La storia della santa Russia del pittore e incisore francese del diciannovesimo secolo Gustave Doré è un volume composto da oltre 500 vignette, un’opera satirica figlia del proprio tempo, ma soprattutto uno dei più significativi esempi di protofumetto. Prodotto nel 1854, il libro conduce una satira apertamente politica che gioca su stereotipi nazionalisti, prendendo di mira la Russia, contro cui Francia e Inghilterra erano da poco entrati in guerra.
Pubblichiamo in esclusiva, per concessione di Eris Edizioni, l’introduzione al volume Storia della Santa Russia di Gustave Doré, scritta da Guillaume Dégé, artista e scrittore francese.
Abbasso i russi!
Ora un bello stile non è tale, in effetti, se non in virtù del numero infinito di verità che presenta. Tutte le bellezze intellettuali che vi si trovano, tutti i nessi logici di cui è composto, sono verità altrettanto utili, e forse più preziose per lo spirito umano, di quelle che ne costituiscono le fondamenta del suo argomento”.
Buffon, Discorso sullo stile, pronunciato domenica 25 agosto 1753
Per scrivere una postfazione degna di questo libro dovrei usare tutte le trovate tipografiche esistenti: caratteri con le grazie e senza grazie, lettere stravaganti, una calligrafia arzigogolata, una punteggiatura enfatica, soluzioni grafiche dadaiste, e nonostante questo tormentato garbuglio della forma il testo dovrebbe restare perfettamente leggibile. Al contempo dovrei caricare la mia penna a forma di sciabola di cosacco con una miscela di inchiostri difficilmente assimilabili, come quelli di Alphonse Allais, di Lawrence Sterne, di Émile Littré e del signor Buffon. Come per il libro di Doré anche questo testo dovrebbe essere letto tutto d’un fiato e senza che il lettore, almeno di primo acchito, abbia la sensazione di essere finito in un immenso collage, sintesi di un’arte che ancora non esiste.
Tutto dovrebbe chiarirsi alla seconda lettura. Solo allora il lettore sarebbe autorizzato a non capirci più niente. Ma torniamo all’oggetto di questa postfazione: la Santa Russia.
La storia è molto semplice, come il Bolero di Ravel: un tema che si amplia, si deforma, si enfatizza. Una barbara volontà di potere (ma l’ambizione frenetica non è sempre pungolata da una barbarie assoluta?), un reale problema di digestione e la morte dell’eroe – tutto raccontato in una o due pagine, in modo ripetitivo e condito dal tenace rancore nato dal peso di una passività storica: l’incredibile calcio nel culo inflitto dal Generale Inverno e dalla cavalleria leggera dello Zar alla Grande Armata del piccolo caporale nel 1812.
Chi ha letto Madame Bovary di Gustave Flaubert o Lo Straniero di Albert Camus, sa che la storia non ha bisogno di una esagerata ricchezza di dettagli per suscitare l’adesione attenta e durevole del pubblico. D’altra parte se un asparago dipinto da Manet non fosse che un asparago, non sbaglierebbe la massaia che, per risparmiare, cercasse prontamente di metterlo nella sua sporta. Certo, la Guerra di Crimea (1853-1856) fu un ottimo motivo di esaltazione dello spirito bellico del giovane Doré – guerra che ebbe praticamente più morti per il colera che per le armi (60.000 francesi uccisi, un’inezia!). Ma limitarsi a questo significherebbe sminuirne l’opera al rango di quella letteratura patriottarda e revanscista che ebbe una gran fioritura in Francia nel diciannovesimo secolo. Il caso di Doré è evidentemente di tutt’altra natura, e questo unito alla sua assoluta contemporaneità, spiega la necessità di questa nuova edizione.
La circostanza, questa famosa guerra di Crimea, è solo il pretesto per lo sbizzarrirsi dell’autore. È difficile sostenere che Doré abbia rivoluzionato il fumetto, per la semplice ragione che all’epoca ciò che intendiamo per fumetto non esisteva o piuttosto, se si considera, come fanno alcuni, l’opera di Töpffer quale suo atto di nascita (cosa che ne farebbe il Gesù Cristo dell’era grafica moderna e contemporanea, pseudo-verità su cui personalmente nutro forti dubbi), questa famosa nona arte non sarebbe stata che ai suoi primi vagiti. Stando così le cose, diventa un po’ complicato chiedere a un pargolo di tre mesi di realizzare un’opera che mischi Marcel Proust e Groucho Marx.
Gustave Doré ha rivoluzionato ciò che non esisteva. Ed è stata un’impresa notevole. Questa è la differenza tra il genio e il progresso. Il progresso, come dice la parola, è lo svolgersi di un processo (di un continuum fatto di tempo e di tecnica). Il genio invece si colloca in un’epoca determinata (quello che prima ho definito come il pretesto) ed è di tutt’altra natura. Gustave Doré non inventa il fumetto, realizza un’opera. Ha realizzato l’irrinunciabile, l’irriducibile, l’inossidabile. Per ottenere questo risultato, come Bernard Palissy che bruciò i mobili della propria cucina per sublimare gli smalti delle sue ceramiche, ha usato tutto quello che aveva a portata di mano. Doré non si è fermato davanti a nulla: variazioni grafiche, violenze inaudite, ripetizioni, scatologie, sodomia – cose che, come vedremo, lo avvicineranno al marchese de Custine – giochi di parole, disegni infantili, caricature, disegni accademici, macchie colorate e avanzi di altri lavori.
