Cortese e affabile, J.M. Ken Niimura incarna la levità dei suoi disegni. Co-autore di I Kill Giants, si è fatto conoscere per lo stile orientale del suo tratto e lo sguardo vispo con cui mette su carta i personaggi. Lo abbiamo incontrato alla scorsa Lucca Comics & Games, ospite di Bao Publishing. Insieme abbiamo discusso dei suoi primi lavori, dell’impatto che I Kill Giants ha avuto sulla sua carriera e sulle sue influenze artistiche.
Il tuo nome completo è José María Ken Niimura del Barrio. Da quanto so sei proprio un cittadino del mondo.
[ride] Sì, sono nato e cresciuto in Spagna. Mio papà è giapponese, mia mamma spagnola. Anche se ero in Spagna, sono cresciuto immerso nella cultura giapponese, casa mia era una specie di avamposto orientale. Ma poi sono andato in Erasmus a Bruxelles e mi è piaciuto tantissimo. E così ho deciso di trasferirmi.
Fare fumetti è un lavoro molto statico e ho pensato che cambiare l’ambiente intorno a me avrebbe movimentato un po’ le cose. Ho vissuto a Parigi, Bruxelles, Montreal e adesso sono a Tokyo.
Ti spostavi per passione o per lavoro?
Volevo visitare posti nuovi. L’unica città in cui sono stato per motivo lavorativi è Tokyo, perché lavoro per un editore giapponese e in Giappone vogliono fare tanti incontri, quindi per un mangaka è più comodo vivere lì. E poi ovviamente mi piaceva l’idea di vivere in Giappone. Le altre città le avevo scelto in maniera istintiva, mi sono detto «perché no?»
A Tokyo eri già stato?
Avevo visitato Tokyo durante l’infanzia. Ogni due o tre anni passavamo l’estate dalla famiglia di mio padre, ma questa è la prima volta che ci vivo in pianta stabile.
Il tuo retroterra è così variegato che mi viene da chiederti cosa ti viene in mente quando pensi a “casa”?
Questa è proprio una bella domanda. [pausa] In Giappone hanno una parola, “jikka”, che indica la casa della tua famiglia, diciamo. Una cosa è dove sei nato o che nazionalità hai sul passaporto, ma l’idea di “jikka” è relativa a dove sono fisicamente i tuoi genitori. Nel mio caso sarebbe la Spagna, dove vivono i miei. Ma ho parenti sparsi ovunque. Impari cose diverse vivendo in posti diversi. A un certo punto smetti di pensare in termini di nazionalità o di orgoglio nazionale. Io non penso al paese di origine di una persona, penso a cosa fanno, a cosa piace loro. Siamo arrivati in un momento storico in cui la nazionalità sul passaporto non corrisponde più alla faccia che hai o alla cultura che abiti.
È difficile. Per questo mi piacciono i fumetti. Puoi leggere storie create in ogni parte del mondo e ti insegnano qualcosa di quel luogo. Quando leggo un fumetto non mi preoccupo di dove è stato realizzato ma se mi è piaciuto o meno. Lavorare nel campo delle arti è soddisfacente perché puoi andare oltre i presupposti e dritto al cuore delle persone.
Questo tuo multiculturalismo ha influenzato il tuo stile o sono state solo le tue letture, a prescindere, a plasmare il tuo gusto?
Entrambi. A differenza dei film, dove c’è una potenza – per esempio Hollywood – che impone uno standard, per i fumetti ognuno dei grandi mercati – America, Francia, Italia, Giappone – sviluppa il concetto di mainstream in maniera indipendente, perché sono culturalmente separati. Hanno stili, formati, narrazioni diverse. Solo recentemente, grazie a internet, ognuno è consapevole di ciò che fa l’altro. C’è un gruppo, magari non nel mainstream, che è conscio di ciò che succede dall’altra parte del mondo, che conosce tanto i fumetti americani quanto quelli francesi.
Vivere in varie parti del mondo mi ha aiutato a conoscere le varie scene fumettistiche e capire come lavoro. Per me è stato interessante scoprire come le persone di paesi diverso leggono i fumetti. La domanda fondamentale è quella, «come legge una nazione rispetto a un’altra?». Quando realizzo fumetto, inconsciamente, utilizzo le soluzioni migliori per ogni problema perché ne ho viste tante e so, più o meno, qual è quella più efficace.
Che ragazzo eri a sedici anni?
Oh, sedici anni è proprio la mia età perfetta. Vivevo in Spagna e desideravo frequentare un liceo artistico. Non ero bravo in matematica e volevo studiare nel campo delle arti. Fu incredibile. Passai dall’essere l’unico ragazzino che disegnava in classe a una classe dove tutti disegnavano. E a tutti piacevano le cose che piacevano a me. Ero nella mia tribù, fu molto liberatorio.
