I brevi racconti che compongono l’antologia Il giovane Yoshio di Yoshiharu Tsuge sono un esempio perfetto della estraneità del gekiga rispetto al nostro immaginario narrativo-visuale più comune. Una corrente, il gekiga (rappresentata tra gli anni Cinquanta e Settanta su tutti da Tsuge, Yoshihiro Tatsumi, Masahiko Matsumoto, Susumu Katsumata), che non trova termini di paragone e di affinità nel mondo del fumetto, quanto più nel cinema o nella letteratura, nelle loro declinazioni maggiormente dedite a realismo e intimismo.
Leggi la postfazione di Vincenzo Filosa al volume Il giovane Yoshio
Yoshiharu Tsuge, insieme al fratello Tadao, anche lui autore di fumetti, rimase orfano del ricco padre all’età di cinque anni. La perdita del genitore costringe la famiglia a vivere nei bassifondi sulla sponda occidentale del fiume Nata.
Nel contesto di miseria del secondo dopoguerra, come narrato anche in questi racconti prettamente autobiografici (o Watakushi manga, “fumetti su di me”) che appartengono al periodo di maturità dell’autore, Tsuge fa ogni lavoro possibile per sopravvivere: la placcatura dei metalli (Galvanotecnica Ōba, 1973), il raccoglitore di cicche di sigarette allo scopo di recuperarne il tabacco non combusto (Il geco, 1986) fino ad arrivare, intorno ai vent’anni, a vendere il proprio sangue in cambio di denaro. È inoltre vittima di pesanti attacchi depressivi intorno alla metà degli anni Sessanta, quando il successo comincia a lambirlo.
Tutte queste esperienze, inizialmente filtrate attraverso un pesante simbolismo dai toni surreali e onirici (come nella sua storia più celebre, Nejishiki) verranno rielaborate durante il periodo della maturità artistica dell’autore, a partire dai primi anni Settanta del Ventesimo secolo, periodo a cui seguirà un lungo silenzio accompagnato da una volontaria reclusione.
Le storie raccolte ne Il giovane Yoshio, che coprono un periodo di dieci anni che va dal 1973 al 1987, sono racconti minimali, in cui la quotidianità della vita in povertà viene raccontata senza forzature ideologiche e soprattutto senza eroi, lontane dal pur tragico lirismo e dal limpido simbolismo di lavori della sua prima fase produttiva sulla rivista Garo, come l’autobiografico Chiko (1966).
Lo sguardo di Tsuge, che non è mai moralistico né compassionevole, è a tutti gli effetti entomologico anche quando lo rivolge verso se stesso. Uno sguardo che riduce le azioni dei propri personaggi a una serie di rapporti causa-effetto in cui ogni gesto, sia esso di affetto o di bontà, che ogni desiderio sembrano rispondere a una logica incomprensibile.
Sono racconti di smarrimento, questi, in cui la realtà prende il sopravvento con la sua spaventosa e tremenda insensatezza. La grandezza di Tsuge risiede però anche nel non cedere a un facile nichilismo. Nell’universo da lui descritto non c’è fatalità ma semplicemente una serie di azioni insensate che scatenano altre azioni, ugualmente impenetrabili nel loro senso intimo: poco importa che esse siano tragiche, comiche, dolorose o portatrici di fugaci attimi di gioia.
Si guardi al primo racconto della raccolta, il già citato Galvanotecnica Ōba, che descrive il tremendo lavoro dei galvanizzatori, tutto il giorno a contatto, senza protezioni, con pericolose e finanche letali sostanze chimiche. Il giovane Yoshiharu lavora come operaio in uno di questi laboratori. La morte, frequente, dei lavoratori di quel settore viene raccontata in un una manciata di vignette con un distacco che non esprime rassegnazione o che non si configura direttamente come denuncia. Il dato viene semplicemente registrato. Questo accade a un livello superficiale, prettamente verbale: si veda il tono delle didascalie, quasi da asettica nota a margine, che accompagna le prime tavole:
Il capo della galvanotecnica Ōba è morto di tubercolosi un anno fa. Accade spesso agli operai di queste fabbriche. A svolgere il lavoro di rifinitura sono rimasti solo la vedova Ōba e Yoshi, un ragazzo assunto sei mesi prima. Se la cavano a malapena […] La stanza da tre Tatami con vista sullo stagno in cui il ragazzo mangia il pranzo era l’abitazione della famiglia del vecchio capomastro Kaneko. Sua moglie setacciava ogni angolo in cerca di ferraglia. Prima ancora che Ōba morisse anche il signor Kaneko si ammalò e venne sollevato dal suo incarico. Non ricevette una pensione ma gli fu concesso di vivere in quella stanza. Kaneko era così debilitato da non reggersi in piedi e doveva farla nelle fessure tra le travi del pavimento. In realtà più che defecare Kaneko espelleva la proprie interiora in putrefazione. Non era tubercolosi, il suo era avvelenamento da sostanze chimiche. Appena un mese dopo l’arrivo del ragazzo Kaneko morì. Sembrava volesse dire qualcosa ai figli ma riuscì ad emettere solo qualche grugnito incomprensibile. Quel giorno sua moglie non era in casa.
La scena della morte di Kaneko viene osservata dal giovane Yoshiharu che, rivolgendosi alla propria padrona, dice semplicemente, «Signora, Kaneko è morto». Non c’è melodramma in questo segmento, non c’è un esplicito invito alla compassione o all’indignazione. Il lettore trarrà le sue conclusioni.
Lo sguardo del giovane Yoshiharu, che pure soffre, in questo e altri racconti, per le delusioni amorose e la fatica derivante dalla volontà di affermarsi come mangaka, è contemporaneamente il suo e il nostro, uno sguardo immerso nella vita narrata ma al tempo stesso dislocato fuori dalla stessa: una sorta di macchina umana che al tempo stesso vive e registra. Temendo di eccedere in supposizioni si potrebbe dire che questo distacco, questa perdita di senso, potrebbe essere frutto del disturbo depressivo che più volte ha colpito l’artista nel corso della sua vita.
D’altro canto, la fisicità dei corpi e degli oggetti, pure ottemperando alla stessa intenzione cronachistica e in parte distaccata, racconta anche altro. Racconta un mondo in disfacimento in un cui ogni segno, appartenga esso a qualcuno o qualcosa, è immerso in una penombra che è al tempo stessa interiore e oggettiva, se non perfino oggettivante.
Certo, alcuni precisi momenti, gli amplessi, gli atti di violenza, come il pestaggio all’inizio del terzo racconto della raccolta (Al mare) vengono raffigurati raggelati come in una o una serie di istantanee, ma questo contribuisce a comunicarci il senso di irrealtà degli stessi. Ancora una volta la narrazione prevale sul giudizio, che pure è implicito nello sguardo del figlio che assiste alle percosse subite dalla madre, ma che su di esse non si esprime direttamente.
Nulla è davvero eccezionale, tutto è quotidiano. Una terribile quotidianità, certo, sulla quale, per coglierne il senso – sempre che vogliamo trovarlo o che esista – dobbiamo esercitare il nostro sguardo e il nostro giudizio. Quello offerto da Tsuge è un meraviglioso e terribile materiale grezzo.
Il giovane Yoshio
di Yoshiharu Tsuge
traduzione di Vincenzo Filosa
Canicola Edizioni, maggio 2018
Brossurato, 224 pp., b&n
19,00 €