Akira è un tassello fondamentale della diffusione della cultura pop giapponese in Italia. Sbarcati nel panorama dei media nostrani già negli anni Settanta, cartoni e fumetti giapponesi diventarono però sempre più comuni con gli anni Novanta. Questa “seconda ondata”, guarda caso, si fa canonicamente coincidere con l’arrivo del magnum opus di Katsuhiro Ōtomo, nella sua forma di manga prima e di anime poi.
Uscito nel 1988, dopo una travagliata lavorazione guidata dallo stesso Ōtomo, il film di Akira giunse in Italia solo nella primavera del 1992, dopo qualche proiezione in lingua originale ai festival. Nei cinema italiani ebbe la sfortuna di scontrarsi con la riedizione di Biancaneve e i sette nani, che costituiva un’esperienza di visione più conciliante rispetto al mondo distopico di Ōtomo.
Altrettanta sfortuna ebbe con la critica: i recensori, aggrappati al lanternino di Blade Runner per farsi luce nell’esegesi del film, si sprecarono a raccontare i numeri della lavorazione («160 mila disegni e 327 colori», sottolineò La Stampa) ma bollarono l’anime «poco avvincente» (sempre La Stampa) e «insopportabile» (La Repubblica). «C’è chi ha spacciato questo film per un capolavoro epocale» scrisse Oscar Cosulich. «Sarà forse vero per chi è cresciuto con le pappine televisive di Heidi e Remi». Fu solo con i passaggi televisivi e l’home video che la pellicola si fece conoscere e apprezzare.
Di Akira in Italia si parlò, negli anni successivi, più per il doppiaggio infelice, pieno di storpiature, tagli e travisamenti. In occasione del trentennale, il 18 aprile, Dynit riporta il film nei cinema italiani realizzando un nuovo doppiaggio che, nelle parole del distributore, “rispecchia fedelmente il testo originale”.
Abbiamo convocato i fautori della nuova edizione – Alex Corazza (product manager di Dynit), Stefano Santerini (direttore del doppiaggio), Ruben Baita (traduttore) e Lina Zargani (dialoghi italiani) – e ci siamo fatti raccontare cosa ha significato (ri)portare Akira in Italia.
Leggi anche: 30 anni di “Akira”, il capolavoro animato di Katsuhiro Ōtomo
All’epoca si lavorò senza la consapevolezza di avere a che fare con una pietra miliare dell’animazione. Come è stato approcciarsi a un film che nel frattempo è diventato un monumento?
Corazza: È la seconda volta che ho l’onere ma soprattutto l’onore di lavorare al nuovo doppiaggio di un film di culto, mi era già capitato con Ghost in the Shell, e devo dire che la responsabilità si sente. Detto questo, l’approccio è il medesimo per ogni nostra produzione, cerchiamo di mettere il massimo della cura in ogni cosa che facciamo. Certo in alcuni casi, come per Akira, la pressione si sente.
Baita: Sicuramente lavorare a un titolo così importante per un ridoppiaggio a lungo richiesto è stato un onore, ma al contempo pensare che la maggior parte del pubblico l’abbia conosciuto e apprezzato con dialoghi del tutto differenti ha creato un po’ di pressioni sul processo di traduzione, Una delle mie preoccupazioni maggiori era se sarebbe stato accettato fedele a com’è in originale o se avrebbero preferito gli adattamenti storici.
Santerini: Proprio in quest’ultimo anno che uno degli argomenti più caldi è stato quello del ridoppiaggio di vecchi film. Non voglio esprimermi sulle cause che spingono una società detentrice o meno dei diritti di un’opera a ridoppiare un prodotto già doppiato, certo è che se viene commissionato un lavoro simile, è necessario fare il possibile per rendere il film il più fruibile possibile, cercando di mantenere intatto lo spirito, non tanto del doppiaggio originale ma dell’epoca in cui il film è stato realizzato. E questo purtroppo non avviene molto spesso.