Quando scopristi i fumetti?
Da bambino. E fin da subito mi piaceva disegnare. Disegnavo direttamente fumetti, non illustrazioni o immagini singole ma sequenze di disegni. Già da bambino costruivo i miei piccoli fumetti spillati. Fin dall’inizio il punto era avere una storia da raccontare, qualcosa da dire alle persone. E penso abbia anche a che fare con il fatto che ero un bambino che stava imparando il giapponese e lo spagnolo. All’asilo mescolavo le parole, usavo un termine giapponese in una frase in spagnolo e la gente mi guardava strano.
Se fin da piccolo sei abituato a non farti capire dagli altri sviluppi una forma di comunicazione alternativa. I fumetti erano un modo più comodo e semplice di comunicare. Sono sempre stati al mio fianco. Alle elementari realizzai tante fanzine, lo stesso feci più avanti con i miei amici del liceo. Anche adesso continuo a lavorare sui miei progetti in maniera indipendente e la logica è la stessa di quando ero bambino. Solo che ora ho più risorse.
Eri la tua piccola casa editrice?
Sì, in pratica sì.
Ti piacerebbe farlo su scala più grande?
No, è difficilissimo. Mi fido dei professionisti. Però quello che mi piace del lavoro è che, quando realizzo commission, sono completamente schiavo del committente e ci lavoro finché non è contento del risultato finale. Mentre invece quando lavoro a qualcosa di mio – da solo o con un altro autore – lo faccio senza una scadenza, finché non è come voglio io, senza preoccuparmi dei lettori o dell’editore. Una volta finito, passiamo il testimone agli adulti. È un approccio DIY che ho ereditato dai miei primi fumetti e a cui tengo fede ancora oggi.
Come è nato I Kill Giants?
Già all’università collaboravo con alcune riviste, poi nel 2006 incontrai Joe Kelly durante una convention dove stavo promuovendo un’antologia che avevo realizzato. Firmavo le copie nel banchetto accanto al suo. Joe è un tipo molto alla mano. Mi scrisse un’e-mail poco dopo dicendo che aveva una sceneggiatura su cui avrei potuto lavorare. E la sceneggiatura era quella di I Kill Giants.
Il problema è che mi mancava un anno alla laurea. Gli scrissi dicendo che non potevo dedicarmi completamente al progetto perché dovevo finire l’università. Joe fu così gentile da dirmi «certo, aspetterò, nessun problema». E nel 2007 mi laureai e fummo pronti per partire. All’epoca fu una vera sfida perché non avevo mia lavorato a nulla di così imponente.
Quale fu la sfida più difficile?
A dire la verità, quando accettai – e lo dissi anche a Joe – non sapevo quello che stavo facendo. Non avevo mai disegnato un fumetto di quella portata. La cosa buona è che avevo una sceneggiatura molto valida.
Ti diede una sceneggiatura molto specifica?
Joe è molto bravo perché non ti dà indicazioni specifiche ma solo nel modo in cui scrive hai l’idea di che inquadratura sta cercando. Quindi è bravissimo in quello. È aperto alla discussione. Fu il mio insegnante, parlavamo a lungo di ogni scelta. E i suoi script sono fatti come lui, molto aperti. Ma vedi che c’è un’intenzione dietro. Tuttavia, se cambi qualcosa è aperto alla discussione. Ma i suoi copioni sono perfetti: elastici perché tu ti senta a tuo agio nel modificare le cose, ma precisi abbastanza da non risultare confusi o poco chiari.
Come collaboraste?
Lavorammo molto sullo storyboard e in quel momento la sua scrittura e il mio disegno erano fisicamente sulla stessa pagina, fu il punto più stretto della nostra collaborazione. La scelta del bianco e nero, per esempio, avvenne lì. Per tutta una serie di ragioni, prima tra tutti il fatto che lavorare in bianco e nero è più veloce. E poi mi piacciono i manga, che sono tutti in bianco e nero. Penso che il bianco e nero ti faccia arrivare prima al cuore della storia. Certo, dipende dalla storia ma puoi rendere le cose più simboliche e astratte senza i colori. I colori aggiungono un livello in più di informazioni ma anche di difficoltà.
Fu una tua decisione quindi?
Sì, approvata da Joe ovviamente. Lui è americano quindi la sua prima idea fu di farlo a colori, perché è così che sono tutti i fumetti statunitensi.
E poi sulla scelta delle inquadrature, influenzate dai manga, fu altrettanto aperto alle ibridazioni. Tutto questo processo durò a lungo. Ci volle un anno solo di pre-produzione, il design dei personaggi, la ricerca di uno stile, perché provavo cose diverse e solo quando trovammo una soluzione iniziai a disegnare davvero. E per quello mi ci vollero sette o otto mesi. Fu come andare a scuola e avere un grande insegnante con cui parlare liberamente senza censurarsi. Per un debuttante come me fu grandioso.
