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Taiwan, tra storia e generazioni

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Il regista e fumettista taiwanese Sean Chuang sarà tra gli ospiti internazionali di Lucca Comics & Games 2018, in collaborazione con add editore.


anni 80 taiwan Sean Chuang

Sean Chuang, regista indipendente di un certo successo, è un personaggio chiave del nuovo cinema taiwanese, ma anche disegnatore di talento e fumettista. Ha un tratto fortemente espressivo anche nelle sue più vistose indecisioni, capace di alternare un registro alto a uno basso, con un’ampia gamma disfumature ed espressioni. Conosce la lezione del manga e, verrebbe da dire, tanto fumetto internazionale, ma gioca soprattutto sulla sua capacità di rendere felice l’incontro tra lo sguardo del narratore visivo in movimento – il regista cinematografico amante delle inquadrature ma anche della dinamicità dei movimenti di camera e del montaggio – e quello frazionato – l’autore completo di fumetti che ragiona per closure delle tavole e per spazi dei baloon, oltre che per inquadrature.

Sullo stile di Chuang voglio dire poco: ha superato indenne un passaggio che, dall’Europa, spesso consideriamo il principale problema degli autori asiatici non giapponesi. Cioè essere la brutta copia dei mangaka.

Qui entra in gioco il ruolo di add editore, la piccola ma estremamente raffinata casa editrice che sta dando l’assalto all’Asia. Ci sono tanti titoli in ponte in questo momento, dall’India alla Cina, dall’Indonesia alla Birmania e Myanmar. Ne abbiamo parlato, qui su Fumettologica, e ne parleremo ancora.

Il fumetto I miei anni ’80 a Taiwan di Chuang è particolare vista anche l’esperienza asiatica di chi scrive. A Taiwan mi è capitato per motivi di lavoro di andare varie volte e girare un po’ l’isola. Assaggiandone gli umori e i sapori, incontrandone gli abitanti e confrontandomi anche con quei grandi divari che segnano e tracciano gli spazi in Asia: la presenza di indiani, malesi e cinesi a Singapore, per esempio, oppure la particolare genesi di Hong Kong e il suo ruolo cangiante.

Taiwan fa un po’ una partita a se stante. L’isola è uno degli epicentri del sistema digitale planetario, ha fabbriche di altissimo livello per la produzione di silicio (come Giappone e Corea del Sud, ma come non hanno altri paesi a parte alcune cose in Vietnam) ed è proprietaria di grandi aziende come ad esempio l’azienda conosciuta come Foxconn, che poi ha le sue fabbriche in Cina (Shenzen) e in Brasile.

La vita culturale è vivace, le vicinanze come stili di vita e relazioni con l’ambiente geopolitico circostante hanno paradossalmente più similitudini con la Corea che non con la Cina continentale e certamente non con il Giappone, con il quale Taiwan intrattiene un rapporto ancora molto difficile, nonostante i dirigenti d’azienda taiwanesi oggi appartengano alla generazione di Chuang. La prospettiva è quella della vita generale che si intravede attraverso i racconti minimalisti, legati a fatti personali dei dieci anni di vita di Chuang, che arrivano fino al raggiungimento della maggiore età dell’autore e che lo vedono lasciare il piccolo villaggio meridionale dove abitava per spostarsi in un prestigioso liceo artistico della capitale, dove sarà uno studente fuorisede e poi giovane lavoratore.

La vita dell’artista è la misura del cambiamento e il suo racconto riesce a universalizzarsi doppiamente: sia come esempio di quel che succede a Taiwan in quel decennio sia per quello che gli anni Ottanta hanno rappresentato anche in altre parti del mondo. E poi, coglie la scia di quella scia di nostalgia di quell’epoca della nostra storia contemporanea ben interpretata per la televisione oggi da Stranger Things e che passa attraverso la frattura sociale e tecnologica (MTV, l’addio al vinile, i Compact disc e i VHS, la cultura giovanile, lo Space Shuttle, la breakdance, il cinema, il disimpegno, i videogiochi, Michael Jackson e Ghostbusters, Bruce Lee e Tom Cruise, ma anche McDonald’s e i simboli di un cambiamento apparentemente digitale ma ancora analogico nel profondo. La coda ultima saranno i MiniDisc e i LaserDisc, ma siamo ancora lontani dall’esplosione di Internet e di una informatica pervasiva che si è mangiata tutto il mondo.