Con Akira ho cercato di conservare dei suoni che richiamassero un periodo storico per l’animazione giapponese, che poi è quello in cui io sono cresciuto. Sono nato nel 1970 ho avuto la fortuna di vedere moltissimi cartoni animati nipponici che hanno in parte formato la mia cultura. L’approccio, quindi, è stato molto rispettoso di quello che ho creduto Akira volesse comunicare, utilizzando per quanto possibile voci molto vicine ai disegni dei personaggi originali, piuttosto che alle loro voci giapponesi o italiane.
Avete guardato il precedente doppiaggio per farvi un’idea o siete passati direttamente alla traduzione?
Zargani: Io lo vidi quando uscì in Italia: facevo parte di una generazione che aveva mancato, per pochi anni, il boom degli anime nell’offerta televisiva per l’infanzia e quel film fu una scoperta. A parte la potenza visiva di Akira, stupefacente, mi colpì notare come lo stile grafico e i temi, politici e culturali, tipicamente giapponesi fossero contaminati dell’evoluzione, modernissima allora, del film di fantascienza americano, cupo, urbano e distopico. Blade Runner servì a me – e credo anche a molti altri – da ponte culturale per avvicinarmi al Giappone. La proposta di adattare la nuova edizione, dopo tanti anni, è stata una sorpresa bella e decisamente inaspettata: mi sono avvicinata a questo lavoro con emozione e anche una certa trepidazione.
Baita: Avevo già visto Akira in passato, essendo un titolo che ogni appassionato di animazione o cinematografia dovrebbe vedere almeno una volta, ma mai doppiato in italiano, perché già mi era giunta voce sullo stato del doppiaggio italiano.
Santerini: Conoscevo il film, ma non l’avevo mai visto per intero, all’epoca. Quasi inutile dire che i doppiatori originali sono tutti dei colossi, bravissimi e di enorme professionalità. Nel ridoppiarlo, era pressoché inutile ispirarsi a loro o cercare di copiarli. Ne sarebbe uscito un prodotto vuoto e probabilmente peggiore. Ci siamo mossi in tutt’altra direzione.
Nel vecchio doppiaggio erano stati cambiati i nomi di alcuni personaggi.
Corazza: Credo fosse più una storpiatura dovuta all’adattamento scritto partendo dalla versione americana del film. Noi, come per ogni altra produzione, utilizziamo i nomi giapponesi, nel rispetto della versione originale.
Baita: Sì, la versione distribuita nel 1992 da Eagle Pictures era basata sull’edizione americana uscita tre anni prima, tutti i nomi seguivano l’adattamento già effettuato per la traduzione anglofona ed è probabile che cambi a nomi come Kei diventata Kay e Ryu diventato Roy fossero stati fatti per aiutare la pronuncia dei doppiatori americani. Un fatto particolare che forse molti non sapranno è che sui copioni storici giapponesi il nome di Kei è stilizzato semplicemente come K, forse pensato inizialmente come un nome in codice a significare il suo impiego come spia. Per la versione italiana ho seguito fedelmente i nomi utilizzati nei dialoghi giapponesi, anche se chi ha letto il manga saprà che personaggi come il Colonnello in quella versione che prosegue la storia hanno un nome vero e proprio.
E sulla pronuncia come vi siete regolati?
Santerini: Su questo tipo di prodotti noi ci affidiamo completamente al cliente che ovviamente ha un’esperienza pluriennale in materia di animazione giapponese. Normalmente riceviamo la lista delle pronunce e a quelle ci atteniamo. Ovviamente in sala non siamo completamente passivi. Cerchiamo sempre di replicare (italianizzandolo, ovvio) al suono che percepiamo in originale e se qualcosa non torna in modo evidente lo segnaliamo e ne parliamo. Lo stesso vale nel caso sia capitato di doppiare in passato altri prodotti giapponesi in cui alcuni nomi sono già stati usati. Noi poniamo il problema al cliente che poi decide quale strada seguire. Molte volte, per alcune pronunce in particolare, facciamo due versioni e le diamo entrambe al cliente che decide in ultimo, in fase di mix definitivo quale utilizzare.