A ogni rilettura nuove sorprese. La serie di processi che concatenava per alimentare la confusione e la crudeltà, sconfina nel parossismo. Il testo, spesso di una comicità feroce e fondato su luoghi comuni formulati come osservazioni dotte ed eufemistiche, è sempre contrapposto a immagini fuori controllo. Senza mezze misure. Quando Doré ripete le sue trovate, lo fa per esasperare una situazione e confondere il lettore fino alla nausea (stavo per dire: fino alle coliche!). Possiamo smontare pezzo a pezzo gli ingranaggi di questa macchina, ma non riusciremo mai, in nessun caso, a duplicarla.
Gustave Doré è un autodidatta. Da bambino ha imparato copiando ciò che aveva sotto gli occhi (soprattutto Grandville); poi, da adolescente, ispirandosi agli artisti che incontrava. Non viene dal mondo accademico, né da quelle istituzioni che, in seguito non smetterà di arruffianarsi.
Come è risaputo però, Doré non è proprio completamente un autodidatta. Giovane prodigio, viene pubblicato molto presto grazie al viatico degli illustratori più in voga della sua epoca (Cham, Grandville, Philipon, Daumier…). Questi grandi predecessori rappresentano per lui altrettante possibilità grafiche da cui attinge, mischiandole ad libitum. Non risultando comunque mai, meno che originale.
Anche se è possibile rintracciare qualche elemento storico verificabile in questa Santa Russia, la tentazione naturalistica non è certo la prima delle preoccupazioni di Doré – in fondo anche all’origine di Madame Bovary c’è un vero fatto di cronaca, ma questo non fa di Flaubert un cronista. I suoi eccessi potrebbero essere ispirati in parte da Lettere dalla Russia di Alphonse de Custine che aveva scritto in particolare: il governo russo è una monarchia assoluta temperata dall’assassinio, Tuttavia le preoccupazioni del fiammeggiante marchese non sono quelle del giovane Gustave.
Custine soddisfaceva la curiosità dei suoi contemporanei, raccontandogli un paese relativamente sconosciuto, che aveva conservato il suo mistero nonostante l’impresa napoleonica. Doré invece costruisce la sua opera partendo da ciò che è risaputo da tutti, non perdendo però occasione, per raggiungere il successo, di disorientare il lettore. Nel 1991, nella sua prefazione alla Santa Russia, Hélène Carrére d’Eucausse ha scritto correttamente: «in definitiva possiamo definire questo splendido volume come una specie di “la Russia vista da lontano”, in cui dietro i luoghi comuni si nasconde una piccola parte di verità». Lo ripeto, la Russia non è che un motivo, un pretesto: non è l’ambientazione che fa l’opera.
La trasformazione, sembra voler dire quest’opera di Doré, si ottiene partendo da ciò che si conosce meglio, dalle idee comuni più abusate. Lo stravolgimento avviene grazie all’associazione vertiginosa di effetti che raramente vengono messi a confronto. Queste associazioni grafiche rinnovando (il termine è un po’ labile) le convenzioni accettate dai suoi contemporanei, pongono molto seriamente la questione di quale sia il ruolo del lettore, del rapporto testo/immagine, della finzione.
Per nostra fortuna, a questo punto della sua carriera, Doré non si è ancora avvicinato ai luoghi della rispettabilità artistica. Immaginiamoci quale razza di pedanti e noiosi critici avrebbe attirato la Santa Russia se non avesse avuto questo taglio comico e derisorio. Qui ci troviamo nel dominio della fantasia, della satira irrispettosa. E la mancanza di rispetto attira solo gli strali della politica: così la censura del Secondo Impero tenterà di sequestrare e distruggere gli esemplari circolanti di quest’opera di Doré, per la politica di distensione con lo Zar, seguita alla fine della guerra di Crimea. Quella stessa censura che vedrà in Madame Bovary un oltraggio alla pubblica morale.
Tre anni dopo La Santa Russia, Doré presenta al pubblico La Battaglia d’Inkerman (5 novembre 1854). La tela misura quattro metri e ottanta per cinque. Enorme.
Èdmon About ha scritto al proposito: «la realizzazione di questa tela della battaglia d’Inkerman non solo è sbagliata, ma è anche colpevole. Non dovrebbe essere permesso rappresentare come scimmie i migliori soldati d’Europa (…) Il Signor Doré è ancor più imperdonabile perché ha dipinto la sua battaglia con assoluta maestria. Il suo dipinto è un capolavoro irrealizzato».
Sbagliata, colpevole, irrealizzata. Stia tranquillo il signor About, per noi che leggiamo La Santa Russia nel XXI secolo, sapere se Doré è o non è un maestro è totalmente superfluo: siamo assolutamente sicuri, invece, di trovarci in presenza di un capolavoro.