Il racconto per capitoletti di Chuang diventa così, da un lato, il testamento della gioventù di una generazione che non è stata né carne né pesce. Dall’altro è nostalgia per chi ci si è trovato dentro, sogno irreale e difficile da capire sino in fondo – ma evidentemente affascinante da visitare – per chi è venuto dopo.

I nati negli anni Ottanta e Novanta, per dire, troveranno in queste pagine molta più distanza rispetto al mondo in cui vivono di quanta effettivamente non ne possano trovare quelli nati dalla metà degli anni Sessanta sino alla fine degli anni Settanta. Anche perché è la stessa stagione di robottoni giapponesi, di Vespe e motorini, di benessere economico che non lascia immaginare altri problemi, di progressiva liberalizzazione ma a un tasso e a un passo accettabili.

Chi invece è nato prima, all’inizio degli anni Sessanta o nei decenni precedenti, probabilmente trova un senso di straniamento uguale se non superiore a chi invece viene dagli anni Ottanta e Novanta. Doppio straniamento perché quell’Asia lontana, irraggiungibile e sempre letta o mediata dal cinema in chiave mitica, non si aggancia neanche tramite l’empatia dell’appartenere alla medesima generazione e quindi di ritrovare quei segnali in codice, quelle parole chiave e quei simboli che uniscono gli appartenenti allo stesso gruppo di età e non si fanno capire dagli altri.

Alla fine, I miei anni ’80 a Taiwan è un fumetto adulto per adulti che parla di ragazzi, figlio di una cultura e di una generazione che non vede alcun problema a raccontarsi anche attraverso questa forma d’arte (anziché il memoriale o l’autobiografia: ma questo fumetto è una autobiografia, da un certo punto di vista), costruito giocando su stili di disegno e di narrazione molto differenti tra loro ma che, come per magia, si tengono assieme senza sbavature. Meglio, per dire, di tante storie ambientate negli anni Ottanta e non solo.


E ora concedetemi due digressioni. Gli anni Ottanta sono una stagione molto intrigante, almeno per chi è appassionato di generazioni o per chi è nato tra il 1967 e il 1987, cioè quella che viene chiamata “Generazione X”, secondo la doppia definizione dello scrittore Douglas Coupland e dei due consulenti che sono alla base della moderna idea di “generazioni”, cioè William Strauss e Neil Howe.

Prima digressione: le generazioni

L’idea di generazione è terribilmente ambigua. E anche di decennio, se è per questo. C’è intanto una aleatorietà di fondo: i decenni sono definiti sulla base del fatto che contiamo in un certo modo (in base dieci) e sul particolare tipo di calendario che la nostra società segue. Già se si va in Cina o a Taiwan, ad esempio, si conta in un altro modo. Ma è l’occidente a dominare il pianeta e la conseguenza è che la settimana, il mese e l’anno sono quelli dell’attuale calendario gregoriano.

Accettiamo che si conti così e che l’arco di tempo di dieci anni partendo dalla nuova decina dell’anno sia quella che definisce un arco di tempo omogeneo e rilevante. Rimane il tema di cosa si parli quando si parla di generazioni. Qui c’è da fare una osservazione che secondo me è spesso sottovalutata, nonostante o forse proprio perché viviamo in un’epoca sempre più globalizzata, cioè in cui tutto accade contemporaneamente in tutto il mondo e le culture stanno tendendo a uniformarsi – o a dissociarsi in macro-isole, se vogliamo, ma con una consapevolezza reciproca prima parzialmente assente.

In questo modo, l’idea stessa di generazione acquista un sapore diverso. Perché quello a cui facciamo riferimento quando parliamo di “generazioni” non è tanto un concetto demografico o storico, quanto un’idea partorita, cresciuta e arricchita da due consulenti, i succitati Strauss e Howe, a partire guarda caso dalla fine degli anni Ottanta. I due hanno scritto una serie di libri e articoli per portare avanti il concetto della “Fourth Turning theory” o più in breve “Fourth Turning”, pubblicando il loro lavoro principale nel 1991, Generations (mai tradotto in italiano, che io sappia). Il libro è stato scritto parlando della storia degli Stati Uniti, e quindi fa sostanzialmente riferimento a quel paese.

Il pensiero dei due consulenti in sintesi è questo: gli eventi storici sono associati a personaggi generazionali ricorrenti (detti “Archetipo”). Queste “persone generazionali” creano una nuova era (chiamata “svolta”, cioè “turning”) in cui esiste un nuovo clima politico. Queste ere successive (le svolte) avvengono sotto una particolare generazione dominante e tendono a durare intorno ai 20-22 anni, la durata di una generazione secondo Strauss e Howe.

