconto intervengono a interrompere il flusso delle vicende, la complessità, la difficoltà di interpretare tutti i nodi e ricondurli a una spiegazione univoca è parte stessa dell’opera e del linguaggio con cui viene espressa, il fumetto. Questa strana lingua, che unisce immagini e parole, obbliga il lettore a uno sforzo di comprensione dei simboli.
Non lasciamoci ingannare dai riferimenti al Futurismo, agli eroi distopici, alle fiabe e poesie (Da Il sabato del villaggio di Leopardi a Il mago di Oz) che si intrecciano alla trama principale, arricchendola e deviandone il flusso, aumentando la complessità come il virus Lue che a poco a poco si diffonde tra i cittadini inermi. Questo è un fumetto che aspira a fare avanguardia, a cantare la complessità di questi tempi incomprensibili.
Questa è una storia di simboli, una riflessione sul potere del linguaggio e sulle dinamiche perverse che crea quando il linguaggio è nelle mani del potere. Il tutto in una confezione impeccabile, dove i disegni di Di Giandomenico riescono a rappresentare i toni del racconto di Bilotta attraverso continue variazioni di stile, di colore e di inquadrature. Gli autori ci distraggono mentre ci dicono la verità, concedendoci quindi l’alibi di non dover tornare indietro, per raccontarla agli altri.
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