In sala, mettiamo sempre la massima attenzione alla coerenza delle pronunce: se ad esempio si decide per “New York”, pronunciandola “Niù iòrk”, non capiterà mai di sentire pronunciare, durante il film, da qualche doppiatore, “Nù iòrk”. Mentre in oiginale gli attori, probabilmente proveniente da zone diverse degli Stati Uniti (in questo caso l’esempio si riferisce a un tipico film americano, ma la stessa cosa l’ho riscontrata dirigendo film nelle lingue più disparate), pronunciano la stessa parola e/o lo stesso nome in modo diverso. Siamo noi che uniformiamo il tutto per rendere il prodotto fruibile a chiunque. In orginiale, questa attenzione è meno maniacale.
Come si è svolta la selezione delle voci?
Santerini: Le voci sono state selezionate facendo dei provini molto mirati, che poi il cliente ha valutato, comunicandomi la sua scelta. È interessante sottolineare come a noi sono arrivati – cosa che capita raramente – tre diverse scene di provini per ogni personaggio protagonista. Sono stati convocati diversi attori che si sono impegnati al massimo in ogni singola scena, e devo dire che ognuno di loro dava al personaggio che interpretava un colore univoco e molto interessante. La scelta finale è spettata comunque al cliente, che ha visionato con attenzione tutti i provini e ci ha rivelato i nomi dei doppiatori selezionati.
Il vecchio doppiaggio in certi punti (penso alle voci dei tre esper) aveva compiuto scelte radicali. Voi come vi siete mossi?
Santerini: Abbiamo cercato di rendere il doppiaggio immediato, usando delle voci che ci sembrassero il più coerenti possibile con i personaggi, con una recitazione asciutta e disposta anche a dei piccoli compromessi. Abbiamo deciso di utilizzare bambini veri per i tre esper, due su tre molto piccoli, come nell’originale, indipendentemente dal loro aspetto “anziano”, rinunciando magari a una interpretazione sicuramente più “pulita” e “matura”, e regalandone una che avesse cuore e che desse delle emozioni sincere.
Corazza: Credo che questa fosse una delle incongruenze più odiate, passatemi il termine, della vecchia versione italiana.
Vi è venuta la tentazione di chiamare qualcuno dei doppiatori originali?
Santerini: L’idea di richiamare i doppiatori originali dopo così tanti anni non l’abbiamo considerata. I doppiatori invecchiano, ovviamente, e così le loro voci. C’è qualche attore che nonostante l’età riesce a conservare un suono e una timbrica più giovane della reale età anagrafica, ma cambia comunque la mentalità. Personalmente, da direttore, cerco di far fare a ogni doppiatore un personaggio che abbia nel film la sua stessa età.
Il pensiero si modifica con il passare del tempo, e spesso mi capita di sentire molti colleghi non più giovanissimi che doppiano attori che hanno 20 anni di meno o anche di più, e purtroppo – senza nulla togliere alla loro bravura – il pensiero, quando viene detta una battuta, tradisce l’età anagrafica. Come accennato in precedenza, per i bambini abbiamo scelto dei bambini veri, tranne la bambina che essendo più grande degli altri – o almeno così sembra visivamente – è doppiata da una giovane collega.
C’è stato qualche punto in cui vi si siete per forza dovuti discostare dal testo originale per problemi di intraducibilità?
Corazza: No, salvo magari piccoli cambiamenti dovuti al rispetto della lunghezza della battuta. In questo in Dynit siamo sempre molto rigorosi e chiediamo che l’adattamento si discosti il meno possibile dalla traduzione del copione giapponese.
Baita: È capitato che alcuni giochi di parole presenti in originale siano stati adattati per farli funzionare in italiano, mantenendo comunque un significato quanto più simile al giapponese. In particolare, Kaneda, che non è un ragazzo molto sveglio, alcune volte si confonde coniugando in modo errato alcune frasi fatte giapponesi, cosa che risulta palese quando uno dei poliziotti all’inizio del film gli risponde a tono facendogli notare l’errore.