Non è finita qui. Le ere fanno parte di un “saeculum”, un ciclo più ampio che dura quanto potrebbe essere in teoria lunga una vita umana, che di solito arriva a 80-90 anni, anche se alcuni “saecula” sono durati più a lungo. La teoria afferma che dopo ogni Saeculum, nella storia americana c’è sempre stata una crisi, che però è stata poi seguita da una ripresa.

Durante questa ripresa, le istituzioni e i valori comuni sono forti. Gli archetipi generazionali successivi (le generazioni che seguono) attaccano e indeboliscono le istituzioni in nome dell’autonomia e dell’individualismo, che alla fine crea un ambiente politico tumultuoso che fa maturare le condizioni per un’altra crisi.

Non so se avete capito il giochino, ma forse un altro esempio lo spiega meglio. Gli archetipi sono quattro: Profet, Nomade, Eroe, Artista. Anche le svolte sono quattro: Alto, Risveglio, Disvelamento, Crisi. (Me le sono tradotte io dall’inglese, abbiate pazienza se sono state tradotte altrove in altro modo).

Allora, Strauss e Howe combinano una ricerca basata sulla storia con una visione profetica dell’esistenza. I due studiano la storia americana e ci sovrappongono la loro idea di generazioni per estrarre una regolarità. Cioè, praticamente Strauss e Howe descrivono la storia degli Stati Uniti come una successione di biografie generazionali dal 1584 ad oggi, e descrivono un ciclo generazionale ricorrente nella storia americana. Gli autori presentano uno schema di quattro fasi ripetitive, tipi generazionali e un ciclo ricorrente di risvegli spirituali e crisi secolari, dai coloni fondatori dell’America fino ai giorni nostri.

Le quattro generazioni sono sempre presenti, ma con età biologica diversa (perché 80 anni diviso venti anni fa quattro, proprio come le generazioni: coincidenza?). Questo vuol dire che una nuova generazione respira l’aria di una fase storica, un’altra è giovane, un’altra ancora è matura e l’ultima infine è vecchia e rincoglionita. Generalmente i trisnonni non conoscono i nipoti (la distanza che li separa è quella di cinque generazioni), che è come dire che una generazione non ha mai l’opportunità di incontrare se stessa appena nata.

L’incrocio tra i tipi diversi di svolte e di generazione crea la storia, cioè i Saeculum. Un esempio antico: il New World Saeculum dura 112 anni ed è fatto così:

Puritan Generation (1588–1617) (profeti)
Cavalier Generation (1618–1647) (nomadi)
Glorious Generation (1648–1673) (eroi)
Enlightenment Generation (1674–1700) (artisti)

Invece il Millennial Saeculum attualmente in corso (che nel 2018 ha compiuto 75 anni) è fatto così:

Baby Boom Generation (1943–1960) (profeti)
Generation X (1961–1981) (nomadi)
Millennial Generation (1982–2004) (eroi)
Homeland Generation (2005–oggi) (artisti)

anni 80 taiwan Sean Chuang

Ricapitolando: la vita arriva fino a circa 80 anni. La possiamo dividere in quattro fasi di venti anni circa: infanzia, gioventù, maturità, vecchiaia. Una generazione è un aggregato di persone nate ogni venti anni. Ogni generazione si trova a vivere quattro “svolte”: alto, risveglio, disvelamento, crisi. Le generazioni sono di due tipi: dominanti (carattere indipendente e capaci di definire un’epoca) o recessive (ruolo dipendente, subiscono un’epoca). Le generazioni dominanti sono quelle dei profeti (risveglio quando sono nel periodo della gioventù) e degli eroi (crisi nel periodo della gioventù). Le generazioni recessive sono quelle dei nomadi (disvelamento nel periodo della gioventù) e degli artisti (“alto” quando diventano giovani).

Tre osservazioni. La prima è di metodo. Secondo Strauss e Howe i loro tipi generazionali sono apparsi nella storia anglo-americana in un ordine fisso per più di 500 anni con un solo intoppo, verificatosi nel Saeculum della Guerra civile. Dicono che la ragione di questo intoppo dovuto al fatto che la Guerra civile americana è arrivata con circa dieci anni di anticipo; le generazioni adulte permisero agli aspetti peggiori delle loro personalità generazionali di venire fuori. In quel contesto i giovani sono cresciuti spaventati e feriti piuttosto che nobilitati da quel che stava succedendo. Questo non ha però cambiato il conteggio complessivo.