In una pagina in bianco e nero, l’occhio del lettore si concentra sulla linea. Come lavorasti sul segno?
È una continuazione del mio stile che già avevo, ma mi presi circa due mesi solo per lavorare sul segno. Non avevo mai lavorato in bianco e nero e basta, mi ci volle un po’ per rendere leggibile il mio stile senza l’aiuto del colore. Una delle mie preoccupazioni maggiori quando disegno è «Si capisce quello che voglio dire? Ci sono abbastanza informazioni?».
Il bianco e nero ti fa perdere in specificità, con i colori devi per forza definire le cose, i volumi e gli spazi, con il bianco e nero puoi suggerire di più, lasciare le cose sfumate, volendo. Hai questa elasticità per cui puoi essere estremamente chiaro con la tua linea dove serve, oppure lasciare spazi indefiniti. Vedendo il film ho capito che questo è uno degli aspetti più belli del fumetto, poter imbrogliare e non dover seguire sempre una precisa regola stilistica.
La tua linea è molto spontanea. Come arrivi a quel risultato, disegni molto o improvvisi?
Paragonerei il mio metodo a quello di un musicista jazz. Quando disegno le matite, disegno un sacco, cancello, disegno, cancello, ridisegno. Ci tengo che la composizione sia chiara. Una volta finito questo processo – e a volte la pagina è un vero casino! – arrivano le chine. E qui comincio a divertirmi, perché so cosa c’è sotto e su quello posso improvvisare se voglio. Se fosse musica, saprei che il ritmo va bene, la struttura è giusta e tutto il resto posso cambiarlo se mi va. Posso improvvisare e divertirmi, fare cose strane. Per questo la linea è così informale. Mi assicuro che quello che c’è sotto sia corretto.
Sono andato a vedere una mostra di Hokusai. Non lo sapevo ma ha fatto anche tanti disegni a china e ce n’era uno con un dragone su una bandiera. Era disegnato sulla stoffa e si vedevano tutti i segni, si vedeva la mano che li avevi disegnati. Era un disegno di duecento anni fa ed era così vivo. Quello è il tipo di linea che mi commuove.
Parlando di influenze, in un’intervista a Paul Gravett citavi Hayao Miyazaki e Werner Herzog come due ispirazioni per il tuo lavoro. Sono due nomi che non si vede associare molto spesso, cosa li accomuna nella tua testa?
Beh, Miyazaki è Miyazaki. Va oltre il razionale, il suo universo è una cosa incredibile, guardi i suoi film e c’è una ricchezza nelle immagini che crea, un’artigianalità che è difficile da ottenere in un lavoro collaborativo dove spesso si perde il contributo del singolo. Quando è morto Isao Takahata ho riflettuto sulla loro eredità. Li dai per scontati, perché creano queste opere granitiche che resistono al tempo e sembrano immortali, così pensi che lo siano anche loro. Pensi «Certo, è Totoro, certo, è Laputa», sono sempre stati lì. Invece no, c’era un momento in cui non esistevano e anche se adesso sembrano uno standard c’è stato un tempo in cui quelli erano film rischiosi. Nel caso di Herzog, è un autore che ammiro molto. Non credo che traspaia dal mio lavoro [ride]. Ci sono però cose nel modo in cui lavora… È bravissimo a fare cose che stanno a metà tra film e documentario e sono vive.
Herzog si relaziona a Miyazaki, credo, nella capacità comune che hanno di catturare la vita anche nei momenti più piccoli. Sono entrambi molto poetici e giocano con idee astratte che però restano attinenti alle storie che raccontano. Mondi specifici che però restano comprensibili. A volte gli autori non si sforzano abbastanza di rendere chiare le cose. Mi piacciono le cose artistiche e un po’ astruse, ma a volte, come spettatore, è frustrante percepire che l’autore non si sta sforzando in alcun modo di comunicare con gli altri.
Non so se a te sembra una lettura sensata, ma un po’ di Herzog lo vedo in I Kill Giants. Herzog trova la bellezza nei posti più insensati del mondo. E in I Kill Giants non c’è alcun tentativo di rendere gli ambienti belli. Nemmeno la protagonista è “carina” nel senso comune. Sono posti brutti da vedere perché la sua vita è brutta da vivere. Ma alla fine trovi il bello anche in questi luoghi grezzi.
Oh, è una cosa bellissima, grazie. Non lo so… Ci sono tante persone che hanno realizzato opere prima di te e ti ispiri a tanti di loro, cercando di proporre qualcosa di nuovo. Per la bellezza – qualsiasi cosa voglia dire – o, meglio, l’estetica, è la stessa cosa. A prescindere da quelli che sono i canoni estetici, se tutti dicono che qualcosa è bello, lo penso anche io? Voglio veicolare anche io quell’immaginario? Herzog è bravissimo in questo. In luoghi dove nessuno voleva guardare lui trova una cosa bellissima che sta succedendo. La sfida, forse, è quella: trovare la bellezza dove nessuno la sta cercando.
