Ogni settimana su Sunday Page un autore o un critico ci spiega una tavola a cui è particolarmente legato o che lo ha colpito per motivi tecnici, artistici o emotivi. Le conversazioni possono divagare nelle acque aperte del fumetto, ma parte tutto dalla stessa domanda: «Se ora ti chiedessi di indicare una pagina che ami di un fumetto, quale sceglieresti e perché?».
Questa domenica è ospite Michele Montelone. Romano, classe 1987, Monteleone ha scritto storie di Battaglia, Long Wei, John Doe, Nick Banana, Dylan Dog e Orfani. Per Star Comics ha firmato gli adattamenti a fumetti di Dracula, L’isola del Tesoro e I delitti della Rue Morgue. La sua ultima fatica, edita da Bao, è il fantasy Senzombra, con Marco Matrone ai disegni.
La tavola che ho scelto, qualcuno potrebbe dire che sono due, ma io non credo nelle divisioni arbitrarie e queste due tavole tratte da Il gusto del cloro di Bastien Vivès, per me ne compongono una sola negli intenti narrativi dell’autore, come fossero una doppia splash.
L’ho scelta perché, secondo me, dimostra cosa è, o meglio a cosa dovrebbe tendere, il fumetto: la costante ricerca di una sintesi, di un nuovo punto di vista sulla narrazione, che sfrutti i limiti e le possibilità del media. E per dimostrare che effettivamente il fumetto è un media che non ha necessità di mutuare da altri il proprio linguaggio e che può progredire autonomamente. È una pagina unicamente composta dalle vetrate sul soffitto di una piscina, il punto di vista del protagonista che sta nuotando a dorso. La soggettiva che si sposta, inquadrando in maniera diversa, sempre più storta, il soffitto.
Stiamo guardando la scena dal punto di vista di un pessimo nuotatore e l’idea del movimento e della sua incapacità di nuotare in linea retta, sono rese entrambe tramite questa visuale insolita. Ma tutto questo non è decodificabile tramite la sola prima tavola, dobbiamo passare alla seconda (ma voi fate finta che non abbia mai parlato di una seconda pagina) per capire il “trucco”. Appare nel campo di visuale del nostro, la testa di una nuotatrice, della ragazza di cui si è innamorato andando in piscina che appunto gli fa notare quanto stia nuotando male.
Un effetto meravigliosamente straniante in cui l’immagine la fa da padrone. Se poi consideriamo che è disegnata in un albo di un ventenne ai suoi primi lavori, ci rendiamo conto di quanto sia eccezionale il talento narrativo di Vivès.
Vivès con questa tecnica della soggettiva ci ha giocato spesso, penso a Nei miei occhi, anche se in quell’occasione il rimando era a un più smaccata soggettiva cinematografica. Secondo te lì il tentativo era di fare un fumetto-film o resta un fumetto-fumetto?
I linguaggi si cannibalizzano fra loro e ne escono, solitamente, più forti. Quello di Nei miei occhi era un bell’esperimento in cui non solo seguivamo una soggettiva in cui guardavamo letteralmente attraverso gli occhi del protagonista, ma neanche “sentivamo” le sue battute, è il classico esempio di una versione positiva di quel cannibalismo e non so se diventa cinema-fumetto, ma sinceramente non penso mi importi neanche moltissimo. Il fumetto è una delle bestie più ibride che ci siano ed è così che penso debba rimanere, anzi ben vengano un paio di teste e qualche coda in più.
Quindi è una pagina a cui pensi come autore quando scrivi o solo un esempio di fumetto fatto bene?
Ci penso, penso sempre a nuovi modi di mostrare le cose, a nuovi punti di vista, nuove prospettive… poi solitamente però prevale la versione più “canonica”. Da una parte è colpa del fatto che non so disegnare e quindi non sono mai certo che la mia idea venga capita da chi legge la mia sceneggiatura o addirittura sia effettivamente realizzabile, dall’altra lavoro più spesso nel fumetto popolare che predilige un linguaggio di più semplice decodifica. Quindi a volte sono costretto di evitare certi trucchi o a rielaborarli in forme meno integraliste e a volte, per quanto sappia che è la scelta giusta, me ne dispiaccio. Per tornare a rispondere puntualmente alla tua domanda, le pagine qui sopra sono l’esempio di un fumetto che secondo me è fatto bene, al quale idealmente tendo quando lavoro e che traina un po’ più in là tutti i linguaggi, compreso quello popolare che, anche se con apparente lentezza, si adatta anche in funzione dei lavori più autoriali.