Seconda osservazione: i due avevano chiamato la generazione X come “Tredicesima generazione” (che per un anglosassone è un numero sfortunato, equivalente del nostro 17). Poi il libro di Douglas Copland ha tirato fuori l’idea di una X Generations (che c’era già stata in realtà, perché era stata chiamata così anche quella dei nati immediatamente dopo la seconda guerra mondiale, cioè i baby boomers).

Terza osservazione: questa teoria, molto erudita e con dei gran fan (ad esempio: Al Gore, vicepresidente di Bill Clinton, che ha studiato ad Harvard con uno dei due autori, considera Generations uno dei libri di storia più importanti di sempre e ne regalò una copia a tutti i membri del Congresso) è una specie di oroscopo travestito da discorso sensato. Fa una partizione ovviamente arbitraria, costruisce una serie di simbologie e su queste inizia a registrare lo scorrere del tempo come se fosse una necessità che le cose vadano in un certo modo. L’ambizione intellettuale non è differente da quella degli astronomi babilonesi, degli aruspici romani o di Rasputin: anziché descrivere cercare di prevedere e quindi influenzare.

C’è molto da imparare quando guardiamo al libro di Sean Chuang: la distinzione degli anni Ottanta ha senso ma semplicemente come ritaglio biografico di un uomo nato nel 1968 e cresciuto in un particolare contesto, cioè a Taiwan. E poi viene da pensare che tutti i moderni ragionamenti di carattere generazionale si basano sempre su un DNA che è invece, come abbiamo visto, strettamente intrecciato con la cultura statunitense. Cosa che mi offre il destro per agganciare la seconda digressione.

Seconda digressione: Taiwan

taiwan

Le generazioni hanno cominciato a cambiare la propria natura proprio negli anni Ottanta. La televisione sempre più diffusa è stata probabilmente la vera leva, più della guerra e relativa occupazione, della letteratura e del cinema (tutti film religiosamente statunitensi) per sincronizzare lo spirito del pianeta. Non c’era riuscito l’impero britannico, c’è parzialmente riuscito l’impero sovietico, ma a partire dal piano di egemonia culturale statunitense (il piano cosiddetto Marshall) la penetrazione dell’immaginario di quel Paese è stata capillare in tutto il mondo.

Però Taiwan negli anni Ottanta era veramente un altro animale. Intanto dov’è: si tratta di un’isola che un tempo era chiamata Formosa (così l’avevano battezzata gli esploratori spagnoli nel 1542: “Ilha formosa”, cioè “Bella isola”). Dista 180 chilometri dalle coste cinesi (il mare che li separa si chiama “Stretto di Taiwan”), a nord è bagnata dal mare cinese orientale, a sud dal mare delle filippine. È a cavallo del tropico del Cancro ed ha un clima tropicale. È un’isola di forma oblunga, tanto che gli abitanti la chiamano “patata dolce”, montagnosa a est e con una lunga pianura a ovest, il lato che dà verso la Cina. La superficie è di circa 36mila chilometri quadrati (un po’ più piccola della Svizzera, un po’ più grande del Belgio) ed è abitata da 23,5 milioni di persone.

La sua storia è particolare. Taiwan si reputa essere la vera Cina (e tale è stata considerata a lungo, dopo la guerra) perché è sede del governo nazionalista cinese in esilio. Un bigino veloce di storia di Taiwan: l’isola era popolata da aborigeni e fu la colonizzazione spagnola e poi portoghese ad aprire la strada ai coloni cinesi di etnia Han (l’etnia dominante in Cina). Dopo una breve parentesi come regno autonomo è stata annessa all’impero cinese nel 1683 e tale è rimasta fino all’occupazione giapponese nel 1895: al termine della guerra Sino-giapponese l’isola venne ceduta all’impero giapponese (che si trova immediatamente a nord). Mentre era in mano ai giapponesi la Cina visse una grande trasformazione: l’impero Quiong cadde e nacque la Repubblica di Cina nel 1912. Erano tempi difficili, ci fu un lungo periodo di dominazione giapponese ma dopo cinquant’anni esatti, nel 1945, il Giappone venne sconfitto dagli americani a suon di bombe atomiche e tra le altre cose Taiwan venne annesso alla Repubblica di Cina. Peccato che ci fosse un altro problema nella Cina continentale.