I Kill Giants ha quasi dieci anni. L’hai riletto?
Non penso di averlo riletto di recente, ma ho ancora un forte legame con quel fumetto. Siamo stati fortunati, io e Joe, ad aver avuto quest’idea che poi è esplosa. È una cosa molto intima, il fumetto. Ed è stato un processo molto lungo, durato dieci anni, di lettori che a poco a poco scoprivano il nostro lavoro.
Negli ultimi due anni abbiamo seguito la lavorazione del film. Poi quest’anno è uscito. E due settimane fa è uscito in Giappone, che credo fosse l’ultimo paese in ordine di distribuzione. Ho incontrato Joe, poi sono venuto qui [a Lucca] e il cerchio sembra si sia chiuso. Stiamo lavorando a un nuovo progetto insieme e guardiamo al futuro. Ma devo tutto a I Kill Giants e a Joe, che si è fidato di questo novellino, e ai lettori che ci leggono. Allo stesso tempo è nostro dovere produrre nuove cose. La prossima opera su cui stiamo lavorando non ha niente a che vedere con I Kill Giants. Non faremo il seguito, è un passo in avanti verso nuovi territori.
È sempre un fantasy?
Ci stiamo ancora ragionando. Potrebbero cambiare delle cose, per ora è un fumetto più adulto. A dire il vero, anche I Kill Giants era per adulti. Anzi, lo realizzammo senza un pubblico in mente. E poi lo vedemmo nella lista delle letture per ragazzi. Pensammo «Ah, ok, quindi è per ragazzi, non ci avevamo pensato». Non lo scrivemmo pensando ai ragazzi e penso che questo ci aiutò. Sto realizzando un fumetto online che si chiama Umami e gli editori lo descrivono come un fumetto dai 9 ai 12 anni. E io penso, bene, sono un ragazzino di 12 anni. Ho una percezione molto distorta del pubblico che legge i miei fumetti.
Avete già un editore in mente per il nuovo lavoro?
No, è presto. Non sappiamo nemmeno che in formato lo pubblicheremo. Non è un fumetto piacevole su cui lavorare, ma è quello su cui abbiamo bisogno di lavorare. E stiamo trovando il tempo libero per farlo, tra i vari incarichi. Ora che ci stiamo lavorando posso dire che ci farà molto bene. Su I Kill Giants ci trovammo d’accordo su molte cose, senza nemmeno parlarne. Nel nuovo fumetto, leggendo la sceneggiatura, ho visto che c’era questo personaggio e ho pensato «Ma questo sono io!» e così, giusto per avere un riferimento, l’ho disegnato con il mio aspetto. E Joe mi ha detto «No, quando l’ho scritto stavo pensando a me». Questo ti fa capire quanto siamo simili.
Dopo I Kill Giants, che tipo di offerte ti hanno fatto?
Mi hanno fatto alcune proposte, in Francia e in America soprattutto. Anche in Giappone. L’altro giorno qualcuno mi ha detto che ero riuscito a mantenere il mio stile personale in tutti questi lavori. La verità è che ho fatto delle prove per la Marvel, tentando di adattare il mio stile al loro. E la realtà è che non ci riesco, non sono bravo abbastanza per adattarmi al loro modo di disegnare. Mi sembrava innaturale. Così ho provato altre opzioni, spesso mi riuscivano ma non mi sentivo mai a mio agio. In Giappone, l’editore per cui lavoro è lo stesso per cui lavora Taiyo Matsumoto. La rivista non esiste più ma era il mio sogno, mi piaceva il loro modo di lavorare e discutere della storia con l’editor. Ho capito con il tempo che l’editor non sa cosa fare di me. Nel senso che non hanno idea di come proporre il mio lavoro o che tipo di progetti affidarmi.
Al momento sto lavorando da due anni su un progetto personale e mi sento finalmente a mio agio, ho trovato il modo di raccontare le storie e so quale spazio occupo. È stato un processo molto lungo, tentando di capire in qualche mercati posizionarmi, un lungo processo di trial and error tra me, gli editor e tutti quelli coinvolti.
Alla Marvel mi sembrano molto aperti allo stile personale. È solo un problema di non voler essere un ingranaggio della macchina?
In effetti sono molto aperti e ci sarebbero diversi personaggi con cui potrei lavorare. Ma sono più interessato a lavorare a progetti personali. Penso di sapere finalmente cosa voglio dire con i miei fumetti. E devo dirlo, in fretta.
Leggi anche: “I Kill Giants” e il fantasy del trauma