In generale che rapporto hai con la produzione di Vivès?
Nella mia vita ci sono due cose che amo con particolare fervore e sono le commedie romantiche e (rubo il termine ai 400calci) i film di menare. Quindi va da sé che la produzione di Vivès mi calzi a pennello. Ho letto tutto, spesso sforzandomi di leggerlo prima in originale e poi ringraziando il cielo e le case editrici che lo hanno pubblicato in Italia. Certe sue cose come Nei miei occhi, La macelleria e Il gusto del cloro, le apprezzo più come autore che come lettore, ma trovo che con Una Sorella abbia raggiunto il suo apice sia come narratore che come disegnatore.
Perché dici che le apprezzi più da autore che da lettore?
Più che altro le ho iniziate ad apprezzare di più una volta che sono diventato un autore più cosciente di cosa ci fosse, a livello tecnico, dietro a certe storie apparentemente molto esili. Per capirci: abbiamo parlato di Nei miei occhi e, per quanto ami le storie d’amore e Vivès, non posso chiudere gli occhi (geniale gioco di parole) davanti al fatto che davvero è un esercizio di stile fine a se stesso.
Molto probabilmente un giorno si è svegliato con quest’idea in testa di usare una soggettiva totale per fare un fumetto e se n’è fregato di dover per forza di cose raccontare anche una storia. Lo amo anche per questo, tanto e sinceramente, ma da lettore preferisco quando mi spacco il cervello con Grant Morrison o Tom King. Totalmente un altro paio di maniche sono cose come Per l’impero, Last Man, ma anche Una sorella che, secondo il mio parere, sono tra i fumetti più belli degli ultimi vent’anni. C’è anche da dire che ha scritto opere come Il gusto del cloro che aveva vent’anni e che lui stesso li prende meravigliosamente in giro nelle sue strisce… Mai vista autoironia tanto feroce e genuinamente divertente.
Ti ricordi quand’è che hai scoperto Vivès e quest’opera?
Il gusto del cloro è stato effettivamente il primo fumetto di Vivès che ho letto e ricordo che, arrivato all’ultima pagina, l’ho gettato in un angolo scandalizzato di averlo pagato tanto. Ero molto giovane e non ne capivo ancora molto di fumetto. Amavo la narrativa nella sua forma più classica e diretta: un romanzo russo da mille pagine in cui vengono descritti tutti i pizzi di ogni tavolino da caffè in scena.
Ci ho messo un po’ a capire che in Vivès, e in particolare ne Il gusto del cloro, dovevo concentrarmi più sui silenzi che sulle battute che si scambiavano i personaggi. Continuo a pensare che Last Man o La grande odalisca o Per L’impero siano letture anni luce più appaganti di quasi tutta la produzione più intimista di Vivès, ma ora riesco ad apprezzare anche quella.
Cosa per te è cambiato nel modo in cui guardi ai fumetti che ti ha fatto “capire” Vivès?
Dicevamo che i fumetti sono un meraviglioso ibrido e, proprio per questo, sono difficili da approcciare per qualcuno che voglia diventare un professionista. Ci sono molte cose che ti distraggono in un fumetto: i disegni, la trama, i dialoghi, le didascalie, i colori, ma poi penso che il vero cuore del medium sia la narrazione, nella sua forma più pura, la capacità di trascinare il lettore da una vignetta all’altra senza il minimo sforzo e per riuscire in una simile impresa bisogna riuscire a lavorare in contemporanea con tutti gli elementi che lo compongono senza farne prevalere nessuno.
Io all’inizio ero un lettore forte di narrativa di varia e per questo quello che mi interessava di più negli albi che leggevo era la trama. Solo successivamente ho capito che il fumetto è altro che, anzi, trame debordanti che schiacciano la narrazione nel suo insieme, finiscono per essere dannose. è stato allora che ho scoperto i silenzi di Vivès, la sua incredibile capacità di gestire il ritmo, l’equilibrio quasi magico con cui ogni elemento che compone i suoi racconti è rapportato agli altri. Poi naturalmente mi rendo conto che questa è la mia personalissima visione del fumetto e che, proprio perché composto da tante parti diverse, ogni autore diventi un Frankenstein diverso e si componga la propria creatura come meglio crede.