Fu l’epoca della guerra civile cinese, tra comunisti (Mao Zedong) da un lato e nazionalisti con il partito Kuomintang, all’epoca guidato da Chiang Kai-shek, erede diretto di quella Alleanza rivoluzionaria che aveva sconfitto l’impero Quiong e creato la Repubblica di Cina. La Repubblica di Cina inizia nel 1912 e finisce, secondo i libri di storia, nel 1949, dopo un periodo di combattimenti e terrore che sono paragonabili ai momenti peggiori della rivoluzione francese (o dell’occupazione giapponese della Cina continentale). Alla fine, vinsero i comunisti e il Kuomintang si diede alla fuga. Destinazione: Taiwan.

L’isola divenne in questo modo la prosecuzione giuridica e in parte la forma di continuità anche territoriale della Repubblica di Cina, tanto che nella nascente Organizzazione delle Nazioni Unite (creata a San Francisco il 26 giugno del 1945) il seggio per la Cina reduce dalla guerra mondiale venne riservato proprio a loro. Seguirono alcuni decenni piuttosto interessanti dal punto di vista del diritto internazionale e delle relazioni diplomatiche planetarie, perché quella grande massa di terra comunista che era la Cina continentale non veniva riconosciuta dalle Nazioni unite (ma solo da alcuni paesi, tipo l’Unione sovietica), mentre la piccola Taiwan aveva un ruolo di membro permanente del Consiglio di sicurezza (che poi era il motivo per cui non si voleva riconoscere la Cina di Pechino come effettivamente Cina). Il seggio alle Nazioni unite venne passato alla Repubblica popolare cinese (Pechino) solo nel 1971, dopo che però Taiwan aveva perso pezzi importanti, come ad esempio la vicina penisola dello Hainan e decine di piccole isolette.

anni 80 taiwan Sean Chuang

Ancora oggi ci sono compagnie aeree differenti, stati che per avere relazioni diplomatiche con la Cina di Pechino devono rifiutarsi di riconoscere la Cina di Taiwan (pensate ai problemi per i campionati di calcio, alle problematiche legate alle olimpiadi e alle altre organizzazioni di eventi culturali, degli Expo, dei campionati di scacchi e di matematica, e di associazioni di vario genere inclusa la filatelia, oppure l’Unione postale) lasciando uno dei principali nodi nell’armonia planetaria ovviamente dopo l’altro nodo etnico-religioso legato a Gerusalemme.

Tuttavia, il problema vero, da nostro punto di vista, era la vita a Taiwan, capitale Taipei. Il paese dopo la guerra divenne di fatto un sistema dittatoriale a guida di un singolo partito militare (il Kuomintang) perennemente pronto alla guerra, con tanto di legge marziale e coprifuoco sempre attivi. Tuttavia, a partire dagli anni Sessanta, grazie alla posizione strategica e agli aiuti americani Taiwan divenne anche un paese ricco: fu un periodo di rapida crescita economica e di industrializzazione, con la creazione di una economia industriale vera e ben radicata. Qualcosa di simile al boom economico italiano.

Alla fine, visto che le tensioni politiche dei movimenti della fine degli anni Sessanta (il nostro ’68) e poi della fine degli anni Settanta (il ’77) non accennavano a diminuire, cominciarono opere di disgelo che portarono alla creazione di un sistema semi-presidenziale multipartitico. Gli anni Ottanta sono proprio il momento di cambiamento. Con una inquietante simmetria rispetto al sistema italiano (che negli anni Ottanta da noi vide il superamento dei monocolori democristiani o delle vecchie formule del pentapartito, con invece la nascita del Centrosinistra a guida alternata socialista e l’apertura del sistema televisivo privato, di una economia in frizzante crescita anche se a scapito del debito pubblico e della legalità) gli anni Ottanta sono il momento del cambiamento per Taiwan.

Si aprono le grandi librerie nei centri cittadini più importanti, si può ballare in pubblico, si può anche andare a scuola con i capelli lunghi (la legge marziale lo vietava) e vengono accesi nuovi canali televisivi attraverso i quali arriva ancora più cultura americana ma anche la cultura dei vicini giapponesi, che in questo periodo storico hanno una loro industria culturale talmente efficiente che cominciano a proiettare manga e anime in tutto il mondo, dal sud-est asiatico fino alla lontana Europa ed Italia.

Gli anni Ottanta sono un momento di particolare interesse perché, oltre alla cultura italiana ed europea, anche quella di altre parti del mondo cambia marcia e velocità, entrando in sincronia con un modello internazionalista di cultura universale. È il plesso che si flette per il cambiamento che porta all’epoca nella quale viviamo adesso. E, come accadde nell’Italia degli anni Ottanta, la generazione che ha passato i suoi “teen”, la sua gioventù in quel decennio, ne ha sentito profondamente il senso.

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