Zargani: In quel caso, e in pochi altri nel film, tradire è stato inevitabile e ho dovuto fare una scelta. Mi era stata fornita dalla committenza una traduzione dal giapponese con la richiesta di essere, nei limiti del possibile, molto fedele. Mi è parso che in quella scena fosse essenziale andare all’osso ed evidenziare, più di ogni altra cosa, la corrente emotiva: l’impaccio di Kaneda nel raccontare la scusa, la battuta un po’ scema con cui il poliziotto sottolinea e smaschera l’impaccio, lo stupore di Kaneda seguito da una risata, visibilmente forzata, per compiacere il discutibile humor del poliziotto.
Ma Akira è un film strano e originale, non univoco, e credo che fosse lì la sfida importante: nel cercare di restituire gli scarti (e a volte anche la mescolanza) dei registri espressivi del film in cui, secondo me, si riflettono due dei temi forti di Akira: il linguaggio esatto e affilato della scienza e la strana lingua, vaga ed evocativa, della spiritualità.
Trent’anni dopo, come è cambiato – se è cambiato – l’adattamento di un film del genere?
Zargani: È cambiato completamente il mondo. Trent’anni fa le lingue erano meno conosciute e soprattutto senza la rete non era possibile l’accesso immediato a fonti sottotitolate, tendenti per natura e per missione ad una maggiore letteralità. Nell’adattamento e nel doppiaggio si tendeva molto più di oggi ad avvicinare l’opera tradotta alla cultura d’arrivo, quella italiana; a realizzare insomma una sorta di traduzione culturale con l’intenzione di rendere l’opera fruibile e godibile per il pubblico nazionale.
Inoltre la nozione che il cinema di animazione potesse avere un target adulto non era generalizzata, film d’animazione per adulti come Fritz il gatto erano usciti in Italia ma avevano avuto storia molto breve ed erano apprezzati da una nicchia assai ristretta. Nell’edizione italiana dei prodotti di animazione, quindi, si tendeva d’ufficio ad abbassare al massimo la temperatura di tutte le scene di sesso e violenza, per andare sul sicuro. Credo che questo sia uno dei motivi per cui Akira è uno spartiacque: da lì in poi l’idea che il genere di animazione potesse essere destinato ad un pubblico adulto divenne generale.
Ovviamente questa intenzione di interpretare i gusti e alle esigenze del pubblico, reali o presunte, lasciava all’interpretazione uno spazio che il mondo di oggi, meno provinciale e più vigile, non accetta più. Resta, a noi che scriviamo dialoghi, il compito – un po’ da equilibristi – di comprendere e rispettare questo nuovo approccio facendo attenzione a non rinunciare, per eccesso di letteralità, all’esigenza di restituire quell’illusione, quella naturalità e quella fluidità che rendono il doppiaggio, per definizione immediato, un’arte ancora viva e godibile.
È cambiata anche la lingua?
Baita: Il film di Akira, benché uscito nel 1988, è ambientato ai giorni nostri, nel 2019. Per rendere questo particolare, ho cercato di far parlare in modo non troppo ricercato e abbastanza moderno i ragazzi della banda di Kaneda, che molte volte sono veramente scurrili. A confronto, personaggi come il Colonnello o il Dottore si esprimono chiaramente in maniera più forbita, mentre i bambini con poteri psichici si esprimono semplicemente come farebbe un bimbo piccolo.
Santerini: L’italiano è più aggiornato, forse in qualche caso più fluido, decisamente meno edulcorato. Non avremmo mai sentito delle imprecazioni in un cartone animato giapponese degli anni ’70 o ’80. Qui, invece, ci sono, ne ho trovate diverse e ho deciso di lasciarle così come indicato in traduzione, proprio per cambiare il volto di un film ormai considerato un cult, che forse all’epoca era già più coraggioso nella lingua originale di quanto non lo fosse il doppiaggio italiano (o meglio i clienti che lo commissionavano).